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Giacomo da Viterbo
Libreria del convento
di S. Barnaba a Brescia
IL "DE REGIMINE CHRISTIANO" DI GIACOMO DA VITERBO
di Ugo Mariani O.S.A.
Nella dedica al pontefice premessa all'opera, l'autore si appella "theologiae facultatis professor": dovette dunque scrivere e terminare il lavoro mentre insegnava nello "Studio" fondato a Napoli dagli Agostiniani, prima della sua elezione ad arcivescovo di Benevento, avvenuta il 3 settembre 1302. D'altra parte, poiché egli mostra di conoscere, come vedremo, negli ultimi capitoli del trattato, lo scritto "De potestate ecclesiastica" del suo confratello Egidio Romano che fu pubblicato, come abbiamo detto nel 1302 (probabilmente però sul principio dell'anno) non si può fissare la composizione del "De Regimine Christiano" ad una data anteriore alla primavera dello stesso anno.
Contenuto del Trattato
L'autore, premessa un'epistola dedicatoria a Bonifacio VIII e un'introduzione o prologo, divide il suo trattato in due parti ineguali in ampiezza distendendosi la prima (nella quale sono spiegate la natura e le prerogative della Chiesa, regno di Dio) sino a sei capitoli, la seconda sino a dieci e questi molto più lunghi, perché trattano della potenza regale e di quella sacerdotale, "circa quas", dice lo scrittore, "magis versatur huius Tractatus intentio, et praecipue circa regalem potestatem" (Tractatus, I, cap. III, pag. 80. Cito l'edizione già menzionata del Perugi). La dedica contiene termini di speciale riverenza ed una protesta di filiale devozione e sottomissione dell'autore alla Chiesa. Tre istituti secondo S. Agostino, (libro XVI della Città di Dio), sorgono dall'unione degli uomini in comunità: la famiglia, la città, il Regno. Dei tre istituti il più elementare è la famiglia, mentre il più perfetto è il Regno, perché abbraccia un numero più grande d'individui, e quindi maggior beneficio arreca alla società (Tractatus, I, cap I, pag. 11. Nam illa comunitas est perfectior quae ad magis bonum ordinatur. Bonum autem tanto maius quanto communius; unde quia in Civitate intenditur bonum plurium quam in Domo: ideo Civitas Domo perfectior est et Regnum perfectius Civitate).
Giacomo da Viterbo prova con la Scrittura che la Chiesa partecipa della natura e finalità dei tre istituti, ma in modo speciale a lei conviene il nome di regno, perché è formata da un numero immenso di membri appartenenti a tutte le nazioni, è diffusa in tutto il mondo, è dotata di tutti i mezzi atti a guidare le anime alla vita celeste, è stata ordinata al bene comune di tutto il genere umano, ed inoltre a guisa di un regno è divisa in Province, Diocesi, Parrocchie (Tractatus, I, cap. I, pag. 13). E' un regno istituito da Cristo e perciò si chiama ecclesiastico; ad esso appartengono non solo i credenti che vivono in terra, ma anche gli angeli e i beati che furono assunti alla gloria dei cieli. A questo regno di Dio si oppone quello del mondo che può chiamarsi anche del diavolo: abbraccia i malvagi di questa terra e i dannati dell'inferno. Gli abitanti dei due regni vivono confusi in questa vita; ma poi, dopo morte, dovranno separarsi e ricevere il premio o il castigo a seconda delle loro opere buone o cattive. Abbiamo qui evidentemente un riflesso della concezione agostiniana delle due città del bene e del male, di Gerusalemme e di Babilonia, ma l'autore rinunzia a descrivere la città del male e si occupa soltanto del regno ecclesiastico, al quale riferisce la parola di David: "Gloriosa dicta sunt de te, Civitas Dei". Dieci prerogative rendono glorioso questo Regno: (I cap. II, pagg. 17-31) l'istituzione legittima poichè deriva da Dio, l'antichità della sua origine (rimonta infatti agli angeli santi e ai primi uomini virtuosi), la sapienza ed armonia nella sua costituzione interna, la concordia che anima i membri che vi appartengono, la giustizia nella compilazione delle leggi che la governano, l'estensione del suo dominio che abbraccia popoli di tutta la terra, la dovizia dei beni temporali e spirituali, l'invincibilità contro i nemici, l'amore della pace, la durata che sarà eterna avendo l'Angelo predetto di Cristo: "Regnabit in domo Jacob in aeternum, et Regni eius non erit finis" (Luc. 1, 33-34). Queste doti si compendiano nelle quattro attribuite nel Simbolo apostolico o Credo alla Chiesa: unità, santità, cattolicità, apostolicità. La Chiesa o regno ecclesiastico è una, sebbene risulti formata da molti fedeli, perché uno è il suo capo o fondatore, Cristo, uno il vincolo con il quale la grazia divina mediante la fede, speranza e carità, unisce tutti i cristiani, uno il fine verso cui tendono gli affiliati a questo Regno, la celeste beatitudine (I cap. III, pagg. 23-34).
