Contenuto
Percorso : HOME > Monachesimo agostiniano > Storia dell'Ordine > Giamboniti > Kasper ElmKasper Elm: GLI EREMITI DI FRA GIOVANNI BONO
Innocenzo IV costituisce l'Ordine agostiniano
affresco del Fiammenghino in san Marco a Milano
GLI EREMITI DI FRA GIOVANNI BONO
di Kasper Elm
L'Ordine dei Zambonini sorse all'inizio del XIII secolo nella macchia di Butriolo, situata nei pressi di Cesena nelle propaggini dell'Appennino, a circa 60 km. soltanto da Brettino, dove nel medesimo periodo si costituì la comunità di eremiti che prese il nome da quel luogo. I due Ordini confluiti nel 1256 nell'Ordine eremitano agostiniano sono quindi vicini per luogo e periodo d'origine. La loro affinità non riguarda tuttavia solamente le date esteriori. Anacoretismo, ascesi, povertà e mendicità, così come l'attività pastorale crescente nel corso del tempo, hanno determinato in egual misura la spiritualità dei Brettinesi e dei Zambonini, cosicché anche a causa della loro affinità spirituale possono essere considerati come un unico gruppo (Che nemmeno la Curia sapesse fare distinzione alcuna tra i due gruppi diffusi nella stessa regione, risulta dalle prescrizioni sull'abito da parte di Gregorio IX. Cfr. Anm. 305). L'Ordine dei Zambonini si distingue tuttavia da quello dei Brettinesi per il fatto che in esso le forme di religiosità sono più chiaramente delineate e la loro cooperazione era collegata a certe difficoltà e ad occasionali tensioni. La maggiore vivacità dell'Ordine dei Zambonini e la più intensa varietà della sua storia che da essa scaturiva, si può spiegare in diversi modi. Le sue origini non sono né collettive né anonime. L'Ordine risale piuttosto - come indica il nome - all'unico fondatore, Giovanni Bono.
Questi, fondatore dell'Ordine, a torto quasi dimenticato dalla storia, unì alla sua mitezza, molto più conosciuta, una forte volontà che lo indusse con vigore alla realizzazione delle sue idee monastiche. Una volontà che poté tuttavia esprimersi non senza conflitti con l'ambiente esterno, addirittura con l'Ordine da lui stesso fondato. La forza plasmante di questa personalità fu tanto più forte quando essa venne meno per la prima volta nel 1249, che poté operare quasi fino alla dissoluzione dell'Ordine. La seconda ragione per cui la storia dei Zambonini appare più vivace è molto più concreta. A tale proposito non siamo vincolati alle scarse affermazioni dei privilegi papali, che descrivevano più l'aspetto giuridico che non quello spirituale, bensì possediamo tutti gli atti delle indagini condotte nell'ambito della preparazione del processo di canonizzazione, atti che sul fondatore e sugli inizi dell'Ordine comunicano non soltanto una serie di fatti, ma consentono di trarre conclusioni analogiche che possono dare rilievo alla pallida storia dei Brettinesi. Il 27 luglio 1251, due anni dopo la morte di fra Giovanni, in S. Marco a Mantova, su richiesta del vescovo Giacomo della Porta e del comune di Mantova, ebbero inizio le prime interrogazioni dei testimoni che durarono fino al 6 agosto e che furono condotte, su incarico di Innocenzo IV, dal vescovo Alberto da Modena assieme a Innocenzo Gonzaga, prevosto del Capitolo della cattedrale di Mantova, ed al priore del già citato convento di S. Marco (Innocenzo IV, 17.6.1251, TORELLI IV, pag. 451; BERGER, II, nr. 5255; ders. (17.6.1251), AA.SS., Oct. IX (1869) pag. 772; BERGER, II, nr. 5256). Portate avanti dal 28 settembre al 4 dicembre 1253, esse furono terminate finalmente nel gennaio 1254, dopo una terza fase del processo aperta il 27 dicembre 1253 a Cesena, in entrambi i casi sotto la presidenza del Maestro Michele, un cappellano del seguito del cardinale Guglielmo Fieschi, allora cardinale protettore dell'Ordine dei Zambonini. Gli ampi atti redatti dai notai Bonaventura e Lanfranco, ed in seguito da mano sconosciuta - atti che mostrano una conduzione sorprendentemente critica dei dibattiti, volta ad una precisa comprensione delle materia - riassumono le dichiarazioni di 232 testimoni, i quali non soltanto per vivo ricordo, ma anche secondo la loro diversa origine, riferiscono sotto aspetti differenti sulla vita, i miracoli e la fede del defunto in odore di santità.
La fonte ha perciò un valore per la storia primitiva dell'Ordine che nessun altro documento ha dimostrato (Secondo una copia dell'originale, redatta nel 1641 e conservata nell'Archivio di Stato di Mantova, Busta 3305, il processo venne pubblicato da E. CARPENTIER in AA.SS., Oct. IX (1869), pag. 771-886 (=P) e corredato da un "Commentarius praevius". Su di esso si appoggiano le ultime, per lo più scarse, narrazioni della sua vita: F. ROTH, Der selige Johannes Bonus, in COR UNUM VII (1949), pag. 43-51, 69-76; BELLANDI, Il VII Centenario della morte del nostro b. Giovanni Buono, in Bollettino Storico Agostiniano, XXVI (1950), pag. 10-12; RR. PP. BÉNÉDECTINS DE PARIS, Vies des Saints et des Bienhereux selon l'ordre du Calendrier, X, Paris 1952, pag. 801-803; G. FERRINI, Il B. Giovanni B. nel VII centenario della sua morte, Forlì 1948; B. RANO, Fr. Juan Bueno fundador de la Orden de los Eremitaños, in Archivo Augustiniano LVI (1962), pag. 157-202. Sulla letteratura cfr. anche: B. VAN LUIJK, El santoral agustiniano, in Rev. August. de Esp. III (1962), pag. 379-380). La figura di Giovanni Bono (Accanto a questo nome é corrente altresì "Zanebonus", ad es. P. 798, 101; 799, 107 etc.; CARPENTIER in AA.SS., Oct. IX, pag. 695 e ROTH in AUG. II (1952), pag. 124, Anm. 196 lo spiegano come unione del nome del padre e si quello della madre: Giovanni e Bona. Questa forma nominale, che compare più volte anche nel resto del Processo, é talmente corrente nel Duecento, che la sua spiegazione riesce superflua. La fama Giovanni Bono de Bonomi, comparsa ad es. in COSTANZO LODI DA S. GERVASO, Vita e miracoli del b. Giovanni Buono, Bergamo 1590, e adottata anche da C. FERRARINI, La "Leggenda del b. Zanebono da Mantova", in Accademie e biblioteche d'Italia, X (1936), pag. 263-266 si basa sulla sua identificazione, ritenuta inverosimile dal Carpentier, con quella della famiglia patrizia dei Bonomi. Infine, sull'espressione "boni homines" come indice di eresia, cfr.: H. GRUNDMANN, in Archiv. f. Kulturgeschichte XLV (1963), pag. 84, Anm. 62), la cui caratterizzazione deve precedere la descrizione della storia e della tipicità dell'Ordine da lui fondato, per quanto riguarda le testimonianze citate si trova naturalmente al centro dell'attenzione. I testimoni sanno che egli dal 1209 al 1249 condusse nell'isolato Butriolo un'esistenza (P. 846, 294; 847, 298; 849, 303; 850, 308; etc. Quanto alle date rese dai testimoni, si tratta di datazioni non del tutto chiare.
I membri dell'Ordine sostengono che Giovanni ha vissuto a Butriolo per 40 anni (1209-1249). Si deve prestare maggior credito a quelli che hanno avuto rapporti più stretti e continuativi con Giovanni che non ad altri, i quali delimitano meno esattamente il periodo a 38 o 39 anni) che essi definirono con estrema chiarezza con il concetto di poenitentia (P. 840, 268; 841, 271; 846, 294 etc). Le loro affermazioni sono risposte allo stereotipo di domande ricorrenti da parte della commissione esaminatrice. Guidati da queste domande, essi sottolineano nel carattere e nelle esperienze della vita di Giovanni quei tratti che corrispondono alla rappresentazione tradizionale dell'essenza della santità. Nonostante tali limitazioni, essi rendono manifesto il fatto che la spesso menzionata poenitentia si realizzò in forme caratteristiche dell'eremitismo medievale e del primo cristianesimo. Giovanni, che definiva se stesso peccatore (P. 825, 214) e che venne definito come peccatore eremita (Cfr. Anm. 102), corrispose nella sua esteriorità alle rappresentazioni che noi sulla base delle fonti letterarie ed iconografiche, possiamo fare del ritratto esteriore di un eremita. Portava una lunga barba, incanutita nella vecchiaia (P. 847, 299; 849, 305), e per la maggior parte della sua vita di preghiera indossò una sottile tunicella grigia con il cappuccio cucito sopra. Questa era trattenuta da una cintola e lasciava scoperti i piedi e le gambe al di sotto del ginocchio (P. 772, 6; 736, 17; 782, 38 etc.: "unica tantum cuculla staminea subtilis" - "cum capucio iuncto cum ipsa tunicella" - "grisei coloris" - "tunica sive cuculla, quae cingebatur desuper" - "nudis cruribus et pedibus incedebat semper, sed quandoque ferebat zipellos ligneos").
