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Percorso : HOME > Opera Omnia > Dialoghi > De Libero arbitrioopera omnia di sant'agostino: DE LIBERO ARBITRIO
Agostino e Gerolamo
DE LIBERO ARBITRIO
Libro terzo
DIO L'UOMO E IL LIBERO ARBITRIO
La prescienza divina e il libero arbitrio (1, 1 - 4, 11)
Necessità libertà colpa.
1. 1. Evodio - Mi è stato apoditticamente dimostrato che la libera volontà è da includere fra i beni, e certamente non infimi. Perciò siamo costretti anche ad ammettere che ci è stata data da Dio e che doveva esser data. Ora dunque, se lo ritieni opportuno, vorrei conoscere da te da chi proviene quel movimento per cui la volontà si muove in senso opposto al bene universale e non diveniente e si muove verso i beni particolari, estranei o infimi, tutti in divenire.
Agostino - Che bisogno di saperlo?
Evodio - Perché se è stata data nella condizione che tale movimento le sia naturale, per necessità si muove verso questi beni e non è possibile rilevar colpa dove domina la necessità naturale.
Agostino - E ti piace o dispiace questo movimento?
Evodio - Mi dispiace.
Agostino - Dunque lo riprovi.
Evodio - Sì, lo riprovo.
Agostino - Dunque riprovi un movimento spirituale incolpevole.
Evodio - Non riprovo un movimento spirituale incolpevole, ma non so se è colpa volgersi ai beni in divenire abbandonando il bene non diveniente.
Agostino - Dunque riprovi ciò che non sai.
Evodio - Non cavillare sulle parole. Ho detto: " non so se è colpa ", per far comprendere che è innegabilmente colpa. Col termine " non so ", ho ironizzato il dubbio su di un argomento così evidente.
Agostino - Cerca di comprendere una verità tanto certa che ti ha costretto a dimenticare così presto il tuo discorso di poco fa. Se il movimento proviene da natura o necessità, non può assolutamente esser colpevole. Tu invece lo ritieni colpevole con tanta certezza che hai ritenuto di dover fare dell'ironia sul dubbio circa un argomento tanto evidente. Perché dunque hai ritenuto di dover affermare innegabilmente o per lo meno opinatamente un tema che tu stesso dimostri innegabilmente falso. Hai detto: " Se la libera volontà è stata data nella condizione che tale movimento le sia naturale, per necessità si volge verso questi beni e non è possibile rilevare colpa dove domina la necessità naturale ". Non avresti dovuto dubitare neanche un po' che non è stata data con questa condizione, dal momento che non dubiti che il movimento stesso è colpevole.
Evodio - Io ho detto che è colpevole il movimento in sé e che per questo mi dispiace e non posso dubitare che è da riprovarsi. In quanto all'anima, che da tale movimento viene fatta precipitare dal bene non diveniente a quelli in divenire, non dico che è da incolparsi, se la sua condizione è tale che vi si muova per necessità.
Il movimento al peccato è libero ...
1. 2. Agostino - Ma di chi è questo movimento che ritieni certamente colpevole?
Evodio - Adesso capisco che è nella coscienza, ma non so di chi sia.
Agostino - Ma affermeresti che la coscienza non si muove con quel movimento?
Evodio - No.
Agostino - Diresti allora che non è della pietra il movimento con cui si muove la pietra? E bada che non sto parlando del movimento con cui la muoviamo noi o è mossa da un agente esterno, come nel caso in cui viene lanciata in alto, ma di quello di cui per propria tendenza descrive la parabola e cade.
Evodio - Non affermo certamente che non è della pietra, ma che le è naturale, il movimento con cui essa, come dici, descrive la parabola e scende al basso. Se l'anima ha anch'essa un tale movimento, esso è certamente naturale e non sarebbe moralmente riprovevole per il fatto che si muove per natura, perché, anche se si muove alla perdizione, vi è spinta dalla condizione della propria natura. Ora, poiché non abbiamo dubbi che questo movimento è colpevole, si deve innegabilmente affermare che non è naturale. Dunque non è assimilabile al movimento con cui la pietra si muove secondo natura.