E' universale perché non è limitata nella sua estensione, ma i suoi confini coincidono con quelli del mondo, abbraccia tutte le genti nel suo dominio senza esclusione di stirpe o di casta, anzi essa valica i confini di questa terra e comprende nel suo ambito gli angeli e i beati, dividendosi in chiesa militante (con i fedeli che sono "in statu viatorum"), e chiesa trionfante (con i fedeli che hanno già conseguito il premio celeste). Ed è anche universale in ragione dei sacramenti, che furono istituiti a rimedio generale di tutti i peccati (I cap. IV, pagg. 35-40). E' santa perché fondata da Dio, fonte di ogni santità. Le dottrine che essa insegna sono immuni dall'errore, perché dettate dallo Spirito Santo, e i sacramenti che conferisce ai fedeli offrono il rimedio contro i peccati. Essa è la depositaria del sangue della grande vittima che è il Cristo, è confermata nel bene contro il male, dicendosi degli apostoli che la governarono, ego confirmavi columnas eius e chiamandosi la Chiesa Columna et firmamentum veritatis (I cap. V, pagg. 41-47). Iniziato, propagato prima dagli apostoli poi dai loro successori, il regno di Cristo è inoltre apostolico. Il capo degli apostoli, il vicario di Cristo nel governo generale della Chiesa fu Pietro, al quale lo stesso Redentore disse: Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam. I successori di Pietro nel corso dei secoli furono i Romani Pontefici e per mezzo di questi la Chiesa si ricollega all'età apostolica (I cap. VI, pag, 49-53). La prima parte del trattato termina con la descrizione delle prerogative della Chiesa. L'autore ha sin qui celebrato e brevemente, come egli dice (I cap. VI, pag. 53: "Et in hoc terminatur Primus Tractatus huius operis, in quo de Regni Ecclesiastici gloria breviter actum est"), la gloria del regno ecclesiastico, ora, nella seconda parte, lumeggerà e glorificherà la potenza del Papa, capo visibile di questo regno, vicario di Cristo, che, ne è il capo invisibile. Premessi alcuni paragrafi intorno alla potenza di Cristo, potenza che gli compete in quanto figlio di Dio e figlio dell'uomo, vero Dio e vero Uomo, unica persona in due nature, l'autore nel capitolo primo della parte seconda spiega come il Redentore sia il capo della Chiesa, come illumini con la sua sapienza le anime fedeli come le giustifichi con la sua grazia. Ed egli non solo santifica le anime credenti che sono le membra della Chiesa nella sua qualità di capo di esse, ma anche nella qualità di mediatore per modum capitis et per modum medii. Insignito della podestà regale e sacerdotale, il Cristo è l'anello di congiunzione fra la terra e il cielo avendo riconciliato Dio e l'umanità peccatrice da lui salvata e rinnovellata. Signore degli angeli e dei celesti, a lui appartiene ancora il governo dei beni temporali e terreni. Finché visse in terra non volle amministrare il suo regno terreno, ma questo a lui appartiene, perché la Scrittura dice che gladius exit de ore eius ex utraque parte acutus. Spada dunque dal doppio taglio, uno per il dominio spirituale, l'altro per il materiale, ma una è la spada, una la podestà e i due domini non ne sono che due aspetti diversi II, (I, pagg. 57-70).
Il Cristo non poteva comunicare alla creatura, radicalmente incapace di riceverla, la potenza di creare, ma bene poteva comunicare la potestà sacerdotale e regale, anzi doveva trasmetterla, perché per la salute del genere umano importava che questo potere non andasse perduto, e lo trasferì, di fatto, in altri, i quali a loro volta lo tramandassero ai propri successori (II, II, pagg. 71-77). La potestà sacerdotale fu comunicata da Cristo agli apostoli e agli eredi della loro dignità. Il potere di rinnovare in perpetuo, sotto le specie del pane e del vino, il Sacrificio della Croce, lo trasmise quando nell'ultima cena, dice: Hoc facite in meam commemorationem: la facoltà d'insegnare e di amministrare i sacramenti la concedette quando pronunziò le parole: Euntes, docete omnes gentes baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Quorum remiseritis peccata remittuntur eis. La podestà regia nelle cose temporali fu tramandata ai re della terra o a quelli che, pure non avendone il titolo, di fatto ne esercitano il potere. Invece la potestà regio-spirituale il Divino Maestro volle che soltanto agli Apostoli e ai loro successori fosse affidata, quando disse loro: Quaecumque ligaveritis super terram, erunt ligata et in coelo. Tale facoltà di sciogliere e di legare implica quella di giudicare, che è una prerogativa della dignità regia. In modo speciale questo potere fu concesso al B. Pietro e per lui ai Romani Pontefici con le parole: Et tibi dabo claves Regni Coelorum. E la chiave è il simbolo della spirituale potestà, che può introdurre gli uomini al regno celeste od escluderli da esso. Giacomo da Viterbo riporta numerosi passi della Scrittura per dimostrare che gl'insigniti da Cristo della regia potestà spirituale hanno veramente il titolo e la dignità di sovrani. Però i Vescovi d'ordinario ricusano questo titolo, perché esso mal si addice allo stato di mortificazione e di umiltà di seguaci del Vangelo, ed inoltre perché vogliono distinguersi dai principi secolari e preferiscono assumere il nome di pastori, presuli, pontefici (II, III, 79-91). La potestà sacerdotale fu istituita per santificare gli uomini; quella regia per governarli. Il sacerdote e il re formano il binomio su cui poggia ogni ordinamento sociale. Mediatore fra Dio e gli uomini, il sacerdote offre il sacrificio per l'espiazione dei peccati che l'umanità commette, porge alla Divinità i voti, le preghiere, le suppliche del popolo. Ai fedeli egli spezza il pane della scienza divina e dispensa le grazie che il Creatore concede agli uomini.