Il bastone, ritenuto attributo tipico dell'eremita accanto alla barba e all'abito lungo fino al ginocchio, non viene menzionato negli atti del processo. Poiché però ancora nel 1240 di membri del suo Ordine si disse che apparissero baculos gestantes in manibus, si deve concludere che anche il fondatore dell'Ordine non fosse sprovvisto di questo segno caratteristico (Gregorio IX, 24.3.1240, EMPOLI, pag. 126; POTT., nr. 10860/8504). Giovanni, come era consuetudine per gli antichi eremiti e per i gruppi impegnati nella realizzazione della vita evangelica, rinunciò alle calze sia in estate che in inverno, e quando non andava a piedi nudi, indossava zoccoli di legno che come un pesante copricapo di lana in estate, dovevano servire non alla comodità, bensì alla mortificazione (P. 842, 278; 831, 237; 785, 50). La sua cella, situata nei pressi di una sorgente, una capanna a se stante, neanche in inverno veniva riscaldata. Oltre ad alcuni oggetti devozionali, come il crocifisso e l'immagine della Madonna, essa conteneva una nuda tavola di legno di quercia che, perlopiù senza coperta, doveva servirgli per il riposo notturno (P. 772, 6; 782, 38 etc). Le veglie notturne, che in periodi di particolari tentazioni duravano fino a tre notti, consentivano certamente solo un breve riposo (P. 781, 36; 838, 258; 844, 283; 843, 279 etc.). Nel tempo che restava, la sua vita nella cella era determinata dai classici esercizi degli anacoreti: silenzio, preghiera, digiuno e mortificazione. Il silenzio quale strumento di ascesi e presupposto della contemplazione, nei giorni in cui egli riceveva la Comunione e nei periodi di digiuno raggiungeva il suo culmine (P. 843, 279; 845, 289 etc); negli altri periodi i rapporti con i compagni e l'andirivieni dei fedeli che lo cercavano non consentivano un simile e rigido isolamento. La preghiera si limitava more laicali alla ripetizione di poche formule di cui faceva significativamente parte il salmo penitenziale Miserere mei, Domine. Dell'intensità della preghiera, che consisteva ad esempio nel ripetere duecento volte il Padrenostro (P. 782, 38. La ripetizione del Padre Nostro era corrente presso i Catari e i Valdesi (Cfr. A. BORST, Die Katharer, Stuttgart 1953, pag. 191 und K. MÜLLER, Die Waldenser und ihre einzelnen Gruppen bis zum Anfang des 14 Jahrhunderts [I Valdesi e i loro singoli gruppi fino all'inizio del sec. XIV], Gotha 1886, pag. 76). Non bisogna tuttavia collegare con quelli la pratica della preghiera di Giovanni (ROTH in AUG. II (1952), pag. 131, perché essa ha una lunga tradizione ortodossa, specialmente eremitica (Cfr. L. OLIGER, Regula reclusorum Angliae et Quaestiones tres de Vita Solitaria saec. XIII-XIV, in Antonianum IX (1934), pag. 79, Anm. 33)), danno testimonianza le forme delle dita dei piedi, delle ginocchia e delle mani rimaste impresse nel pavimento della sua cella (P. 831, 238; 842, 278; 845, 288 etc.): tracce che portano a concludere che Giovanni assumesse un atteggiamento di preghiera simile alla prosternazione che ancor prima di lui, sull'esempio degli eremiti protocristiani, Stefano da Muret e Godri da Finchale stimavano quale esercizio ascetico particolarmente difficile L. GOUGAUD, Eremites et Reclus, Ligugé 1928, pag. 31-32).
Giovanni si asteneva quasi completamente dalla carne, digiunava tutti i giorni tranne la Domenica, quando assumeva una pietanza sostanziosa se le sue condizioni di salute lo rendevano indispensabile (P. 776, 16-17; 840, 269; 844, 286 etc.). Durante i periodi di digiuno della Chiesa egli rinunciava pressoché totalmente al mangiare ed al bere. Nell'ultimo periodo di digiuno della sua vita - nell'anno 1249 - si accontentava ad esempio di non più di un pane e di una scarsa porzione di vino reso praticamente imbevibile in quanto mescolato con una brodaglia salata. Questi sforzi ascetici, in tutta la loro durezza comunque convenzionale, furono coronati da pratiche di sovrumana mortificazione. Di tanto in tanto Giovanni si infilava schegge di legno sotto le unghie allo scopo di resistere alle tentazioni della luxuria (P. 774, 13-14). Con la medesima intenzione egli si tagliuzzava la pelle su un letto di tortura fatto di schegge appuntite e di corteccia d'albero (P. 781, 36; 785, 50; 789, 66 etc. ), quando addirittura - come accadde ancora in età avanzata - non si obbligava a testa in giù in una fossa cosparsa di bastoncini, in una maniera che agli stessi suoi compagni appariva singolare, al fine di accrescere ulteriormente il dolore causato dal grottesco comportamento da fachiro (P. 776, 18; 782, 38; 789, 66). Tipici come i comportamenti ascetici sono anche le facoltà sovrannaturali attribuite dai testimoni agli eremiti. Come gli anacoreti dell'antichità, Giovanni era dotato del dono delle lacrime. Nel suo caso, tuttavia, non si trattava dell'espressione di una tristezza dovuta alla profonda coscienza dei propri peccati, ma del segno della commozione che egli provava nel ricevere l'Eucaristia (P. 772, 6; 832, 240; 843, 288 etc). La sua grazia pneumatica si manifestava nella capacità di superare i demoni (P. 777, 19) e di discernere gli spiriti (P. 782, 39; 785, 53 etc), così come nel dono profetico che gli consentiva di prevedere il destino dei suoi confratelli e di predire la sua stessa morte in un modo che ricordava il monachesimo antico (P. 782, 39; 792, 81 etc). Essa culminò nel suo potere, sempre celebrato, di operare miracoli, di cacciare il Maligno e di guarire i malati. Il nostro primo tentativo di caratterizzazione sottolineava i tratti tipici nel comportamento di Giovanni Bono e alla sua figura prendeva l'individualità storica stilizzandola e riducendola all'ideale eremitico senza tempo alla stessa stregua degli atti del processo. Quanto tuttavia l'eremita fosse in realtà influenzato dalle correnti religiose e politiche del suo tempo diviene chiaro se si cerca di rappresentare la sua attività pastorale.
L'affluenza al suo eremo di credenti provenienti dalla Romagna e dalle regioni confinanti (P. 834, 243: "Propter publicam famam multae sanctitatis et miraculorum... dictus testis videbat venire gentes multas et de partibus Lombardiae et de Romandiolae et de Venetiis et multis aliis partibus", cfr. 835, 243; 851, 311; 852, 314; 856, 333) gli offriva la possibilità di esercitare per così dire in situ la sua attività apostolica. Lo scopo di quest'ultima, per la quale era particolarmente portato grazie alla sua vigorosa forza di persuasione (A questo proposito i testimoni dichiarano che essi ascoltavano Giovanni "libentissime" e con "aviditas". P. 772, 5), non consisteva solamente nell'esortazione ad una vita migliore, bensì - cosa estremamente attuale - nel conflitto con le minacce politiche e religiose che la Chiesa dovette affrontare nella prima metà del XIII secolo. La posizione del suo eremo nelle vicinanze della via Emilia gli consentì di opporsi con discorsi, prediche e rimproveri alla minaccia politica degli Svevi, dei loro dignitari e sostenitori (P. 834, 243; 835, 248; 851, 311 etc). Egli cercò continuamente di far capire ai seguaci del partito imperiale, i quali, in massima parte scomunicati, interrompevano i loro viaggi per vederlo, che al seguito dell'Imperatore si trovavano sulla via della perdizione (P. 845, 289; 850, 307 etc). Se si può prestar fede ai testimoni, a Butriolo egli andò incontro al figlio stesso dell'imperatore, Enzo, allo scopo di persuaderlo ad abbandonare la causa di suo padre e a sottomettersi al comando della Chiesa (Frater Johannes testis: "Dicebat et pubblicavit Entio, filio Frederici quondam imperatoris, et aliis eius nuntiis et potestatibus, qui mittebantur Caesenae: Vos estis excomunicati, et dominus vester est excomunicatus; et potestatem non habetis iudicandi; et salvari non potestis, neque dominus vester, qui vos misit, nisi redeatis ad mandatum ecclesiae Romanae", P. 846, 293 cfr. anche 834, 243; 845, 289; 850, 307. Sul vicariato del re Enzo in Romagna: M. OHLIG, Studien zum Beamtentum Friedrichs II in Reichsitalien von 1237 bis 1250 [Studi sulla burocrazia di Federico II nel regno d'Italia dal 1237 al 1250], Tesi di Laurea, Frankfurt 1936, pag. 98). La lotta per l'autorità della Chiesa era per lui così importante, da indurlo a lasciare il suo eremo - il che accadde solo raramente - per esortare, nella sua maniera semplice ma inequivocabile, i vicarii et nuncii imperiali che soggiornavano a Cesena, ad assoggettarsi alla Santa sede (P. 845, 289).
Dalla Historia Ravennatum si viene a conoscenza del fatto che egli riuscì a comporre controversie fra Ravenna e Cervia (Historiarum Ravennatum libri sex, Thes. Antiq. Et Hist. Italiae I, c. 377: "Per idem tempus (1225) Petrus Traversaria de rei publicae Ravennatis et Cervensium sententia, Johannem Bonum, virum religiosum, qui se peccatorem eremitam appellabat, arbitrem elegit, ut totiamdiu agitatas inter se disceptationes tolleret". TORELLI, IV, pag. 264 cambia il nome del Podestà e attribuisce la posizione a Paolo, figlio di Pietro Traversari. Cfr. S. BERNICCOLI, Governi di Ravenna e di Romagna dalla fine del secolo XII alla fine del secolo XIX, Ravenna 1898, pag. 13-16. I conflitti tra Ravenna e Cervia non cessano nemmeno con l'arbitrato di Giovanni Bono: F. FORLIVESI, Cervia. Cenni storici, Bologna 1889). Al confronto fra la Curia e gli Svevi che ebbe fine solamente col tramonto della dinastia sveva, l'eremita, debole ed in grado di agire soltanto con la parola, non poté togliere nulla della sua risolutezza. I suoi tentativi furono vani come l'impresa audace ma illusoria di S. Francesco che voleva convertire il sultano al cristianesimo. Oltre all'agitazione politica, il tema determinante delle prediche e delle esortazioni di Giovanni Bono era il conflitto con le minacce religiose, ossia con le eresie che nella prima metà del XIII secolo erano vive più che mai.