Agostino - Abbiamo concluso qualche cosa nelle due dispute precedenti?
Evodio - Certo.
Agostino - Suppongo che te lo ricordi. Nella prima è stato accertato che soltanto con la propria volontà la coscienza diviene schiava della passione e conseguentemente che non può subire costrizione a tale stato di abiezione né da un essere superiore oppure eguale perché sarebbe ingiustizia, né da un inferiore perché esso non ne sarebbe capace. Rimane dunque che sia suo personale questo movimento, con cui volge dal Creatore alla creatura la volontà di godere. Quindi tale movimento, se si deve attribuire a colpa, non è naturale ma volontario. A te è sembrato degno di scherno chi ne dubita. Esso dunque è simile al movimento con cui la pietra si muove dall'alto al basso per il fatto che come questo è proprio della pietra, così quello lo è dello spirito. È diverso tuttavia perché la pietra non ha la facoltà di arrestare il movimento con cui discende al basso, mentre lo spirito, purché non lo voglia, non è mosso in maniera che, abbandonate le cose superiori, scelga le inferiori. Pertanto quel movimento è naturale per la pietra, questo volontario per lo spirito. Quindi se qualcuno dicesse che la pietra pecca perché col suo peso tende al basso, non dirò che è più stolto della pietra stessa, ma è certamente giudicato un idiota. Al contrario si giudica di peccato la coscienza quando si può provare che, abbandonati i beni superiori, preferisce nel godimento gli inferiori. Pertanto che bisogno si ha di indagare da chi deriva questo movimento? Con esso appunto la volontà si volge dal bene non diveniente al bene diveniente. Per questo dobbiamo ammettere che è soltanto della coscienza, è volontario e perciò colpevole. Inoltre ogni utile regola in materia ha per scopo che, represso efficacemente questo movimento, volgiamo la nostra volontà dal flusso delle cose temporali al godimento del bene eterno.
... perché dipende dalla volontà.
1. 3. Evodio - Vedo e in certo senso tocco e afferro la verità delle tue parole. Infatti con intima certezza non sono tanto cosciente di altro che di avere la volontà e che da essa soli mosso a godere di un qualche cosa. E non trovo altro da dir veramente mio, se non è mia la volontà con cui voglio e non voglio. Dunque se agisco male, a chi attribuirlo se non a me? Mi ha creato un Dio buono e posso compiere una buona azione soltanto mediante la volontà, dunque è evidente che per questo mi è stata data da un Dio buono. Se il movimento con cui la volontà si volge qua e là non fosse volontario e posto in nostro potere, non si dovrebbe approvare l'uomo quando torce verso l'alto il perno, per così dire, del volere e non si dovrebbe riprovare, quando lo torce verso il basso. Anzi non si dovrebbe affatto ammonire a voler col disprezzo delle cose terrene conseguire le eterne, a non voler vivere male e volere vivere bene. Invece chi pensa che l'uomo non ne deve essere ammonito, si deve radiare dal numero degli uomini.
Il problema della libertà umana e prescienza divina.
2. 4. Stando così le cose, mi turba in modo indicibile il problema della possibilità che Dio abbia la prescienza di tutti i futuri e che noi non pecchiamo per necessità. Chi dicesse che può verificarsi un evento senza che Dio ne abbia prescienza, tenta con folle empietà di demolire la prescienza di Dio. Pertanto Dio ha avuto prescienza che il primo uomo avrebbe peccato. Me lo deve necessariamente concedere chiunque ammette con me che Dio ha prescienza di tutti i futuri. Se dunque è così, non dico che non creerebbe l'uomo dal momento che lo ha creato buono. Così pure non potrebbe nuocere a Dio il peccato di chi ha creato buono. Che anzi se aveva mostrato la sua bontà nel crearlo, mostra la sua giustizia nel punirlo, la sua misericordia nel liberarlo. Non dico dunque che non lo creerebbe, ma dico che dal momento che aveva avuto prescienza del suo peccato, era necessario avvenisse ciò di cui aveva prescienza che sarebbe avvenuto. Quindi come può esser libera la volontà dove si verifica una tanto ineluttabile necessità?