Il Re è il custode e il vindice dei diritti che competono alla nazione a lui soggetta. Compito principale del regio ministero è legiferare, interpretare le leggi, castigare i trasgressori di esse, premiare coloro che le osservano, procurare al popolo il benessere materiale, difendere il regno dai nemici interni ed esterni. I prelati della Chiesa hanno facoltà di esercitare tutti gli atti del culto di Dio. Insegnano alle moltitudini dei fedeli, dispensano i sacramenti che sono i veicoli delle grazie divine, giudicano nelle cause spirituali, chiudono ed aprono le porte del regno celeste legando o sciogliendo dai peccati, stabiliscono le leggi e puniscono chi le trasgredisce. Sono dunque insigniti della doppia potestà sacerdotale e regio-spirituale. La potestà regale-spirituale è superiore in dignità a quella sacerdotale; infatti è maggiore la gloria di Cristo Re che quella di Cristo sacerdote. Egli è sacerdote in quanto uomo, è Re in quanto Dio e uomo: come sacerdote offrì se stesso e riconciliò il genere umano con la divinità offesa, come Re egli è giudice e custode del regno. Nei prelati della Chiesa la potestà regia si chiama di giurisdizione, mentre la sacerdotale si appella dell'ordine, ed è proprio la giurisdizione che importa la prelatura, mentre l'ordine importa la mediazione e il ministero (II, V, pagg. 105-122). Tanto i vescovi quanto i sovrani fanno parte di gerarchie alla sommità delle quali, sorpassata una serie di gradi di autorità, stanno l'imperatore da una parte, nella gerarchia laica, ed il papa dall'altra, nella gerarchia ecclesiastica. Ma l'autorità temporale deve sottostare a quella spirituale, perché il dualismo non era ammesso nella filosofia medioevale non solo nella creazione, ma neanche nel governo degli uomini. E l'uno, secondo le idee di quel tempo, ha ragione di bene massimo, poiché uno è il principio motore della natura, una la ragione, facoltà dell'anima umana che muove le altre, una la chiesa fondata da Cristo: uno deve essere il capo supremo della Cristianità. Ed essendo lo spirito superiore al corpo, colui che regna nello spirituale, il Romano Pontefice, ha l'alto dominio anché nelle cose temporali. Per salvare il principio dell'unità, gli scrittori ghibellini al sommo del vertice della scala delle due gerarchie, laica ed ecclesiastica, ponevano Dio da cui ambedue derivano, ma i due poteri non si fondevano bene in questa terra ed essi asserivano che si sarebbero fusi nella vita oltremondana; ma gli scrittori curialisti vi mettevano il papa, ed il principio dell'unità era meglio salvaguardato. Al sommo pontefice Giacomo da Viterbo scioglie un inno appellandolo, con S. Bernardo, principe dei Vescovi, erede degli apostoli, insignito del primato di Abel, del dominio di Noé, del patriarcato di Abramo, dell'ordine di Melchisedec, della dignità di Abramo, dell'autorità di Mosé, della potestà di Pietro (II, VI, pag. 123-128).
Il potere regio-spirituale a lui attribuito è superiore al regio-secolare. Le due potestà, spirituale e temporale, pure avendo ciascuna una sfera propria d'azione (l'una ha per scopo il fine ultra mondano a cui dirigere le anime, l'altra la perfettibilità naturale a cui indirizzare gli uomini), hanno molti punti di contatto. Riguardo all'origine ambedue derivano da Dio, in rapporto al soggetto e all'oggetto tutte e due risiedono nell'uomo e per l'uomo furono istituite, in relazione al fine l'una e l'altra tendono al raggiungimento della perfettibilità e felicità del genere umano. Alcuni scrittori asseriscono che la potestà temporale, indipendentemente dal potere ecclesiastico deriva direttamente da Dio; altri al contrario affermano che le due potestà sono comunicate da Dio immediatamente al Papa, il quale esercitando da sé la spirituale, trasmette all'imperatore la temporale. L'autore combatte la prima opinione e vuole attenuare la seconda. In modo iniziale e materiale, il potere temporale emana direttamente da Dio in quanto trae la sua prima origine dalla naturale inclinazione degli uomini ad associarsi per formare uno stato, e questa inclinazione è opera di natura e perciò di Dio; in modo perfetto e formale deriva dalla potestà spirituale, della quale immediatamente investito da Dio il Papa. Ogni potere umano è imperfetto ed informe se non viene sanzionato e perfezionato dal potere spirituale, la cui pienezza è posseduta dal Romano Pontefice. Occorre quindi che il Vicario di Cristo designi la persona che deve ricevere la potestà secolare, o almeno che confermi e convalidi la sua elezione nel caso che la designazione sia già stata fatta, perché il sovrano temporale può governare per diritto umano i semplici uomini, ma gli occorre il diritto divino per regnare sopra i sudditi battezzati. E chi è il dispensiere del diritto di Dio, se non il Papa? Al Sommo Pontefice i principi di questa terra devono ubbidire come a Cristo medesimo di cui egli è il Vicario, e i sudditi in un conflitto tra il papa e l'imperatore devono parteggiare per il primo contro il secondo. Al vescovo di Roma fu concessa anche la facoltà di giudicare e punire con pene spirituali e temporali i sovrani indegni del trono (II, VII, pagg. 129-143). Il Sommo Pontefice non fu investito di due potestà distinte, la spirituale e la secolare, ma di un solo potere che abbraccia il temporale e lo spirituale.
L'autorità ecclesiastica, per regola generale, non s'immischia nei negozi politici e terreni per non avvilire la sua dignità. Soltanto per fini altissimi et certis causis inspectis, i grandi dignitari della Chiesa prendono parte alle faccende temporali. Così gravi motivi li spingono a imporre le decime, ad evocare a sé molte cause civili, come quelle intorno al matrimonio, alla legittimazione dei figli, alla non osservanza dei patti confermati con giuramento. Spetta anche al potere ecclesiastico intervenire nel temporale quando è vacante l'Impero e quando il Principe abusa della potenza a lui affidata con grave danno dei sudditi. La potestà temporale del Romano Pontefice derivata da Dio, è stata confermata dal diritto umano quando Costantino donò a Papa Silvestro e ai suoi successori il regno terreno e concesse l'uso delle insegne imperiali. Ma questa concessione non fu il principio del dominio temporale dei Vicari di Pietro, bensì un riconoscimento pratico ed esterno del diritto di essi a questo dominio. I principi hanno molti doveri: Giacomo da Viterbo ne enumera i principali (II, VII, pagg. 143-161).