Gli sforzi da lui sostenuti nella lotta contro l'influenza degli eretici, fra i quali i Catari, a ragione, gli sembravano particolarmente pericolosi, ebbero più successo dei tentativi di esercitare un influsso politico. Stando alle affermazioni dei testimoni, molte persone cadute in eresia furono convertite da Giovanni Bono e ricondotti nella chiesa (Frater Moroellus testis: "Multi ex illis qui non credebant in fidem sanctae Romanae ecclesiae conversi sunt ad fidem, et tenent, et observant eam tamquam catholici homines", P. 834, 244. "Multi qui male credebant conversi sunt ad fidem catholicam et obedientiam s. Romanae ecclesiae; et multi qui primo erant pleni lascivia et mundano et carnali amore, verbis et exhortationibus dicti fratris Joannis Boni adepti sunt aliquem habitum religionis vel penitentiae", P. 837, 256. Cfr. ähnlich P. 834, 244). Sul metodo utilizzato da Giovanni in questi tentativi di conversione, riferisce con grande precisione un carrozzaio originario di Mantova, Giacomino, il quale circa nel 1237 fu convertito da Giovanni (P. 828-829, 228-230). L'impulso alla sua conversione, sebbene involontariamente, scaturì da lui stesso (Cfr. II Celano, 78-79, in Analecta Franciscana, X (1926-1941), pag. 117ss, dove Francesco viene ugualmente provocato dagli eretici, come Giovanni e i suoi compagni dal suddetto Giacomino). Il vero atto di conversione non si manifestò in modo razionale, bensì grazie ad un miracolo dell'eremita. Lo precedettero tuttavia discussioni teoriche che consistettero nel fatto che Giovanni tentasse di condurre l'eretico sulla via dell'ortodossia attraverso il richiamo ad auctoritates ed exempla sanctorum. Gli ammaestramenti non cessarono neanche dopo la conversione. All'eretico che come penitente espiava la sua deviazione, Giovanni insegnò gli articoli del Credo come la Chiesa di Roma li insegna ed egli da allora si attenne ad essi, stando a quando da lui riferito. Questo metodo, in sé evidente, appare nella sua giusta luce soltanto se si richiama alla mente il fatto che Giovanni Bono non era un chierico, ma un laico, che non era in grado né di leggere né di scrivere, e che sapeva recitare appena il Pater nostrer, il Credo, il salmo Miserere ed alcune altre orationes non meglio identificate ("Testis dixit, quod dictus frater Johannes Bonus erat illiteratus sciebat tamen quosdam psalmos et orationes et Credo in unum Deum et alias virtutes et Pater noster et Ave Maria", P. 844, 279. Cfr. P. 774, 14: "idiota". P. 774, 13: "Interrogatus si dictus frater Johannes habebat aliquos ordines, vel erat clericus, respondit quod non, sed erat tantum laicus").
Non sappiamo quando questo impulso alla predicazione e al dedicarsi alla parola di Dio - impulso che egli condivise con i contemporanei ortodossi ed eretici - trovò una legittimazione attraverso il magistero della Chiesa. Con maggiore probabilità emerge dagli atti del processo il fatto che il tentativo, intrapreso senza una formazione teologica, di addentrarsi nel campo della predica dogmatica partendo da quello dell'exhorte priva di vincolatività che da sempre agli eremiti stava aperta davanti, fu realizzato solamente con difficoltà e che condusse a conflitti con il clero competente. Il laico, che insegnava agli eretici, sicut deberent credere articulo fidei et sicut ecclesia Romana credit et tenet, nel 1224, davanti al vescovo Ottone II da Cesena, dovette scagionarsi da accuse che alcuni fratres de poenitentia avevano avanzato contro di lui. Nel 1251 i testimoni non si potevano più ricordarsi di che genere di calunnie di trattasse. Soltanto uno di loro, il frate Bonincontro sapeva ancora che l'eremita aveva dovuto difendersi a causa di quaedam capitula (Alla domanda sulle eventuali persecuzioni, risponde fra Bonincontro: "Dicit quod sic, videlicet a quibusdam fratribus de poenitentia, qui persequebantur ipsum fratrem Joannem Bonum, infamando ipsum super quibusdam capitulis coram episcopo Caesenate, de quibus dictus testis dicit se non recordari. Super quibus capitulis et de quibus infamiis ipse frater Joannes Bonus se coram dicto episcopo, corporali praestito sacramento, optime compurgavit", P. 788-789, 65. Cfr. P. 774, 12: "coram venerabili praesule D. Ottone episcopo Caesenate"). Sei anni più tardi Giovanni si trovò in una situazione simile. Nel 1234 egli discusse con un canonico cesenate di nome Letus, definito come un esperto di diritto canonico. Egli riuscì a convincere questi della giustezza della sua opinione riuscendo a trovare con assoluta sicurezza nel Liber decretalium a lui sconosciuto il passo che supportava l'idea da lui rappresentata. Secondo quanto riferito dai testimoni si deve a malapena supporre che Giovanni abbia dovuto difendersi, forse a causa del suo cambiamento di vita, di fronte al vescovo ed al canonico, agli esponenti o rappresentanti del magistero della Chiesa.
Si giunge più prossimi alla verità se si suppone che asserzioni dogmatiche, che agli accusatori apparivano sospette, conducessero a denunce e ad indagini. Se si presuppone tali circostanze di fatto, l'indicazione secondo cui Giovanni Bono con il canonico sovracitato disputò sulla quaestio matrimonialis, può dare ulteriori chiarimenti ("Dicit etiam idem testis, quod cum quodam tempore quaestio matrimonialis discuteretur inter dictum fratrem et dominum Letum canonicum, iure peritum, unus affirmando et alter inficiando quod ita debet esse...", P. 774, 14). Per quanto riguarda la questione del valore e della validità del matrimonio, che era ciò che probabilmente si poteva intendere con la quaestio matrimonialis, non si trattò di un problema accademico (D. LINDER, De usu matrimonii. Eine Untersuchung über seine sittliche Bewertung in der kath. Moraltheologie alter und neuer Zeit [Ricerca sulla sua valutazione morale nella teologia morale cattolica nell'antichità e nell'epoca moderna], Munchen 1929; BORST, Die Katharer, pag. 180-183; G. KOCH, Frauenfrage und Ketzertum im Mittelalter [La questione delle donne e l'eresia nel Medioevo], Berlin 1962, pag. 107ss, 16ss). Il dualismo cataro implicava la negazione del matrimonio come uno strumento del demonio e faceva della questione sulla sua ammissibilità e legittimità morale uno dei più importanti punti di controversia fra ortodossi ed eretici (P. 814, 168; 838, 258 etc). E' quindi ovvio supporre che Giovanni Bono, riguardo a tale questione, avesse preso posizione nella controversia con gli eretici ma che si fosse discostato, almeno secondo l'opinione degli accusatori, dal punto di vista ortodosso. In entrambi i casi Giovanni fu in grado di difendersi.
L'incapacità di distinguere con sicurezza fra i comportamenti, sotto molti aspetti simili, dei movimenti religiosi ortodossi ed eretici del XIII secolo - incapacità venuta alla luce in tale occasione - si manifestò tuttavia ancora una volta dopo la sua morte. Le indagini predisposte nelle prime fasi del processo di canonizzazione non furono evidentemente sufficienti a giustificare una canonizzazione. La generale prudenza ed i risultati fino ad allora ottenuti resero al contrario necessaria l'effettuazione, due anni dopo, di interrogazioni sotto nuovi punti di vista. Nel 1253 non si fecero più come un tempo indagini esclusivamente sulla vita e sui miracula del candidato: perno delle indagini divenne la fides (P. 814, 168; 838, 258 etc.). Le risposte furono conformi a ciò. Il pubblico contrasto con i Catari (P. 844, 282: "publice detestavit Gazaros et Patarenos". Cfr. anche 839, 307 etc.), la confessione del Credo (P. 839, 263: "Credo in unum Deum, quem dicebat more laicali". Cfr. anche 840, 267 etc.), la venerazione della Madonna e della Croce (P. 838, 260; 840, 267; 847, 297), il ricevere i sacramenti (Cfr. Anm. 123, 124), la preghiera frequente (Cfr. Anm. 85), l'uso dell'acqua benedetta (P. 838, 260; 840, 267 etc), la fedeltà alla Chiesa di Roma ed il timore reverenziale nei confronti del clero sono argomenti istruttivi (Cfr. Anm. 129) con i quali i testimoni, fra i quali Mangino (1234-54), successore del già citato vescovo Otto da Cesena, cercarono di dissipare i dubbi della commissione e di dimostrare l'ortodossia dell'eremita (B. Manginus: "Credit quod dictum fratrem fuisse virum catholicum... habebat se tamquam vir iustus et sanctus, et homo plenus spiritu Dei", P. 814, 160. P. 821, 198: "erat multum catholicus, quo nullus magis catholicus". P. 840, 267: "erat multum cultor fidei catholicae". P. 845, 289: "erat custos catholicae fidei". Cfr. anche P. 825, 173; 817, 177 etc). Per motivi dei quali noi possiamo soltanto supporre che avessero forse a che fare con l'ortodossia personale di Giovanni, secondo noi indubitabile, il processo rimase senza risultato, cosicché il suo ricordo sbiadì soprattutto quando l'Ordine, dopo la sua fusione con gli Eremitani agostiniani, presto cominciò a venerare come patrono Agostino. La sua tomba in S. Agnese a Mantova, venerata dai fedeli nella metà del XIII secolo, cadde nell'oblio. Su iniziativa dei Gonzaga e dell'Ordine eremitano agostiniano, tuttavia, il suo culto conobbe a partire dalla fine del XV secolo una rinascita. Questi sforzi, però, non riuscirono ad andare oltre la beatificazione grazie a Papa Sisto IV e a limitate concessioni mediante i suoi seguaci.