Errori sulla Provvidenza e la vita.
2. 5. Agostino - Hai picchiato con ardore. La bontà di Dio ci assista ed apra a noi che picchiamo. Tuttavia sono portato a credere che la maggior parte degli uomini sono tormentati dal problema perché indagano non religiosamente e sono più facili alla scusa che alla confessione dei propri peccati. Alcuni per leggerezza ritengono che non v'è una divina provvidenza a reggere le cose umane e mentre affidano il proprio essere spirituale e fisico alle sorti del caso, si abbandonano alle passioni per esserne feriti e dilaniati. Negando i giudizi di Dio e imbrogliando quelli dell'uomo, presumono di ribattere col patrocinio della fortuna i loro accusatori. Ma nelle pitture sono soliti rappresentarla bendata per apparire migliori di lei, da cui, a sentir loro, sono governati, ovvero per confessare che anche essi con la medesima cecità pensano e sostengono tali teorie. E forse si può anche concedere loro non illogicamente che passano tutta la vita in balia dei casi perché nel passarla cadono. Ma contro questa opinione piena di un errore assai sciocco e insensato è stato discusso sufficientemente, secondo me, nel nostro secondo discorso. Altri invece non osano negare che la Provvidenza regge la vita umana, ma preferiscono ritenerla con esecrando errore o impotente o ingiusta o perversa piuttosto che confessare i propri peccati con un implorante atto di pietà. Ma si supponga che costoro, nel pensare all'ottimo, giustissimo e potentissimo, si lascino indurre a credere che la bontà, giustizia e potenza di Dio è infinitamente più grande e perfetta di qualsiasi oggetto del loro pensiero. Riflettendo poi su se stessi, comprendano di dover ringraziare Dio, anche se avesse deciso che fossero un essere inferiore a quel che sono e dall'intimo della coscienza gridino: Ho detto: Signore, abbi pietà di me, guarisci la mia anima perché ho peccato contro di te (1). Allora attraverso il sicuro sentiero della divina misericordia sarebbero introdotti nella sapienza, in maniera che non s'insuperbiscano di aver trovato, non si agitino per non aver trovato, diventino più esercitati nella intuizione, se conseguono scienza, e se non la conseguono più umili nella ricerca. Tu che, ne sono certo, hai già questa convinzione, osserva con quanta facilità posso rispondere su un problema tanto importante, quando tu per primo avrai risposto un po' alle mie domande.
Prescienza non è determinismo.
3. 6. Certamente ti turba, e te ne stupisci, come non siano opposti e contrastanti i temi che Dio sia presciente di tutti i futuri e che noi pecchiamo non per necessità ma per volontà. Se Dio, tu dici, è presciente, che un individuo peccherà, è necessario che pecchi; se poi è necessario, non si ha nel peccare l'arbitrio della volontà ma una ineluttabile e determinata necessità. Temi, cioè, che con questo argomento si tragga la conclusione: O in modo blasfemo si afferma che Dio non è presciente di tutti i futuri ovvero, se questo non si può affermare, si deve ammettere che non si pecca per volontà ma per necessità. O c'è altro che ti turba?
Evodio - Per ora no.
Agostino - Dunque, secondo te, tutti gli avvenimenti, di cui Dio è presciente, non avvengono per volontà ma per necessità?
Evodio - Sì, proprio.
Agostino - Svegliati finalmente, rifletti un po' su te stesso e dimmi, se ti è possibile, quale volontà avrai domani, di peccare o di agire rettamente?
Evodio - Non lo so.
Agostino - E pensi che neanche Dio lo sappia?
Evodio - Non potrei pensarlo proprio.
Agostino - Se dunque conosce la tua volontà di domani ed ha prescienza dei voleri futuri di tutti gli uomini che sono e che saranno, a più forte ragione ha prescienza di come agirà con i giusti e gli empi.