La potenza del Vicario di Cristo è pienezza di potestà pontificale e regale. Ogni uomo che appartenga alla Chiesa militante è suddito del Romano Pontefice, nel cui potere tutti gli altri poteri, temporali e spirituali, costituiti da Dio per il governo dei fedeli, sono compresi. Egli limita, ordina, giudica le potenze della terra, e di tutte è il principio e la fine. Si può veramente dire che il suo potere è sine pondere, numero et mensura. A lui, chiudendo il capo nono, l'autore rivolge le stesse parole che S. Bernardo scriveva a papa Eugenio nel secondo libro "De Consideratione": Glorifica brachium dextrum, in faciendo vindictam in nationibus et increpationes in populis, alligando reges eorum in compedibus et nobiles eorum in manicis ferreis (II, IX, pagg. 163-171). L'ultimo capitolo, il decimo (II, X, pagg. 173-199), riporta e confuta alcuni degli argomenti di cui si servono gli scrittori avversi al potere teocratico per abbattere la supremazia politica pontificia. Contro coloro che pur concedendo al Vicario di Pietro la facoltà di scomunicare i principi della terra, negano che egli possa privarli del regno, Giacomo da Viterbo risponde che la stessa autorità può espellere dalla Chiesa i membri viziosi rivestiti della dignità regia o imperiale, può anche sciogliere i sudditi dall'obbedienza verso il principe indegno, affinché il popolo cristiano sia difeso dai cattivi esempi e dalle vessazioni di chi lo governa. A chi obbietta essere il clero sottoposto al potere laico almeno per riguardo al possesso delle cose temporali, distingue il nostro autore tra i beni materiali posseduti dalla Chiesa per diritto divino, e quelli per diritto umano. I primi, quali le primizie, le decime destinate al sostentamento dei ministri del culto, non dipendono dalla potestà secolare perché connessi in certa modo con lo spirituale, i secondi, quali i beni avuti per titolo di vendita e di concessione, non vanno esenti dalla potestà secolare: pro his debet potestas spiritualis principibus temporalibus consueta obsequia et tributa (II, pag. 180).
Rivendica un foro civile e penale a parte, il tribunale ecclesiastico, alle persone addette al culto divino. Alla Chiesa assegna ambedue le spade, la spirituale e la temporale, la prima ad usum, la seconda ad nutum del potere spirituale. Nè vale addurre l'esempio di Cristo che fugge gli onori mondani e non vuole essere chiamato re. Altri tempi quelli, altri bisogni ora nella società. Se Cristo non volle esercitare la sua potenza secolare, non segue che il Figlio dell'Uomo non fosse signore nello spirituale e nel temporale e non potesse commettere a Pietro tutti quei poteri di cui era investito per la conservazione e il progresso perenne della Chiesa. E' compito di Pietro, cioè del papa "pro tempore", avvalersi di tutti i mezzi, di tutta la potenza anche nelle cose materiali che il Divino Maestro ha posto nelle sue mani, per assolvere nel miglior modo possibile l'altissimo ufficio dalla provvidenza a lui affidato.
Il trattato di Giacomo da Viterbo è teorico, serenamente scientifico, con qualche spunto di polemica, ma non personale. Il filosofo agostiniano accoglie le voci dei tempi passati e presenti, le fonde e le esprime con la coscienza del momento storico in cui egli scrive. A differenza del trattato di Egidio che risente della fretta con cui l'autore dovette comporlo perché ha il difetto di frequenti e superflue ripetizioni di concetti e di frasi (Lo confessa l'autore stesso, II, 12: "Forte videbitur multis quod non sit in hoc opere latitudo sermonis secundum exigentiam rei, sed sint ibi plures sermones quam praesens requirit materia, eo quod videatur unum et idem multocies repetitum"), il "De Regimine Christiano" ha tutto l'andamento di una ponderata ed elaborata trattazione. La solida e simmetrica ossatura del trattato, il cui pregio sovrano, comune del resto a tutti gli scritti dell'epoca, è una grande chiarezza ed una grande logica, non ci permette di scorgere esaltazione da parte dello scrittore, ma basta riflettere sugli avvenimenti così appassionati di quel tempo per comprendere che sotto la freddezza apparente della forma, una grande vampata di entusiasmo doveva ardere, impedita dalla veste scientifica e sillogistica del libro di divampare altre lo stato di cenere che lo copriva. Le sue fonti sono quelle comuni a tutte le opere congeneri dell'epoca: il dictatus papae, le decretali di Bonifacio VIII, gli editti di Costantino e di Teodosio, la prammatica sanzione giustinianea; la pseudo-donazione costantiniana, la letteratura canonista antecedente, gli scritti di S. Agostino, S. Bernardo, dell'Areopagita, dei due Vittorini, Ugo e Riccardo.
Il "De Regimine principum" di S. Tommaso e quello di Egidio Romano non dettero a lui armi valide per la polemica, perché non si occupavano del papa se non incidentalmente. Più frequenti sono i punti di contatto con l'altra opera di Egidio, "De Potestate ecclesiastica", ma mentre Giacomo tratta dell'intera organizzazione della Chiesa e cerca di risolvere altri quesiti che il trasformarsi dell'antica società pagana in cristiana presenta alla sua mente di studioso, il suo confratello si limita soltanto a trattare la questione papale. Non si può negare che Giacomo dipenda da Egidio in molte concezioni, specialmente nella descrizione delle relazioni fra il regno spirituale e quello temporale, ma dobbiamo collo Scholz tributare una certa originalità al trattato del filosofo viterbese (RICHARD SCHOLZ, Die Publizistik zur zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII in "Kirchenrechtliche Abhandlungenher". Von Ulrich Stutz, Stuttgart, Enke 1903, pag. 139).
Come vedremo le vedute nuove del "De Regimine Christiano" non sono poche. Anche grande affinità esiste fra il libro del filosofo viterbese e la Bolla "Unam sanctam", la più solenne affermazione della dottrina teocratica nel Medio Evo. Ambedue gli scritti, dopo aver premessa la definizione della Chiesa e averne decantata la grandezza, si diffondono a parlare, nella prima parte, delle prerogative attribuite ad essa nel Credo o Simbolo Apostolico, e nella seconda parte spiegano l'essenza del potere teocratico e i suoi rapporti con quello secolare. Le somiglianze di forma e di esposizione, le affinità dei concetti ci fanno sospettare che anche l'opera di Giacomo da Viterbo oltre quella di Egidio Romano, pubblicata in occasione del sinodo romano dell'ottobre 1302, sia servita alla redazione della celebre bolla. Per Aristotele la politica è la dottrina della moralità individuale. Egli comincia col dimostrare che l'uomo è per natura socievole, άνθρωπος φύσει πολιτικόν ζώον: è spinto irresistibilmente dalla sua inclinazione naturale all'associazione politica. Ed ecco il costituirsi dell'organizzazione statale nella società. Lo Stato è un organismo morale la cui finalità è immanente nella vita sociale e i cui poteri si distribuiscono fra i cittadini. Nei libri della "Politica" balza chiaro il concetto che l'attività morale dell'individuo presuppone una condizione e un complesso nello Stato, e fuori di esso l'individuo non è neppure pensabile (Cfr. DE RUGGIERO, Storia della filosofia, parte prima, Vol. II, pagg. 55-58).