All'eremita Giovanni Bono rimase precluso l'onore degli altari in senso stretto (Nel 1470 circa, sotto Federico Gonzaga, le reliquie di fra Giovanni Bono vennero trasportate dalla chiesa di S. Agnese in Porto (dove erano state sepolte nel 1249, dapprima venerate, ma poi del tutto dimenticate) in quella di S. Agnese Nuova, costruita dagli eremiti agostiniani in città e consacrata nel 1460 da Pio II. Al tempo stesso, su disposizione del Gonzaga, l'agostiniano fra Agostino da Crema sollecitava la ripresa del Processo di Canonizzazione. Testimonianze di questa tardiva rifioritura della venerazione di Giovanni Bono sono gli scritti di: Fra AGOSTINO DA CREMA, Divi Johannis Boni Mantuani decus heremi ordinis fratrum heremitarum S. Augustini in provinciis Romandiolae, Lombardiae ac Venetiarum primi institutoris ac fundatoris historia, Mantua 1483, Ms in Archivio di Stato di Mantova, busta 3305; Fra FEDERICO DA MANTOVA, Leggenda del b. Zannebono da Mantua, Mantova 1512 (Cfr. inoltre E. BERTI, Vita e leggenda del B. Giovanni Bono di Mantova, in Polimnia. Boll. Uffic. Dell'Accademia Etrusca di Cortona, IX (1932); C. FERRARINI, La "Leggenda del b. Zanebono da Mantova", in Accademie e biblioteche d'Italia, X (1936), pag. 263-266; Vita di autore anonimo, Ms. Bibl. Laurenziana di Firenze, Cod. Plut. 90 sup. 48, fol. 54v-57v (1470); A. CALEPINUS, Vitae B. Joannis Boni, Ms. Bibl. Bollandiana (XV sec.), trascritta in AA. SS. oct. IX, pp. 746-767. Sulle successive istanze di canonizzazione e sul culto di Giovanni a Mantova, presso i Gonzaga, e sull'Ordine eremitano agostiniano, cfr. tra gli altri C. LODI, Vita e miracoli del b. Giovanni Bono, Bergamo 1590; TORELLI, IV, pag. 432-433; L. C. VOLTA, Ristretto di notizie intorno alla vita di S. Giovanni Bono, in: Poesie per la solenne traslazione... del sacro corpo incorrotto di S. Giovanni Bono, Mantova 1775; G. SAVIO, Vita di S. Giovanni Bono primo comprotettore di Mantova con orazioni, Mantova 1839; CARPENTIER, Commentarius praevius, in AA. SS. oct. IX, pag. 737ss; G. BONOMI, Il G. B. eremita agostiniano, Bologna 1664). Il confronto con l'eresia, che si espresse nella maniera più vigorosa nell'attività apostolica, delinea alcuni tratti anche della sua vita spirituale, marcata dalle tradizioni dell'eremitismo. Questo legame emerge con assoluta evidenza dal centro più intimo della sua esistenza, ossia dal suo rapporto coi Sacramenti. Anche qualora non si potesse passar sopra al fatto che la formulazione della domanda dell'ultima fase del processo avesse determinato una rappresentazione di tali aspetti indubbiamente sproporzionata rispetto all'intera ampiezza di una vita spirituale, non si può però non riconoscere che i Sacramenti dell'Eucaristia e della Penitenza avessero un'importanza fondamentale nell'esistenza e nel pensiero di Giovanni Bono. Giovanni espresse la sua venerazione per l'Eucaristia non soltanto nella forma dell'eulogia (P. 832, 238; 842, 276-77; 844-845, 286 etc. Cfr. V. LEROQUAIS, Les sacramentaires et missel manuscrits des Bibl. Publ. De France, Paris 1924, I, pag. 173, III, pag. 314. BORST, Die Katharer, pag. 201-202; LThK III (1959) c. 1181), diffusa nel XII e XIII secolo fra credenti ed eretici, ma specialmente attraverso una frequenza della Comunione inconsueta per il suo tempo (P. 789, 66; 832, 240; 845, 287 etc. ). Coi segni di profonda commozione egli riceveva tutte le domeniche il Corpo di Cristo. Allo stesso modo, e addirittura più intensa era la pratica della confessione.
Egli si confessava più volte durante la settimana, qualche volta perfino più volte nello stesso giorno, rivolgendosi a coloro che fra i suoi compagni erano sacerdoti senza tuttavia preferire un confessore in particolare (P. 795, 91; 838, 260; 845, 288 etc. L'espressione "Non habebat specialem confessorem" é così spesso evidenziata (P. 822, 200; 845, 288 etc.) che si potrebbe scorgere in essa una sottolineatura del tentativo di soluzione da parte della persona del prete. La menzione altrettanto frequente che tra i suoi frati si confessasse solo dai sacerdoti, dev'essere vista come un rifiuto della consueta, ma anche sospetta, confessione dei laici. Cfr. G. GROMER, Die Laienbeichte im Mittelalter [La confessione dei laici nel Medioevo], München 1909; A. TEETAERT, La confession aux laïques dans l'église latine dépuis VIIIe jusqu'au XIVe siècle, Diss. Löwen, Welteren 1926). Si può interpretare il fatto di ricevere spesso i Sacramenti come segno della crescente devozione individuale che nel XIII secolo caratterizzava ampi gruppi di laici (P. BROWE, Die häufige Kommunion im Mittelalter [La comunione frequente nel Medioevo], Münster 1939; J. NOUWENS, De veelvuldige communie in de geestlijke literatuur der Nederlanden, Bilthoven-Antwerpen 1952. Giovanni Bono riceveva la comunione più frequentemente di quanto facessero le Beghine, i Frati della penitenza e i Reclusi, i quali si accostavano all'Eucarestia molto più spesso dei membri di un Ordine del sec. XIII. Oltre ai motivi soggettivi, di cui s'é detto sopra, si deve ricercare anche una specifica tradizione eremitica (Cfr. Godrich von Finchhale) non raccomandasse la comunione frequente, o meglio il culto intensivo del sacramento). Non è tuttavia possibile cogliere in tal modo il particolare ruolo che essa giocò nella vita spirituale dell'eremita. La frequenza della confessione e della Comunione si fonda, nel caso di Giovanni Bono, su un'acutezza del sapere e su una sensibile inquietudine che deriva dalla conoscenza della difficoltà a riconoscere il vero Credo in un periodo di incertezza religiosa e politica, nella mala credulitas, in qua hactenus fuit pro toto mundo, e ad evitare la frequentazione di scomunicati (P. 843, 279: "Quando dictus frater Joannes Bonus loquebatur alicui forensi, statim faciebat se absolvi, si in aliquo pecasset in illa locutione"). Davanti a questo pericolo intensamente avvertito, la confessione e la Comunione divennero gli appoggi e le sicurezze che dovevano garantire l'unico punto fermo in un'epoca di incertezze, il legame con la Chiesa di Roma. Di fronte ad un tale significato dei sacramenti, non deve meravigliare il fatto che la loro difesa fosse una delle esigenze più importanti della sua attività apostolica (P. 844, 283: "Specialiter dicebat de corpore Domini nostri Jesu Christi, quod in illud haberent maximam fidem et fiduciam, quia vere salus mundi erat").
Egli dovette difendere la presenza reale non soltanto in contrasto con gli eretici, ma anche nei confronti dei dubbiosi nella cerchia dei suoi stessi compagni (Cfr. Anm. 132-133), che si componeva non solo di uomini di differente estrazione sociale, bensì anche di diversa intensità di fede e perseveranza (Tra i frati più giovani di Giovanni Bono, provenienti da estrazioni sociali diverse, non era raro il dubbio sulle fondamentali verità di fede (P. 777, 20-21; 773, 7 etc.). La loro stabilità non era delle più solide (P. 782, 39 etc.): in parte, essi aderivano alla comunità eremitica più per motivi economici (p. 790, 69-72) ed accadeva che essi - come apostati - si allontanassero del tutto dalla Chiesa e dall'ortodossia (P. 778, 23)). La massima considerazione dei sacramenti includeva il rispetto dei sacerdoti quali loro amministranti ed intermediari, rispetto che egli quindi esigeva anche quando i singoli rappresentanti di questo stato non lo avevano meritato a causa del loro condotta morale di vita (P. 817, 177: "Docebat fratribus suis quod haberent in reverentia magna omnes clericos propter ordines, quibus fungebantur, licet ipsos agnoscerent peccatores"). Questa esigenza era particolarmente accentuata dal confronto con gruppi eretici come i Valdesi, che rigettavano la funzione della gerarchia, necessaria per la salvezza, cosicché Giovanni poté definire la concezione della necessità del sacerdozio e l'ineliminabilità del suo carattere come uno dei criteri fondamentali che distinguevano i credenti dagli eretici (P. 817, 177: Cfr. u. a. GRUNDMANN, Religiöse Bewegungen des Mittelalters [Movimente religiosi del Medioevo], pag. 94ss). Nell'ambito di tale visione, il ruolo del Papato veniva conseguentemente enfatizzato come autorità di magistero decisiva, il cui "potere di legare e sciogliere", relativo all'imitazione di Pietro, appartenevano alle concezioni sempre espresse da Giovanni Bono (P. 830, 235: "Dixit quod crederent Dominum Papam eandem auctoritatem habere quam habuit beatus Petrus, et quem ipse Dominus Papa ligat in terris, erit ligatus et in coelis, et quem solvit in terris, erit solutum et in coelis, et dicebat et dixit pluries quod Dominus Papa est vicarius domini nostri Jesu Christi". Cfr. P. 832, 240b; 848, 300; 843, 307 etc). L'affermazione della particolare autorità sacerdotale non escludeva la certezza dell'esistenza di una forza attiva "pneumatica" al di fuori dei sacramenti (P. 826, 216). Giovanni era cosciente di poter agire anche laddove fallivano non soltanto i mezzi naturali, bensì anche le benedizioni dei preti, come dimostra il gran numero di guarigioni operate con una indubbia naturalezza. La funzione dei miracoli più spettacolari è tuttavia diversa da quella delle numerose guarigioni di malattie. Essi non dovevano solamente aiutare persone malate e mostrare così l'onnipotenza di Dio operante attraverso Giovanni, bensì avevano lo scopo, laddove le parole umane e le argomentazioni teologiche fallivano, di dimostrare determinate verità di salvezza, come la transustanziazione (Egli trasforma, ad es. l'acqua in vino "propter aedificationem et confirmationem ipsorum fratrum dubitantium" perché Dio non solo può cambiare l'acqua in vino, ma anche "unam speciem in alteram". P. 773, 7; 783, 42; 750, 9) e la risurrezione (A Pasqua fa mettere le radici ad un ramo di melo bruciato e lo fa rifiorire), o di ricondurre alla fede dubbiosi e miscredenti. Il Santo stesso esprimeva la convinzione di poter contribuire alla lotta contro l'eresia mediante i miracoli che il suo corpo benedetto da Dio avrebbe compiuto anche dopo la sua morte (P. 783, 43: "Joannes Bonus dixit ipsi testi (fr. Michael): Scias quod Deus faciet illa pro isto fragili corpore, tempore mortis meae, per quae fiet sibi tantus honor per dominum Jesum Christum, quantum fuisset factum alicui corpori a tempore Apostolorum citra. Istud corpus morietur ubi natum fuit, scilicet in civitate Mantuae et ibi fiet sibi magnus honor, et mors mea erit ad destructionem hereticorum multorum ibidem existentium, scilicet in civitate supradicta, et ad corroborationem fidei Christianae"). Egli voleva, come di fatto accadde (Nel 1249, contro l'opposizione dei Cesenati (P. 824, 209; 825, 215; 830, 233 etc.) si ritira a Mantova insieme a fra Bonaventura (P. 795, 92ss)) nell'ottobre del 1249, morire a Mantova, una delle roccaforti catare (A. DONDAINE, La hiérarchie cathare en Italie, III, in Archivium Fratrum Praedicatorum", XX (1950), pag. 294; G. SAVINI, Il catarismo italiano e i suoi vescovi nei secoli XIII e XIV, Firenze 1957), affinché attraverso i prodigi presso la sua tomba, si avesse un segno ad destructionem haereticorum multorum ibidem existentium... et ad corroborationem fidei Christianae. Lo storico non può confermare la profezia di Giovanni secondo cui presso la sua tomba si sarebbero verificati miracoli quali dal tempo degli apostoli non si erano più avuti (Il miracolo avvenuto verso la metà del sec. XIII sulla sua tomba: P. 797, 99ss; P. 856, 334ss).