Evodio - Certamente, se affermo che Dio è presciente delle mie azioni, con molto maggior sicurezza posso dire che è presciente delle proprie e che prevederà con assoluta certezza ciò che farà.
Agostino - E allora non ti preoccupi della obiezione che egli farà tutto ciò che farà non per volontà ma per necessità, se tutto ciò di cui Dio è presciente avviene per necessità e non per volontà?
Evodio - Quando affermavo che per necessità si verificano tutti gli eventi, di cui Dio è presciente, intendevo parlare di quelli che avvengono nella sua creatura e non di quelli che avvengono in lui perché questi non avvengono, ma sono eterni.
Agostino - Dunque Dio non agisce nella sua creatura.
Evodio - Ha stabilito una volta per sempre come si deve svolgere l'ordine dell'universo che ha creato poiché non governa con un nuovo atto del volere.
Agostino - E non rende felice nessuno?
Evodio - Ma sì.
Agostino - Ma ve lo rende nel momento in cui quegli diviene felice.
Evodio - Sì.
Agostino - Dunque, ad esempio, se fra un anno diverrai felice, fra un anno ti renderà felice.
Evodio - Sì.
Agostino - Quindi sa oggi ciò che farà fra un anno.
Evodio - Ma sempre l'ha saputo ed io sono d'accordo che anche ora lo prevede, se così avverrà.
Il volere è volere anche se preconosciuto.
3. 7. Agostino - Ma, scusa, tu non sei una sua creatura o la tua felicità non avverrà in te?
Evodio - Certo, sono sua creatura e in me avverrà che sarò felice.
Agostino - Dunque non per volontà ma per necessità avverrà in te con l'azione di Dio la felicità.
Evodio - La sua volontà per me è necessità.
Agostino - Dunque sarai felice contro la tua volontà.
Evodio - Se fosse in mio potere esser felice, già lo sarei di certo; lo voglio anche ora e non lo sono perché non io ma egli mi rende felice.
Agostino - Assai bene dal tuo intimo grida la verità. Puoi infatti avere coscienza che è in nostro potere soltanto quello che possiamo realizzare quando lo vogliamo. Pertanto nulla è così in nostro potere che la volontà stessa. Senza alcun intervallo essa è disponibile nell'atto che si vuole. Si può perciò ben dire: "S'invecchia non per volontà ma per necessità, ci si ammala non per volontà ma per necessità, si muore non per volontà ma per necessità ", e così via per casi del genere. Ma chi, anche se pazzo, oserebbe dire: " Non si vuole con la volontà "? Pertanto anche se Dio ha prescienza dei nostri voleri futuri, non ne segue che vogliamo qualche cosa senza volontà. Quando hai detto, riguardo alla felicità, che non divieni felice da te, l'hai detto come se io lo negassi. Ma io dico che, quando diverrai felice, lo diverrai perché lo vuoi e non perché non lo vuoi. Dunque Dio è presciente della futura tua felicità e può verificarsi soltanto l'evento, di cui egli è presciente, altrimenti non sarebbe prescienza. Tuttavia non siamo per questo fatto condizionati a pensare che diverrai felice senza volerlo. Sarebbe proprio assurdo e lontano dalla verità. Come poi la prescienza di Dio, che anche oggi è certa della tua futura felicità, non ti toglie il volere della felicità, così ugualmente un volere colpevole, se qualcuno in futuro si verificherà in te, è ugualmente volere, anche se Dio è stato presciente che si sarebbe verificato.
Volere è in nostro potere.