A questa concezione aristotelica largamente s'ispira Egidio Romano nel "De Regime Principum", mutando poi bruscamente ispirazione e idee nel De Potestate Ecc1esiastica. In quest'ultimo trattato la Chiesa viene rassomigliata all'anima e lo Stato al corpo, e, dovendo il corpo, di sua natura inferiore allo spirito, assoggettarsi all'anima, anche il potere laico deve sottoporsi al sacerdotale. E' perciò compito dello Stato procurare all'uomo i mezzi della vita materiale; compito della Chiesa provvedere ai bisogni elevati dello spirito. Soltanto la tutela del corpo e dei beni temporali viene affidata al potere civile. Si notino le parole del "De Potestate Ecclesiastica", I, VI, pag. 21: "Sumus enim creatura Dei et factura Dei, et fecit et formavit nos Deus ex duobus, corpore videlicet et spiritu, et ideo ordinavit et propinavit nobis duplicem cibum, corporalem per quem sustentaretur corpus et spiritualem per quem reficeretur anima: et quia homo poterat impediri in utroque, et in corporali cibo et in spirituali, ordinavit duplicem gladium, materialem, ne impediremur in corpore nec in corporali cibo; et hoc spectat ad potestatem terrenam, cuius est defendere et tueri corpora et possessiones, ex quibus habet esse corporalis cibus: ordinavit nihilominus etiam gladium spiritualem, idest potestatem ecclesiasticam et sacerdotalem, ne impediremur in spirituali cibo et in his quae spectant ad bonum animae". Ogni elemento spirituale viene negato allo Stato, in quanto Stato; solamente la Chiesa può fornirglielo. Invece nel "De Regimine Principum" l'istituzione statale proviene naturalmente dall'essenza stessa dell'uomo. Nella scala della comunità prima viene la famiglia, poi il villaggio, terza la città. "Natura, dice Egidio seguendo Aristotile, quidem impetus in omnibus inest ad talem comunitatem, qualis est comunitas civitatis" (De Regimine Principum, III, I, I, pag. 402. Cito l'edizione stampata in Roma nel 1607 a cura di FR. GIROLAMO SAMARITANO, maestro in S. Teologia).
Lo Stato ha una propria finalità: rendere non soltanto possibile l'esistenza ai cittadini, ma procurar loro una vita agiata e virtuosa, "vivere, sufficenter vivere, et virtuose vivere" (De Regimine Principum, III, I, II, pag. 404). Inoltre, (e ciò prova anche la sua istituzione naturale), suo ufficio di capitale importanza è di assicurare la giustizia ai propri amministrati; "si ergo communitas domestica ordinatur ad prosequendum conferens, et ad fugendum nocivum: communitas vero civitatis ultra hoc ordinatur ad prosequendum iustum et ad fugiendum iniustum, oportet communitatem domesticam et civilem esse quid naturale" (De Regimine Principum, III, I, IV, pag. 410). L'uomo non può vivere se non associato: soltanto un bruto o un Dio potrebbe scegliere la completa solitudine (De Regimine Principum, III, I, IV, pag. 407). Parlando della legge Egidio la distingue in naturale e positiva. Né la legge di natura né quella positiva hanno bisogno del ministero ecclesiastico che le promulghi; perché la prima è scolpita nel cuore degli uomini e quindi ciascuno di noi la conosce appena perviene all'uso di ragione (De Regimine Principum, III, II, XXVII, pag. 528: "Nam lex naturalis est a Deo indita in cordibus nostris: ideo in quolibet homine haec promulgatur et propalatur, quando incipit habere rationis usum, per quam cognoscit quid sequendum et quid fugiendum, secundum quod haec pertinent ad ius naturale), la seconda è un complemento necessario della prima e non è in contrasto con essa e può il potere civile emetterla e interpretarla.
L'autore non lo afferma chiaramente, ma può ricavarsi dalle sue parole. Ad esempio circa il diritto di punire, dice che "naturale est ergo talia punire, sed ea punire sic, vel sic, est positivum et ad placitum" (III, II, XXIV, pag. 519). Oltre il diritto umano esiste quello divino promulgato da Dio. Diverso è il campo dei due diritti: l'umano non giudica l'intenzione dei trasgressori delle leggi, "prohibet manum et non amimum", il divino invece punisce "tam delicta interiora quam exteriora" ("De Regimine Principum", III, II, XXX, pag. 536).