Lo spegnersi relativamente rapido del culto parla più per il contrario. Si deve tuttavia far risalire alla sua pretesa l'aver contribuito, mediante la sua vita e la sua morte, al superamento dell'eresia e al rafforzamento della Chiesa. La lotta contro le eresie del XII e del XIII secolo che scuotevano le fondamenta della Chiesa, viene considerata generalmente come un'opera dei grandi Ordini che affrontavano gli eretici con gli strumenti dell'apologetica e dell'inquisizione, o che cercavano di convincerli attraverso un'esistenza apostolica. Per quanto riguarda le opere ad esempio dei Cistercensi, dei Domenicani e dei Francescani, che i patriarchi dei loro Ordini precedettero nella lotta contro gli eretici, non può esistere alcun dubbio. Proprio a causa della grandezza di tale attività, ci si è tuttavia lasciati sfuggire il fatto che non soltanto gruppi più piccoli, come i Poveri Cattolici ed Umiliati riconciliati da Innocenzo III, ma anche singoli individui al di fuori delle "armate" contrastarono i nemici della Chiesa. Nell'eremitismo rinato grazie ai movimenti dell'XI e del XII secolo, la cui tradizione, a partire dal paleocristianesimo, neppure in occidente non si era mai spenta, si presentò un punto di partenza verso la rinuncia ascetica ed il perfezionamento personale nell'imitazione di Cristo, cosicché in esso nacque un contrappeso alle "pratiche" ascetiche press'a poco della perfectio catara, che poté fronteggiare, assieme alla rudimentale influenza dell'ambiente pastorale in massima parte trascurato, la debolezza di fede e l'eresia derivanti dall'ignoranza religiosa o dall'insufficiente credibilità del clero. Quale esempio di queste forze rimaste perlopiù anonime, si guadagnò la stima degli storici della Chiesa (Innocenzo IV, 17.6.1251, in AA. SS., oct. IX, pag. 772; BERGER, II, nr. 5255 celebra i meriti di Giovanni: "Fratrem Joannem Bonum heremitam, cum pie vixisset in hoc saeculo, viam salutis docendo, verbis pariter et exemplis, tandem praesentis vitae cursu feliciter consummato multis miraculis Omnipotens decoravit") proprio l'eremita nel suo tempo avvertito dagli eretici stessi come un pericolo (P. 835, 249; 836, 253) ed ora quasi totalmente dimenticato. La rappresentazione cui finora siamo giunti non può essere considerata completa, dal momento che non prende in considerazione un aspetto fondamentale. Essa isola la figura di Giovanni Bono e potrebbe dare l'impressione che si sia trattato di un eremita vissuto per quarant'anni da solo in isolamento, e non invece del fondatore e del capo provvisorio di un Ordine eremitano. Nelle pagine seguenti ci si chiederà quindi come quest'Ordine eremitano sia sorto e quale ruolo l'eremita abbia in esso giocato. I testimoni che spesso definiscono Giovanni come "institutor et inventor regulae heremitarum primitius in provincia Romaniolae" (cfr. P. 772, 4), non danno a tali domande alcuna risposta dettagliata, poiché la formazione dell'Ordine non fu resa, durante il processo di canonizzazione, vero e proprio oggetto d'indagine.
Solamente la combinazione delle informazioni da loro date perlopiù casualmente con la tradizione documentale può fornire un quadro approssimativo dell'origine dell'Ordine e delle funzioni ed attività svolte in esso da Giovanni Bono. Le dichiarazioni di alcuni membri dell'Ordine interrogati a Cesena (ad esempio il priore generale Lanfranco da Milano: "Frater Joannes Bonus fuit fundator et insitutor ordinis heremitarum et ... in ipso egit poenitentiam quadraginta annis", P. 838, 261. Cfr. auch: P. 839, 264; 840, 268; 843, 280; 845, 290), indussero storiografi precedenti a supporre che Giovanni Bono avesse fondato l'Ordine che da lui prese il nome già attorno al 1209, immediatamente dopo il suo ritiro dal mondo (TORELLI, IV, 421; CARPENTIER, AA. SS., oct. IV, pag. 707). Tale opinione è tuttavia in contrasto con un documento di Guglielmo Fieschi, inserito nella Bolla Admonet nos cura (15.4.1253), secondo cui Giovanni ed i suoi compagni cominciarono a vivere regulariter soltanto dopo che la Curia, dietro loro richiesta, aveva loro consentito l'assunzione della regola agostiniana (Innocenzo IV, 15.4.1253; EMPOLI, pag. 176ss; POTT., nr. 14945: "Sane ad audientiam Papae pervenit, quod bonae memoriae Joannes Bonus in ordine vestro primum apud Budriolum Caesenatis Diocesis de concessione dioecesani loci eiusdem domum incepit; et dum fama conversationis eius per loca vicina crebesceret et plurimi convertentur ad eum, ecclesiam in honorem B. Mariae Virginis construxit ibidem. Crescente autem numero et merito huiusmodi conversorum receptorum religio vestra per eos in diversis partibus, in quibus mansiones construxerant extitit propagata. Cum autem iidem religiosi aliquam de approbatis regulam non haberent, quidam ex eis accendentes ad sedem apostolicam, obtinuerunt ab ea b. Augustini regulam sibi dari; et sic ex tunc coeperunt in regularibus observantiis instrui et regulariter se habere"). Il documento non riferisce quando fu fatto questo passo importante per la costituzione dell'Ordine. Dagli atti del processo emerge tuttavia il fatto che ciò non può aver avuto luogo prima del 1217. Secondo le dichiarazioni dei più vecchi membri dell'Ordine, Giovanni cominciò infatti a radunare seguaci non prima di questo periodo (P. 788, 62; 789, 68; 795, 90; 796, 95; 841, 272; 842, 276; 844, 285; 846, 291). Poiché l'adozione della regola fu preceduta da un'approvazione da parte del vescovo di Cesena, e dalla fondazione di altri eremi, la si può collocare non immediatamente dopo il 1217, bensì non prima del decennio successivo. Se dunque la costituzione di fatto della comunità, e più che mai l'adozione della regola agostiniana ebbero luogo solamente dopo il 1217, rimane un periodo di circa otto anni durante il quale Giovanni Bono visse da solo a Butriolo (Giovanni de Barba, uno dei primi compagni, dichiara: "Quod pluries audiebat ab ipso fratre Joanne Bono, quod quando primo anno instituit ordinem ipsum in loco Bertinoris, ubi ipse morabatur, in prima heremo, fuit pluries et multipliciter persecutus a daemone... Dicit etiam quod audivit ab eodem fratre Joanne Bono, quod postquam ad locum Bertinoris venit, Caesenatis diocesis, ubi secundum heremum ordinavit..." P. 787, 62.
L'indicazione equivalente dei due eremitaggi non é da ricondurre ad un errore di trascrizione del copista, o meglio dell'editore, come mostra un confronto con l'originale; si tratta probabilmente di un errore del protocollista, che Carpentier e Roth hanno cercato di correggere, identificando il primo romitorio con Butriolo e collocando la seconda casa a Bertinoro. Ritenevano infatti che Bertinoro non si trovasse nella diocesi di Cesena, ma che in quel tempo appartenesse alla circoscrizione del Vescovo di Forlì (P. AMADUCCI, Origini e progressi dell'episcopato di Bertinoro, Ravenna 1905), e che pertanto Bertinoro non potesse chiamarsi con la seconda denominazione di "Caesenatis diocesis". Il problema si potrebbe risolvere considerando, non già Bertinoro, ma Butriolo nella diocesi di Cesena come il secondo romitorio. Poiché sicuramente fra Giovanni Bono lasciò Bertinoro abbastanza presto, si chiarirebbe senza difficoltà perché nella tradizione dell'Ordine non si parli di Bertinoro, che Roth ha incluso nell'elenco dei conventi come seconda fondazione in ordine di antichità (AUG. III (1953), pag. 302). In quell'epoca Bertinoro, dove forse inizialmente fra Giovanni ha cercato di vivere da eremita, si trovava, non lontano dalla città, accanto ad un convento vallombrosano, l'eremitaggio di Vincareto, dove, dalla fine del sec. XII si conduceva, senza regola fissa né legami con il resto dell'Ordine, la "vita eremitica" secondo il modello dei camaldolesi (J. MITTARELLI.- A. COSTADONI, Annales Camaldulenses, Venezia 1755-73, IV, pag. 153; VI, pag. 91), finchè alla fine venne prescritta l'adozione di una delle regole approvate (M. MACCARRONE, Riforma e sviluppo della vita religiosa con Innocenzo III, in "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", XVI (1962), pag. 68, n° 86). Anche se non é possibile dimostrare alcun rapporto diretto tra fra Giovanni e la Congregazione di Vincareto, é certo tuttavia dove l'eremita di Butriolo poteva trovare modelli e incitamenti per la sua formazione secondo l'Ordine. (Cfr. Anm. 183ss) Vedi anche RANO, in "Archivo Agustiniano", LVI (1962), pag. 157ss. ). Ciò che lo spinse a ritirarsi in quel luogo non viene riferito negli atti del processo. Autori posteriori, fra cui Antonino da Firenze, sanno che Giovanni, nato a Mantova nel 1168, fino al suo quarantesimo anno di vita andò in giro per il mondo come ioculator e che solamente grazie ad una grave malattia fu indotto a far penitenza per quarant'anni per la sua vita "immorale" (ANTONINO DA FIRENZE, Chronicon, Tit. XXIV, cap. 13, AA. SS., oct. IX, pag. 746-747). La storia della conversione, ulteriormente abbellita nella letteratura, non è inventata di sana pianta, ma ha un preciso fondamento nelle fonti. Come già detto, negli atti del processo la vita di Giovanni viene definita con grande unanimità come "vita poenitentiae". Gli autori conclusero nel senso della pratica della penitenza pubblica esercitata fino all'alto medioevo, dal fatto del facere poenitentiam per la colpa concreta corrispondente ad una simile penitenza.
Non si resero conto che tale espressione si riferiva nel XII e nel XIII secolo anche al desiderio volontario di penitenza che indusse molti credenti, a cambiare la loro esistenza per vivere con un semplice abito da soli o in comunità, nella propria casa o in eremi isolati, in digiuno, povertà, castità e preghiera (Una concisa caratterizzazione del movimento dei Penitenti si trova in: G. G. MEERSSEMAN, Dossier de l'Ordre de la Pénitence au XIIIe siècle, in Spicilegium Friburgense 7, Freiburg 1961. Riduzioni, tra gli altri: K. ESSER, in "Theol. Reveu", LIX (1963), pag. 92-95). Il desiderio di una vita cristiana più consapevole, che faceva propria la forma di vita sanzionata già nei primi tempi della Chiesa, per realizzare in essa un profondo cambiamento di vita e di princìpi, si manifestò particolarmente forte, secondo le conoscenze di cui finora disponiamo, in Lombardia, nelle Marche ed in Romagna (G. G. MEERSSEMAN- E. ADDA, Pénitents ruraux communitaires en Italie au XIIe siècle, in "Revue d'histoir ecclésistique", XLIX (1954), Pag. 343-390; DIES., Una comunità di penitenti in S. Agostino dal 1188 al 1236, in "Miscellanea in onore di Mons. Federico Mistrorigo", Vicenza 1956, pag. 673-715. Sui Penitenti nella cerchia di S. Marco a Mantova, la patria di Giovanni Bono: J. MITTARELLI, Annales Camaldulenses, IV, pag. 635; MACCARRONE, pag. 52-53; MEERSSEMAN, Dossier, pag. 7, Anm. 3). Il movimento penitenziale raggiunse qui all'inizio del XIII secolo una dimensione tale, che i comuni si videro autorizzati ad intervenire contro di loro dal momento che il rifiuto dei penitenti di portare armi e di assumere cariche pubbliche, rappresentava un turbamento della vita cittadina (Gregorio IX, 21.5.1227, MEERSSEMAN, Dossier, pag. 43, n. 4; Gregorio IX, 26.5.1227, POTT., nr. 7919). Dovrebbe sorprendere se questo diffuso fenomeno non avesse trovato alcun riflesso negli atti della canonizzazione. Ai 232 testimoni appartenevano infatti numerosi "fratres et sorores de poenitentia", dei quali alcuni già ben presto ebbero stretti ed amichevoli contatti con Giovanni Bono (Cfr. z. B. Dominus Maurinus: "in triginta annis (seit 1221) dictus testis pluries ivit ad dictum fratrem Joannem Bonum, et conversatus fuit cum eo secundum quod ipse testis erat frater poenitentiae". P. 823, 203. Aehnlich: P. 817, 203; P. 772, 5; P. 790, 69-72). Questo rapporto e la particolarità della condotta di vita portano a supporre che Giovanni non stesse accanto a questa corrente collegata, per origine e manifestazioni, ai molteplici movimenti eretici ed ortodossi del XIII secolo, ma che fosse da essa stessa prodotto. Questa ipotesi viene sostenuta dalle dichiarazioni dei due frati della Penitenza Barachias e Walter (Dominus Barachias: "Dixit quod ipse fuit conversatus ultra XXV annis cum fratre Joanne Bono, sicut laicus conversatur cum religioso, quem diliget et timet, quia dictus testis dixit quod antequam dictus frater Joannes Bonus assumeret habitum heremitarum, dictus testis ibat et redibat et vivebat multum cum dicto fratre Joanne Bono pro eo quod erant multum amici, et postquam dictus frater assumpsit habitum dictum, dictus testis frequenter ibat ad heremum, in qua morabatur". P. 821, 197). Nella vita di Giovanni da essi osservata essi distinguono due parti che sono separate da una svolta avvenuta attorno al 1225. Questo taglio netto col passato consistette nell'adozione dell'"habitus heremitarum" che Giovanni portò fino alla sua morte e che designò come abito religioso per i suoi compagni (P. 817, 181). Che si trattò di un atto giuridico che portò con sè conseguenze per lo stato canonico, emerge dal fatto che Giovanni attorno al 1229 dovette ordinare ad un compagno di lasciare l' "habitus heremitarum" e di assumere l' "habitus poenitentia" (P. 772, 5; 790, 69-72. CARPENTIER (pag. 791b) ne conclude per una confraternita penitenziale.
Dal conto suo ROTH, per mostrare che fra Giovanni Bono é stato il fondatore (nel 1221 circa) di un terzo Ordine ("probably the first lay third order" in AUG. VIII (1958), pag. 29) e attribuirgliene un "full controll" e la direzione ("according to sound religious principles" in AUG. II (1952), pag. 132), fa leva sul fatto che fra Giovanni fu in contatto coi penitenti e che indusse i fedeli ad indossare l'abito penitenziale, facendosi temporaneamente servire, sé e i suoi frati, da donne della Penitenza. Insomma egli applica una circostanza verificabile solo nella seconda metà del XIII sec. all'età arcaica della comunità dei Penitenti, in quel periodo non ancora incentrata sull'Ordine mendicante. La sua tesi non avrebbe più valore se realmente fra Giovanni fosse stato nominato "minister or prior general of the Brethren of Penance", come ROTH ritiene sulla base di uno scambio con un omonimo "magister Johannes" (AUG. II (1952), pag. 132, Anm. 2230)) poiché il matrimonio taciuto al momento della presa dell'abito eremitano non si conciliava con quest'ultimo. Poiché però Giovanni si ritirò dal mondo non nel 1225, bensì nel 1209, risulta naturale chiedersi in quali "habitus" e "status" egli abbia vissuto fino a quel momento. Visto che la prima delle due sezioni si distingue forse per una maggiore libertà nell'impostazione di vita, ma non per un diverso stile di religiosità, è ovvio prendere alla lettera la formulazione spesso impiegata dai testimoni e vedere in Giovanni uno dei numerosi penitenti che come "peccatore-eremita", in un primo momento da solo, e successivamente nella traballante cerchia di frati della penitenza, condusse un'esistenza rigidamente ascetica (Cfr. MEERSSEMAN, Dossier, pag. 93-95). La bolla "Admonet nos cura", nella quale cioè i Zambonini avrebbero cominciato a vivere "reguliter" dopo l'adozione della regola agostiniana, fa supporre che nel 1225 siano stati adottati contemporaneamente l'abito eremitico quale specifico abito dell'Ordine e la regola agostiniana. Questa opinione è meno chiara di quanto non sembri (CARPENTIER, in AA. SS. oct. IX, pag. 708, 728; ROTH, AUG. II (1952), pag. 125. L'adozione dell' "habitus heremitarum", legata certamente ad una prassi conventuale più severa (Anm. 152), può benissimo coincidere con l'approvazione da parte del Vescovo di Cesena, del primo "eremus", menzionato nella Bolla "Admonet nos cura", cioè della "prima domus", la comunità che dal 1240 si sarebbe caratterizzata canonicamente come "religiosi". L'adozione della regola agostiniana, la cui documentazione risale al 1240, e caratterizzata nel senso del Concilio lateranense da Guglielmo Fieschi come inizio della vera e propria "vita regularis", non sarebbe databile nel 1225, ma ma più tardivamente. Ciò corrisponderebbe meglio alla dichiarazione della Bolla "Admonet nos cura", in base alla quale gli eremiti, prima di assumere la regola agostiniana, avrebbero istituito delle sedi "in diversis partibus". Alla luce delle nostre conoscenze, non é possibile documentare alcun importante diffusione prima del 1225, il quale si colloca piuttosto negli anni trenta del sec. XIII. Si osserverà tuttavia che nella relazione del Cardinale non si tratta di un "clear outline", perché non é necessario che lo svolgimento della relazione corrisponda al corso degli avvenimenti. L'intera questione richiede una ricerca più circostanziata, nella quale si tenga conto di come avvenivano le approvazioni all'inizio del sec. XIII. Cfr. in proposito MACCARRONE, Riforma e sviluppo, passim e infine: ESSER, "Théolog. Revue", LIX (1963), pag. 92-95). Se anche tuttavia si collocasse l'inizio di una vita "regolata" e l'adozione della regola agostiniana in tempi differenti, ciò non cambierebbe il fatto che la costruzione dell'Ordine ebbe inizio soltanto dopo una vita eremitica pervasa probabilmente dallo spirito del movimento penitenziale.