Nell'ambito suo la legge basta a se stessa, ha un proprio fine. Egidio non lo dice chiaramente, ma lo suppone quando asserisce che le leggi naturali e divine, sebbene non siano valevoli a farci conseguire il fine soprannaturale, nondimeno ci aiutano "ad consecutionem illius boni quod possumus naturaliter adipisci" (De Regimine Principum, III, II, XXX, pag. 537). In un'altra opera, nel "Commentario delle sentenze" egli esprime una concezione abbastanza nuova della potestà in genere. "Tutta la potenza, egli dice, è da Dio soltanto generaliter in quanto ordo est: un diritto su di essa viene acquistato soltanto per l'unanime volontà del popolo" (Cfr. SCHOLZ nell'op. cit. pag. 57, nota 56, che riporta il passo dal Kraus, in "Dante, sein Leben und sein Werk etc...", pag. 41). In tal modo l'ordo è la base trascendente e divina della potenza, la iurisdictio ne è la base materiale che deriva unicamente dall'investimento umano. A distanza di pochi anni Egidio da Roma, divenuto campione della potenza pontificia, ben poche teorie aristotelico-tomiste accoglie nel De Potestate ecclesiastica. A queste teorie si avvicina più decisamente Giacomo da Viterbo nel Dé regimine Christiano. Tutte le diverse comunità, famiglia, città, regno, hanno l'origine da un istinto naturale, perché sorgono allo scopo di giungere alla sufficienza della vita (De Regimine Christiano, I, I, 10: "Harum autem communitatum seu societatum institutio ex ipsa hominum naturali inclinatione processit ut Philosophus ostendit p° politicorum. Homo enim naturaliter est animal Sociale, et in multitudine vivens, qaod ex naturali necessitate provenit, eo quod unus homo non potest sufficienter vivere per se ipsum, sed indiget ab alio adiuvari: Unde et sermo datus est homini, per quem alio homini suum conceptum exprimere possit, et per hoc, utilius aliis conimunicare et convivere. Quia igitur naturale est homini vivere in societate, ideo naturalis inclinatio inest hominibus ad Communitates predictas, ordine tamen quodam, quia primo ad Domum, deinde ad Civitatem, consequenter ad Regnum").
La famiglia, la domus, è il punto di partenza, secondo l'ordo naturalis, della civitas e del regnum. Ma in Aristotele l'individuo e la famiglia da un punto di vista soltanto relativo e temporale precedono lo Stato, mentre sotto il rapporto di supremazia ideale lo stato precede la famiglia e l'individuo, come il tutto precede le parti che lo compongono. Lo Stagirita pone nelle sue relazioni di dominio l'elemento essenziale e caratteristico dello stato. Egli distingue fra la vita sociale e la politica, fra il potere che compete al capo di famiglia e quello che spetta al capo dello Stato. In Giacomo da Viterbo è invece fondamentale il concetto dell'equazione di tutte le forme di comunità sociali e politiche. La civitas è più perfetta della domus, il regnum della civitas, soltanto per ragione del numero più grande di membri che abbracciano nel loro governo (De Regimine Christiano, I, I, pag. 11). E poiché i segni esteriori di larghezza di spazio, di numero di membri si ravvisano maggiormente nella Chiesa, essa è il regno per eccellenza, un vero stato perfetto terrestre (Ibidem, I, I, pag. 13: "Et Licet his tribus nominibus communitatem designantibus recte nominetur Ecclesia, magis tamen proprie Regnun vocaretur, tum quia Ecclesia magnam multitudinem comprehendit ex diversis populis et nationibus collectam, et toto orbe terrarum diffusam et dilatatam, tum quia in Ecclesiastica communitate omnia, quae hominum saluti et spirituali vitae suffcient, reperientur, tum quia propter omnium hominum commune bonum instituta est, tum quia ad instar Regni intra se continet aggregationes plurimas ad invicem ordinatas, ut Provincias, Dioceses, Parrochias et Collegia).
Questo regno ecclesiastico ebbe origine da Cristo che lo affidò al suo Vicario, cui perciò spettano tutti i poteri e le prerogative di un sovrano. Giacomo da Viterbo unisce in una strana combinazione il concetto dell'impero terreno-mondiale con quello teologico-morale della Chiesa, potenza spirituale. E non soltanto concepisce la Chiesa come una congregatio politica, ma asserisce che fuori di essa non esiste comunità che possa a buon diritto chiamarsi Stato, res publica. Eppure, malgrado queste premesse, egli riconosce al potere secolare il diritto all'esistenza. Egidio Romano dichiara che gli stati non istituiti dalla Chiesa non sono che quaedam magna latrocinia. Giacomo combatte quest'opinione (De Regimine Christiano, II, VII, pag. 131): egli vuol porre su un fondamento nuovo scientifico il sistema politico ecclesiastico del sito maestro. Non esistono due potente essenzialmente differenti, ma soltanto due gradi di sviluppo di una forza sola, dell'unica potestà che ha due poteri, il secolare (regale) e lo spirituale (sacerdotale) (Ibidem, II, VIII, pag. 146: "secundo considerandum est, quod cum dicitur potestas temporalis praeexistere in illo apud quem est spiritualis, non ita est intelligendum, quasi duas potestates diversas et distinctas habeat, sed quia per unam suam potestatem super spiritualia et temporalia potest. Nam inferiora sunt in superioribus unitive et quod in inferioribus distinguitur, in superioribus unitur. Dicitur tamen in ipso esse duplex potestas propter respectum ad actus diversos: nam prout exercet actus spirituales et administrat spiritualia, dicitur habere potentiam spiritualem, prout autem dirigit, consulit et imperat in temporalibus, dicitur habere potestatem temporalem. II, X, pag. 181: "Potest etiam dici quod potestas regia spiritualis et temporalis non sunt duae potentiae, sed due partes unius potestatis regiae perfectae, quarum una solum est in regibus terrenis et modo inferiori, in spiritualibus autem est utraque et modo eccellentiori. Unde in praelatis ecclesiae et praecipue in summo praelato potestas regia tota et perfecta et plena, in principibus autem saeculi est secundum partem et diminutam, nempe quantum ad temporalia tantum").
Il primo potere non deve la sua esistenza a Dio immediatamente, ma all'inclinazione naturale dell'uomo al vivere sociale. Soltanto la perfezione proviene dalla potestà spirituale alla potenza secolare (Ibidem, pag. 131: "Institutio potestatis temporalis materialiter et inchoative habet esse a naturali hominum inclinatione, ac per hoc a Deo in quantum opus nature est opus Dei: perfective autem et formaliter habet esse a potestate spirituali: quae a Deo speciali modo derivatur. Nam gratia non tollit naturam, sed perfecit eam et format. Et similiter id quod est gratiae non tollit id quod est naturae, sed illud format et perficit. Unde quia potestas spiritualis gratiam respicit, temporalis vero naturam, ideo spiritualem temporalem non escludit, sed eam format et perfecit. Imperfecta quidem et informis est omnis umana potestas, nisi per spiritualem et formatur et perficiatur. Haec autem formatio est approbatio et rectificatio. Unde potestas humana, quae est apud infideles, quantuncunque sit ex inclinatione nature, ac per hoc legitima, tamen informis est, quia per spiritualem non est approbata et rectificata: similiter illa, quae est apud fideles, perfecta et consumata non est, donec per spiritualem faerit rectificata et approbata").