Non è possibile delineare dettagliatamente in tale sede i singoli stadi di questa costruzione dell'Ordine. Essi ricondussero i Zambonini dall'isolamento nel quale il loro fondatore aveva vissuto per circa quarant'anni, nonostante viaggi occasionali, al movimentato mondo della Lombardia, della Romagna e delle Marche. Essi giravano per il paese per procurarsi, mendicando come i Brettinesi, il mantenimento per sé e per il crescente numero delle loro sedi (Gregorio IX, 24.3.1240, EMPOLI, pag. 125; POTT., nr. 10860/8504; ders., 18.7.1240; TORELLI, IV, pag. 352; POTT., nr. 10917; Innocenzo IV, 7.9.1250, TORELLI, IV, pag. 439). A ciò univano la predicazione e la cura d'anime, trovando seguaci non soltanto fra i laici, ma anche fra i chierici (Innocenzo IV, 26.9.1246, BERGER, I, nr. 2103; Arch. Vat. Reg. an IV, reg. 108, fol. 323; Innocenzo IV, 26.4.1246, BERGER, I, nr. 1806; Arch. Vat. Reg. an III, reg. 465, fol. 273v. ). Nella comunità composta originariamente soprattutto da laici, il numero e l'influenza dei sacerdoti crebbe a tal punto attraverso questi ingressi e la concentrazione dei propri membri, da consentire loro di avere alla fine di quarant'anni tutti i punti di comando nell'Ordine e, se non tutto inganna, di provvedere nell'Ordine stesso alla formazione delle nuove generazioni di chierici (P. 849, 304). La partecipazione all'attività pastorale parrocchiale segna indubbiamente nella maniera più chiara la fine di uno sviluppo che fece di una comunità di laici isolata dal mondo un Ordine imperniato sulla cura d'anime. A questa trasformazione interna corrisposero tipologia e dimensioni della diffusione esterna. In una rapida espansione iniziata con grande vigore negli anni Trenta, l'Ordine si diffuse nell'Italia Settentrionale (ROTH, AUG. III (1953), pag. 302-308 conta per l'anno 1256 circa 26 sedi italiane) dove i conventi, situati in massima parte nelle dirette vicinanze delle città, già nel 1251 erano suddivisi in più province (P. 784, 49; P. 800, 109; P. 800, 110). C'è inoltre ragione di supporre che tale espansione non si sia limitata all'Italia, ma si sia estesa già prima del 1256 aldilà delle Alpi verso l'Europa Centrale, forse perfino in Spagna e in Inghilterra (Cfr. Anm. 293). Lo sguardo d'insieme sullo sviluppo dell'Ordine induce a chiederci come la condotta di vita del fondatore, volta soprattutto all'isolamento ascetico, si conciliasse con la dinamicità e l'attenzione al mondo crescenti. Gli atti del processo danno una risposta. Giovanni rimase fino alla morte l' "illitteratus et idiota" che non ricevette mai una consacrazione (P. 774, 13), rimase il "solitarius" (P. 846, 291; 821, 197) ed "inclusus" (P. 843, 305) che continuò a condurre l'originaria vita da eremita recluso (P. 832, 239: "Joannes Bonus habebat cellulam suam iuxta confines ecclesiae, et de qua raro exibat nisi veniret ad confortandum fratres". Cfr. 773, 7; 789, 67; 822, 200. Si trattava evidentemente di un reclusorio adiacente alla cella, collegato da una finestra con la chiesa del convento (P. 844, 282)), prendendo parte soltanto raramente alla preghiera corale ed ai pasti della comunità (P. 845, 889. Il cibo gli era portato nella cella da un servitore (P. 841, 272), un "ostiarius" impediva che venisse disturbato (P. 822, 200)), e superando ampiamente quanto a durezza di vita i propri confratelli (P. 840, 266). Il mantenimento totale di questa condotta di vita fu ancora possibile agli inizi dell'Ordine (Nel 1237 Giovanni si reca a Faenza, "pro quibusdam negotiis suae domus expediendis", P. 791, 76); con la crescente espansione di quest'ultimo e con la sua più forte organizzazione non fu però più possibile conciliarlo con la carica di un superiore dell'Ordine. "Ob excrescentem numerositatem subditorum" Giovanni si vide costretto ad abbandonare la guida dell'Ordine (Innocenzo IV, 15.4.1253, EMPOLI, pag. 175-176; POTT., nr. 14945. Non é possibile fissare con esattezza la data del passaggio dei poteri. Secondo ROTH (II (1952), pag. 129) "about 1243"; secondo TORELLI IV, pag. 300, già nel 1230) e a trasferirla a fra Matteo, uno dei suoi compagni più fedeli (Un frate di nome Matteo appartiene ai più antichi compagni di Giovanni (P. 795, 90; 780, 34). Ma non é certo che si tratti di quel "prior maior" o "minister generalis" che fra Salimbene conosceva personalmente: "et cuius (Johannis Boni) filium vidi et cognovi fratrem Mathaeum Mutinensem et pinguem", MGH SS, XXXVII, pag. 254). Questa scelta aumentò la già considerevole distanza fra il padre dell'Ordine ed i suoi figli, distanza che derivava dalla timida ammirazione per la sua "longe arctior vita" (P. 841, 273), ma che non si sottraeva tuttavia ad un certo scetticismo a causa della sua condotta di vita isolata, per certi aspetti antiquata (P. 840, 270; 841, 273; 849, 305: Dubbio di alcuni confratelli sulla pratica del digiuno di Giovanni. P. 783, 43: Giovanni distrugge un quaderno nel quale alcuni confratelli avevano annotato i suoi miracoli, perchè "alii fratres eiusdem ordinis non haberent devotionem circa miracula illa quae scripta erant, et vilipenderent ipsos quinternos", in questa circostanza egli annuncia miracoli dopo la sua morte, i quali dovranno dissipare i dubbi sui miracoli compiuti mentre era in vita). Ai tempi in cui visse il patriarca, la scelta di Matteo fu tollerata; subito dopo la sua morte, però, essa venne riesaminata nel Capitolo generale tenuto a Ferrara nell'ottobre del 1249, mentre Matteo fu costretto a dimettersi ancor prima dell'inizio del Capitolo vero e proprio (Su questo Capitolo e sullo scisma dell'Ordine ad esso seguito, fa testo Innocenzo IV, 15.4.1253, EMPOLI, pag. 176ss e il documento del Card. Guglielmo del 27.12.1252 inserito in questa Bolla. Contro la defezione dei membri dell'Ordine intervenne Innocenzo IV nel 1254. Probabilmente ciò é in relazione con la fine dello scisma, la quale non poteva soddisfare tutti i membri dell'Ordine stesso (Innocenzo IV, 27.4.1254, BERGER, III, nr. 7469, 7470, 7471)). Le dimissioni vennero giustificate adducendo l'incapacità del priore generale.
Dal procedimento di elezione seguente, tuttavia, emerge chiaramente che le vere cause vanno ricercate nelle circostanze della sua scelta, fatta da Giovanni stesso. Giovanni aveva nominato il suo successore, da lui stesso contemporaneamente designato priore di Budriolo e priore generale dell'Ordine, collegando così le due cariche. Conformemente agli accordi presi nell'ambito dell'approvazione della sua comunità, lo aveva presentato al vescovo di Cesena per la conferma. Questa supremazia della casa madre, fissata da Giovanni stesso, e legata alla giurisdizione del vescovo, veniva rafforzata dal fatto che i novizi dei numerosi conventi, situati in massima parte al di fuori della diocesi di Cesena, facessero la loro professione dei voti in nome del suo priore, obbligandosi ad osservare le sue Costituzioni ("Ego N. facio professionem et promitto obedientiam Deo et B. Mariae, et tibi priori fratrum eremitarum S. Mariae de Cesena tuisque successoribus usque ad mortem, secundum regulam S. Augustini et constitutiones fratrum istius loci" (Anm. 174)). L'elezione di Ugo da Mantova, che nel 1249 fu scelto dal Capitolo generale e presentato per l'approvazione al legato pontificio in Lombardia, così come la modifica apportata nello stesso periodo alla formula di professione dei voti, che legava i novizi al priore generale ed alle Costituzioni ("Ego N. facio professionem et promitto obedientiam Deo et B. Mariae, et tibi priori generali ordinis eremitarum tuisque successoribus usque ad mortem, secundum regulam S. Augustini et constitutiones fratrum istius ordinis" (Anm. 174)), non furono altro che lo scioglimento di un vincolo che costringeva l'Ordine in crescente sviluppo a rapporti con le numerose sedi che corrispondevano certamente alla comunità orientata originariamente in senso eremitico, ma che alle fondazioni figlie, divenute nel frattempo importanti, non sembravano più ammissibili. Tensioni fra le case madri, fondate su forme di supremazia monarchica, e le filiali desiderose di ottenere il diritto di essere consultate, non furono più una rarità a partire dal X secolo, dalla costituzione di unioni di conventi partita da Cluny (Su questa problematica, sempre istruttivo: R. MOLITOR, Aus der Rechtsgeschichte benediktinischer Verbände. Untersuchungen und Skizzen [Dalla storia giuridica delle associazioni benedettine. Ricerche e abbozzi], Münster 1928, I, pag. 214-233).
Esse dovettero essere superate nell'XI secolo sia dai Cistercensi che dagli Ordini eremitani sorti nel medesimo periodo, e si presentarono nel XIII secolo non soltanto con riguardo ai Carmelitani (Sulla compresenza di due Priori Generali nell'Ordine Carmelitano alla metà del sec. XIII, Il "Carmino" di Pisa, in "Carmelus", III (1956), pag. 107-142), bensì anche ai gruppi riunitisi nel 1256, ossia ai Guglielmiti (K. ELM, Beiträge zur Geschichte des Wilhelmitenordens, Koln 1962, pag. 125ss.), e probabilmente anche ai Brettinesi (Presso i Brettinesi, il priore della casa madre, il quale era al tempo stesso capo dell'Ordine, venne eletto nel 1243 dal Capitolo generale. Cfr. Innocenzo IV, 24.9.1243, BERGER, I, nr. 128). Nell'Ordine dei Guglielmiti le competenze del priore generale eletto dai conventuali della casa madre poterono essere definitivamente limitate a favore del Capitolo generale e provinciale non prima del XIV secolo. Per quanto riguarda i Zambonini, il processo si realizzò molto più rapidamente e con esito più evidente, certamente a prezzo di conflitti più evidenti e profondi. I conventuali di Budriolo, del "primus et principalis locus, quo idem ordo processit", elessero nel 1249 dalla loro cerchia frate Marco a priore e contemporaneamente a priore generale. Con l'appoggio della casa madre e di altri conventi della Romagna, egli poté per tre anni affermare, confermato dal vescovo di Cesena, il suo diritto al generalato di fronte ad Ugo da Mantova, eletto dal Capitolo generale tenuto a Ferrara. Nel 1252, il vescovo di Padova ed il minorita Simone da Milano ordinarono ai due rivali le dimissioni, cosicché Lanfranco da Milano, fino ad allora priore a Bologna e "socius" del priore generale Ugo (Su Lanfranco, Priore generale dell'Ordine eremitano agostiniano nel 1256: F. ROTH, Lanfranc von Mailand, in "Cor Unum" XI (1952), pag. 13-18), poté essere eletto nuovo capo supremo dell'Ordine. Senza dubbio la maggioranza aveva dovuto rinunciare ai suoi candidati. Poté tuttavia rallegrarsi della vittoria della concezione di costituzione rappresentata. Lanfranco venne confermato dalla Curia, e la discussa formula della professione dei voti oggetto di contrasti venne modificata in modo che essa non legasse più i frati dell'Ordine alla casa madre ed alle sue Costituzioni, ma ancora solamente al priore generale ed agli Statuti dell'Ordine. Contemporaneamente si dispose di cancellare dalla denominazione dell'Ordine tutti i riferimenti alla casa madre ed al fondatore dell'Ordine, e di chiamare i membri dell'Ordine "sine alicuius loci vel proprii nominis expressione" da quel momento in poi soltanto "fratres Ordinis heremitarum" (Cfr. Anm. 174). Con queste modifiche autorizzate dalla Curia, si affermò chiaramente il sistema costituzionale corporativo-democratico formulato nel XIII secolo nella maniera più coerente nelle Costituzioni dei Domenicani, a fronte delle più antiche rappresentazioni aristocratiche, quali quelle conservate dai Camaldolesi e dai Certosini, i cui conventi madre rimasero a capo dell'Ordine. Noi sappiamo troppo poco sulla costituzione dell'Ordine per poter decidere se per quanto riguarda le Costituzioni della casa madre e quelle dell'Ordine si trattasse di due documenti giuridici diversi l'uno dall'altro.
Da notizie occasionali si può tuttavia concludere che nella casa madre determinati luoghi e determinati momenti erano riservati al silenzio ("Post nonam, quando ipsi fratres habent licentiam loquendi... in claustro maiori, ubi quilibet loqui potest in Diocesi Cesenati": P. 774, 14. "In claustrum maiori, ubi loqui potest, S. Mariae de Botriolo": P. 792, 81), che ai conventuali benemeriti e anziani spettavano celle isolate (Frater Johannes Barba abitava una cella "remota e conventu fratrum": P. 786, 54) e che soltanto certi frati (P. 815, 174P. 815, 174) lasciavano l'eremo, circondato da un muro accessibile solo difficilmente agli estranei (P. 786, 56; 794, 86), per mendicare e sbrigare commissioni. Queste consuetudini, che ricordano la pratica degli Ordini eremitani più antichi, fanno presumere che nella casa madre non fosse mantenuta solamente una forma di Costituzione più conservativa, bensì anche un sistema di vita più fortemente orientato in senso eremitico (ROTH, II (1952), pag. 127 é del parere che le usanze e la disposizione del convento di Butriolo, come si può rilevare dai documenti del processo, valessero per tutte le altre fondazioni.. Cfr. anche Anm. 183, 188). Di fronte ad una simile forma di vita è difficile spiegare la rapida espansione, il dedicarsi alla mendicità ed alla cura d'anime che caratterizzarono gli ultimi anni dell'Ordine. Bisogna piuttosto pensare che questo sviluppo sia stato forzato dai conventi figli, i quali possono aver sollecitato sia una forma organizzativa più democratica, sia un sistema di vita più corrispondente ai loro nuovi compiti pastorali, per cui gli Statuti deliberati dai Capitoli generali abbiano fatto diminuire gli elementi eremitico-monastici contenuti nelle "Costituzioni" della casa madre, se non addirittura li abbiano eliminati (Che nel 1253 non sia possibile ipotizzare alcuna costituzione unitaria, mi sembra risultare dalla Bolla "Admonet nos cura" del 15.4.1253, con la quale viene ristabilita l'unità dell'Ordine: "non obstantibus professionibus et consuetudinibus quibuslibet ubicumque in ordine vestro hactenus aliter observatis". Accanto a una corrente di "eremiti" conservatori ve n'è una di "mendicanti" progressisti, e questo si accenna nel Privilegio di Gregorio IX "Dudum apparuit" del 24.3.1240: "Dudum apparuit in partibus Lombardiae religio, cuius professor vocati Eremitae Fratris Joannis Boni Ordinis S. Augustini, nunc succincti tunicas cum corrigis baculos gestantes in manibus, nunc vero dimissis baculis incedebant pecuniam pro elemosynis aliisque subsidiis deposcentes, et adeo variantes ordinis sui substantiam, ut..." (EMPOLI, pag. 126)).
Se si richiama alla mente la figura di Giovanni Bono e la breve storia dell'Ordine da lui fondato, il confronto con il suo contemporaneo più grande, Francesco d'Assisi si impone, e si comprende che a partire dal XIV secolo poté essere sostenuta la concezione secondo cui il Poverello sarebbe stato un seguace dell'eremita di Budriolo (Circa l'affermazione fatta tra il 1343 e il 1345 documentata in Cod. Verodunensis 41. (E. ESTEBAN, De codice Verodunensi 41, in AA, III, pag. 92) sulla base di I Celano, c. 9, nr. 21ss la quale provocò nel sec. XVII violenti contrasti tra Agostiniani e Francescani (MARQUEZ, HERRERA, WADDING) cfr. R. ARBESMANN, Henry of Friemar's "Treatise", in AUG., IV (1956), pag. 62-64; F. ROTH, Augustinian historians of the XVIIth century, in AUG., VI (1956), pag. 635-647). Ciò che lega i seguaci di correnti simili è la volontà di "poenitentia" (Sulla specificità della "Poenitentia" presso i Francescani, é sorta di recente una vivace discussione. Cfr. CH. DUNNER, Umkehr des Herzens. Der Bussgedanke des hlg. Franz von Assisi [La conversione del cuore. Il pensiero di S. Francesco d'Assisi sulla penitenza], Libri franc. di Spiritualità I, Werl 1956; S. VERHEY, Das Leben in der Busse nach Franz von Assisi [La vita nella penitenza secondo Francesco d'Assisi], in "Wissenschaft und Weisheit", XXII (1959), pag. 161; K. ESSER, Ordo Fratrum Minorum. Ueber seine Anfänge und ursprüngliche Zeilsetzung [Sugli inizi e le finalità originarie], in "Franziskanische Studien", XLII (1960); XLIII (1961). Nei confronti di queste ricerche, che sottolineano in particolare il carattere spirituale della "Poenitentia", si deve prestare attenzione alle considerazioni di MEERSSEMANN, Dossier, pag. 1-7), l'ideale della "paupertas, humilitas et simplicitas", il rifiuto dell'eresia (K. ESSER, Franziskus von Assisi und die Katharer seiner Zeit [Francesco d'Assisi e i Catari del suo tempo], in "Archivium Franciscanum Historicum", LI (1958), pag. 225-264), la devozione ai Sacramenti (K. ESSER, Sancta Mater Ecclesia Romana. Die Kirchenfrömmigkeit des hlg. Franziscus v. Assisi [La devozione religiosa di S. Francesco d'Assisi], in "Wissenschaft und Weisheit", XXIV (1961), pag. 1-26) e la evidente fedeltà alla Chiesa (B. CORNET, Le "Reverentia Corporis Domini" exhortation et lettre de S. François, in "Etudes Franciscaines", NS VII (1956)). Entrambi condividono il destino, in tutta la stima che si mostrò loro, di cadere tuttavia nel pericolo dell'isolamento (Che non si possa parlare di un distacco radicale tra fra Giovanni Bono e l'Ordine, risulta dal fatto che durante lo scisma dell'Ordine il partito che si opponeva alla procedura di elezione accettata da Giovanni e a quella del Priore generale eletto dopo di lui, ne sollecitava la canonizzazione.
Anche dopo la sua abdicazione fra Giovanni continuò ad esercitare una certa influenza sull'Ordine. Egli tuttavia era maggiormente disposto - almeno secondo le fonti - alla sollecitudine personale per la salvezza dei fratelli, in particolare dei novizi, piuttosto che al ruolo dell'organizzatore (Cfr. P. 815, 173)) a causa del proprio rigorismo. In un punto decisivo queste personalità, sicuramente non dello stesso rango, si distinguono di certo anche sotto l'aspetto umano. Posto di fronte all'alternativa di servire alla salvezza delle anime o di vivere nell'eremo in contemplazione e preghiera, Francesco si decise per un compito più grande, nel senso del Vangelo, di "attirare" e "guadagnare" anime attraverso la parola e l'esempio (Aus I CELANO 13, 33; Fioretti XVI; Speculum perfectionis 65, 121 risulta che in Francesco si trattava di una autentica alternativa e di una scelta consapevole quando stabilì di "inter homines conversari", anziché "ad loca solitaria conferre". Sull'eremitaggio nell'Ordine francescano, al quale anche ESSER, Ordo Fratrum Minorum, rinvia a più riprese, non si é ancora trattato contestualmente. Le fonti mostrano che i numerosi eremitaggi francescani avevano una struttura esemplare per molte delle case sorte più tardi negli Ordini degli eremiti agostiniani). Per Giovanni la "vita eremitica" rimase l'essenza della vita, che consentì soltanto un'attività pastorale e di evangelizzazione effimera e priva di sistematicità, e che lo condannò ad una certa limitatezza. La volontà di penitenza ascetica nell'isolamento dal mondo fu più forte dell'impeto, indubbiamente presente, di operare per la salvezza delle anime e di difendere il vero Credo. L'ideale della vita "apostolica", che portò i predicatori ambulanti francesi dell'XI secolo a lasciare l'eremo per predicare peregrinanti sull'esempio di Cristo e dei suoi discepoli, e che oltre a Francesco indusse molti suoi contemporanei, credenti ortodossi ed eretici, a dedicarsi alla predicazione con incostanza e senza patria, non lo influenzò a tal punto da fargli abbandonare il romitaggio. Quando egli insegnava e predicava, lo faceva nel suo isolamento, che tentava di difendere anche contro la volontà dei credenti che lo "assediavano". Questa perseveranza in una forma di vita scelta un tempo fece dell'eremita un residuo di una forma di religiosità più antica (E' significativo, in questo contesto, che fra Giovanni ammonisse i suoi frati ad evitare gli eretici, e che una sola volta ordinasse loro di confutare l'eresia (confundere). Di un incarico esplicitamente dichiarato per la cura delle anime e per la lotta contro gli eretici, non c'é nessuna traccia nelle fonti conosciute), giacché i suoi seguaci, come già anticipato, non rimasero fermi nell'eremo, bensì imitarono la decisione di Francesco d'Assisi e andarono per il mondo predicando e mendicando.
La storia dei Zambonini, determinata dalla tensione fra ascesi originariamente eremitica, e l'impeto potentissimo verso la mendicità e l'attività pastorale, non è singolare. Potremmo presumere che la comunità di laici che a Brettino cercava l'isolamento fosse come i Zambonini influenzata dall'ideale del "peccatore-eremita", ed abbiamo motivo di vedere nei "Fratres de poenitentia", meglio conosciuti come "frati del sacco", dei frati della penitenza che, come i due Ordini menzionati, dalla comunità traballante ed orientata inizialmente in senso eremitico quale erano, divennero, sull'esempio dei francescani e dei Domenicani, un Ordine organizzato, che, per quanto riguarda la cura d'anime ed il sapere, cominciò a dar frutti già quando lo colpì il decreto di scioglimento del Concilio di Lione (A. G. LITTLE, The Friars of the Sack, in "English Historical Review", IX (1894), pag. 121-127; R. W. EMERY, The Friars of the Sack, in "Speculum", XVIII (1943), pag. 323-334; G. M. GIACOMOZZI, L'Ordine della Penitenza di Gesù Cristo. Contributo alla storia della spiritualità del sec. XIII, in "Scrinium historiale", II (Roma 1962). Cfr. MEERSSEMAN, RHE LVIII (1963), pag. 610-612; R. W. EMERY, A note on the Friars of the Sack, in "Speculum", XXXV (1960), pag. 591-594). Ciò che qui è comprensibile soltanto confusamente, si trova chiaramente davanti a noi nella protostoria dell'Ordine toscano dei Serviti. Dalla comunità di sette frati fiorentini della penitenza, che vissero come eremiti sul Monte Senario, sorse nel corso di alcuni decenni ciò che la Curia nel 1256 trovò nei due cosiddetti Ordini eremitani dei Zambonini e dei Brettinesi, ossia una comunità nella quale le idee di penitenza originariamente laiche e volte ad una condotta di vita eremitica si erano a tal punto istituzionalizzate secondo il modello dei Francescani e dei Domenicani che il loro carattere iniziale soltanto a stento era ancora riconoscibile ( A. M. ROSSI, La "Legenda de origine ordinis Servorum Virginis Mariae", Roma 1951; DERS., Manuale di Storia dell'Ordine dei Servi di Maria (MCCXXXIII-MCMLIV), Roma 1956).