Lo Stato presso pagani e gl'infedeli è legalmente costituito, per quanto imperfetto, e legalmente costituito fu l'impero romano che estese il dominio su tutta la terra; e Costantino, legittimo imperatore, validamente cedette il regno al Romano Pontefice. Ma il diritto umano non concede ai sovrani che il potere di governare i sudditi come uomini; la potestà su di essi come cristiani non proviene che dal diritto divino. Dopo l'avvento di Cristo, i potenti della terra per regnare devono essere consacrati dal papa. Ma mentre per Egidio l'imperatore prima della consacrazione è un semplice uomo, privo di qualsiasi dignità, per Giacomo invece è già sovrano in potenza, ha già in sé la materia di tale potere, la consacrazione non è che la forma che la riduce all'atto (Ibidem, pag. 132: "Nulla igitur potestas saecularis est omnino vera et perfecta, nisi per spiritualem rectificetur, approbetur et confirmetur. Unde unctio regibus adhibetur non solum in signum sanctitatis, quae ei requiritur: sed etiam in signum approbationis et formationis: a pontificibus reges unguntur: quia per spiritualem potestatem, perficitur et formatur illa, quae temporalis dicitur. Et ideo spiritualis potestas potest dici quodam modo forma tomporalis: eo modo quo lux dicitur forma coloris. Color enim habet aliquid de natura lucis, tamen ita debilem habet lucem, quod nisi adsit lux exterior, per quam formatur non inherenter, sed virtualiter, non potest movere visum. Et similiter temporalis potestas habet aliquid de veritate potentiae, cum sit ex iure humano, quod a natura oritur, sed tamen imperfecta et informis est, nisi formetur per spiritualem. Hoc modo institui dicitur per spiritualem, ac si diceretur, quod eam benedicendo sanctificat et formando instituit).
Innegabilmente Giacomo riconosce ed accentua la forza naturale dello Stato: anche nel regno ecclesiastico la potestà regale è più nobile di quella sacerdotale, la jurisdictio supera in dignità l'ordo. Nel concepire le relazioni del potere teocratico con il principato secolare, Giacomo dipende interamente da Egidio. Parecchie volte con un ut quidam docti dicunt, arguunt quidam, egli si riferisce al suo maestro e confratello. Specialmente nelle conseguenze pratiche egli rimane, anche quando innesta qualche idea nuova al sistema politico ecclesiastico, sul punto delle teorie d'Egidio. Due sono i principi fondamentali che regolano i rapporti fra le due potestà, spirituale e temporale. Tutti i diritti che spettano al potere secolare spettano anche, e in modo più eccellente, allo spirituale: tutti i beni materiali che appartengono immediate alla potenza laica appartengono mediate alla sacerdotale (De Regimine Christiano, II, VIII, 143: "Quaecumque sunt sub potestate temporali, sunt etiam sub spirituali, non autem e contra, ut dictum est. Omnia bona temporalia, quae substant potestati temporali, substant etiam spirituali, non tamen eodem modo, quia temporali substant immediate, spirituali mediate"; pag 144: "Omnes actus, qui conveniunt potestati temporali conveniunt etiam spirituali, non tamen eodem modo, sed excellentius"). Giacomo non si discosta dalle idee dei teologi pontifici del tempo. Forse aggiunge alcunché di suo, quando afferma che il principe secolare può qualche volta ottenere una certa supremazia sul potere sacerdotale. E ciò può verificarsi o quando egli è strumento dei re spirituali, (papa o vescovi) che si servono di lui per far sentire la loro potenza al sacerdote non insignito della potestà regio-spirituale, o quando la persona ecclesiastica dipende, "in aliquibus temporalibus" dal sovrano laico (Ibidem, II, IV, pag. 104: "Potestas autem regia temporalis in quantum temporalis est inferior, et minus digna quam sacerdotalis, quae spiritualis est. Sed potest esse superior ea vel in quantum huiusmodi potestas regia istrumentum est regie potestatis spiritualis, quae superior est sacerdotali, vel prout sacerdotalis simplex persona in aliquibus temporalibus, quibus utitur, dependet a rege terreno").
Alla controversia della collazione dei benefici ecclesiastici, Giacomo dedica poche righe, conformandosi in tutto alle leggi espresse nelle decretali e nel diritto canonico. Nega ai laici ogni facoltà di conferire i benefici, e di riceverne l'investitura senza il permesso dell'autorità ecclesiastica. Quando il principe secolare, dietro concessione del potere religioso, conferisce i benefici della Chiesa, agisce in nome della potestà spirituale e non è quindi che l'esecutore delle disposizioni di essa (De Regime Christiano, pag. 145: "Si enim persona laica non potest accipere beneficium ecelesiasticum, multo minus nec ius conferendi aliis potest sibi convenire. Potest tamen instrumentaliter et ministerialiter ad collectionem aliquid operari, presentando vel nominando vel aliquid simile faciendo. Unde quando princeps temporalis dicitur conferre beneficium ecclesiasticum ex concessione potestatis spiritualis, talis collatio est a potestate spirituali, sicut habente auctoritatem, a principe autem est sicut a ministerium exhibente in hiusmodi collatione, presentando vel exprimendo personam beneficio aptam, aut dignam").
Anche l'altra questione dell'imposizione delle decime sui beni ecclesiastici da parte dell'autorità temporale, che aveva fornito a Bonifacio VIII il pretesto per aprire la lotta contro Filippo il Bello, viene da Giacomo appena sfiorata. Le decime sono di origine eminentemente ecclesiastica, il potere religioso le aveva istituite per sostentare i ministri di Dio. I laici devono soddisfare a questa obbligazione anche in riconoscimento della superiorità della potestà spirituale (Ibidem, II, VII, pag. 139: "Princeps secularis et qui ei substant de suis temporalibus censum volvunt potestati spirituali scilicet decimas igitur potestas ipsa spiritualis etiam quantum ad temporalia potest praeesse principibus et principum subditis; cui enim de suis bonis decimas iure annui, census solvit de iure divino, illam se superiorem eodem iure agnoscit").
Il principe secolare non può imporre balzelli sui beni che la Chiesa possiede per diritto divino, quali sono le primizie, le decime, le offerte dei fedeli devolute al sostentamento dei ministri del culto; può imporli soltanto sui beni che per diritto umano appartengono alla potestà spirituale, la quale, anche in tal caso, non intende riconoscere una qual si voglia superiorità o dominio della potenza civile, ma si rassegna a pagare il tributo quasi stipendium pro pace et quiete (De Regime Christiano, II, X, pag. 180). Ma Giacomo da Viterbo non spiega chiaramente il suo concetto, accenna appena fugacemente ai beni provenienti dal diritto umano, nomina soltanto quelli che spettano alla chiesa titulo venditionis et concessionis, non agita la questione allora tanto dibattuta se abbia o no il re la facoltà di richiedere ai chierici le decime per i beni di natura feudale. Lascia al lettore la libertà di trarre un giudizio dalle sue premesse.
Il trattato di Giacomo da Viterbo fu probabilmente conosciuto da Dante. Nelle sue opere il grande poeta non cita mai il filosofo viterbese, ma forse il suo silenzio è originato dal fatto che lo scrittore agostiniano è un avversario dichiarato di quell'idea imperiale che egli tanto caldeggiava. Ma l'analogia di forma e di ripartizione di materia che a prima vista si può osservare fra l'opera del filosofo curialista e il De Monarchia, ci fa sospettare che Dante abbia conosciuto il trattato del vigoroso avversario dell'impero. Inoltre numerosi argomenti che Giacomo addusse a sostegno della sua tesi, ribatte il divino Poeta nella Monarchia. E forse non a torto è sembrato al Vossler che la dottrina dantesca sull'origine divina delle due potestà, religiosa e laica, sia particolarmente diretta contro la teoria di Giacomo da Viterbo dell'unica potestà suprema alla quale compete il potere secolare e spirituale (KARL VOSSLER, La Divina Commedia studiata nella sua genesi e interpretata. Trad di Stefano Iacini. Vol. I, Parte II, p. 445).
Ma quanta diversità d'ispirazione, e di concetto fra i due agostiniani da una parte e Dante dall'altra! L'Alighieri è il primo filosofo laico che nel Medio Evo riconosce allo Stato tutta la sua funzione civile. Egli addita nell'impero il mezzo per giungere alla beatitudine naturale, il freno per reprimere le umane cupidigie che, sfrenate, impediscono il conseguimento della felicità, il rimedio attraverso cui l'uomo possa donare alla volontà fatta conforme a ragione e a giustizia, la forza di tendere al fine naturale, superando la infirmitas che il peccato originale produsse nell'umana natura. L'impero universale che Dante vagheggia, sebbene derivato immediatamente da Dio, è l'organo della giustizia naturale ed umana. Noi non possiamo negare che un grande soffio d'idealità animi i sistemi politici escogitati nel Medio Evo. Le dottrine politiche di quell'età si risolvono quasi sempre in una visione mistica della felicità umana e confinano con l'utopia e con il sogno. In tutti i filosofi e scrittori che trattavano dell'organizzazione statale della società, nei papi e negli imperatori, al desiderio naturale di veder trionfare il proprio partito si accoppiava la speranza di procurare al genere umano il regno della pace e della felicità, il nuovo Paradiso terrestre. Il potere universale che abbracciava tutti i popoli senza tener conto delle loro eventuali aspirazioni nazionali, doveva servire a togliere i contrasti e le lotte tra nazione, e nazione, lo scatenarsi dei conflitti prodotti dall'ambizione di dominio. In Dante questa mistica visione si colora di una fiamma più pura di motivi idealistici, egli intravede nell'avvenire la fratellanza dei popoli per mezzo della pace, concetto già espresso da S. Tommaso che ripone nell'unità quae dicitur pax la salvezza della moltitudine associata. L'impero esce spiritualizzato dalle pagine di Dante, sollevato ad un'altezza prodigiosa, né la sfortuna che seguì l'impresa di Enrico VII valse a togliergli la fede nel suo ideale, cui sempre si mantenne fedele, negli anni giovanili e in quelli tardi, nei tempi prosperi e negli avversi. Noi dobbiamo giudicare il trattato di Giacomo da Viterbo tenendo conto dell'età in cui fu scritto. Nell'aspro conflitto tra i legisti del re di Francia e i teologi pontifici, esso fu un'arma valida di difesa, un modello di trattazione e di polemica serrata a favore del potere teocratico.
Per lungo tempo gli scrittori curialisti si servirono della forma letteraria e degli argomenti a loro prestati dal filosofo viterbese: alla sua opera s'ispirarono Alessandro da S. Elpidio, Agostino Trionfo, Alvaro Pelagio. Nel campo teologico il "De Regimine Christiano" iniziò poi una vera riforma di quel genere di studi che sono compresi sotto il nome di ecclesiologia. Il libro dello scrittore agostiniano è il primo lavoro scientifico, nella storia della teologia, sugli elementi costitutivi dell'essenza della Chiesa e l'estensione dei poteri che furono affidati al suo Capo visibile, il merito di aver messo in luce questo carattere del trattato che abbiamo esaminato spetta a M. H. X. Arquillière, professore di storia nell'Istituto cattolico di Parigi, che in un lucido esame delle fonti dell'idee politiche da Giacomo da Viterbo propugnate, nel volume già da noi citato, rivendicava questo non piccolo vanto all'opera dell'insigne maestro eremitano.