3. 8. Pensa, ti prego, con quanta cecità si dica: "Se Dio ha avuto prescienza di un futuro mio volere, è ineluttabile che io voglia ciò di cui, ha avuto prescienza perché non può avvenire se non quello di cui ha avuto prescienza. Se dunque è ineluttabile, si deve ammettere che io lo voglio non per volontà ma per necessità". O singolare stoltezza! Come dunque è possibile che avvenga soltanto l'evento, di cui Dio ha avuto prescienza, se non si dà il volere che egli ha preveduto avvenisse? Tralascio l'altro pregiudizio, egualmente mostruoso, che, come ho detto, il medesimo tizio potrebbe esprimere così: " È necessario che io voglia così ". Egli tenta in effetti di demolire la volontà sostituendole la necessità. Se infatti è necessità che voglia, con che cosa vorrà se non v'è volontà? E se non dicesse così, ma che egli non ha in potere la volontà perché è necessità che voglia, gli si può rispondere col tema che hai esposto, quando ho chiesto se puoi esser felice contro volontà. Hai risposto che saresti già felice se tu ne avessi il potere. Hai detto appunto che lo volevi, ma ancora non potevi. Ed io ho soggiunto che la verità gridava dal tuo intimo. Infatti possiamo dire di non avere il potere soltanto se non è presente in noi l'atto del volere; nell'atto poi che vogliamo, se ci manca la volontà, evidentemente non vogliamo. E se è assurdo che non vogliamo quando vogliamo, è evidentemente presente in chi vuole la volontà ed è in potere soltanto l'atto che è presente in chi vuole. Dunque la nostra volontà non sarebbe volontà se non fosse in nostro potere. Effettivamente perché è in nostro potere, è per noi libera. Non è appunto per noi libero ciò che non abbiamo in nostro potere e non può non esserlo ciò che abbiamo in potere. Conseguentemente noi non possiamo negare che Dio è presciente di tutti i futuri e tuttavia che noi vogliamo ciò che vogliamo. Se egli è presciente di un atto del nostro volere, esso sarà quello di cui è presciente. Sarà dunque un atto del volere perché di un atto del volere è presciente. Tuttavia non sarebbe atto del volere se non fosse in potere. Quindi è presciente anche del potere. Dunque non mi si sottrae il potere a causa della sua prescienza, anzi esso sarà più sicuro perché egli, la cui prescienza non s'inganna, ha avuto prescienza che l'avrò.
Evodio - A questo punto non nego più che necessariamente avvengono tutti gli eventi di cui Dio ha prescienza e che ha prescienza dei nostri peccati in maniera che rimanga libera la nostra volontà e posta in nostro potere.
Obiezione su prescienza non determinante.
4. 9. Agostino - Che cosa ti angustia dunque? Ma forse, dimentico del risultato della nostra prima indagine, vorrai affermare che non si pecca per costrizione di altro essere, sia superiore che inferiore o eguale, ma per volontà?
Evodio - Non oso affermare qualche cosa di simile. Tuttavia, lo confesso, non vedo ancora in che modo non si escludano questi due termini, la prescienza divina dei nostri peccati e il nostro libero arbitrio nel peccare. Dobbiamo infatti innegabilmente ammettere che Dio è giusto e previdente. Ma vorrei sapere con quale giustizia punisca peccati che si commettono per necessità, o come non per necessità si verifichino eventi, di cui ha prescienza che avvengano, o come non si debba imputare al Creatore tutto ciò che nella sua creatura avviene per necessità.
Prescienza non è costrizione.
4. 10. Agostino - Per quale motivo ti sembra che il nostro libero arbitrio sia opposto alla prescienza di Dio? Perché è prescienza ovvero perché è prescienza di Dio?
Evodio - Perché è di Dio piuttosto.
Agostino - Dunque se tu avessi prescienza che un tizio peccherà, non sarebbe necessario che pecchi?
Evodio - Anzi sarebbe necessario che pecchi. La mia non sarebbe prescienza se non avessi prescienza di eventi certi.
Agostino - Dunque non perché è prescienza di Dio, è necessario che avvengano gli eventi, di cui è presciente, ma perché è prescienza e tale non sarebbe se non preconosce eventi certi.
Evodio - D'accordo; ma a che scopo questo discorso?
Agostino - Perché, salvo errore, tu non costringeresti ineluttabilmente a peccare quel tizio, del quale prevedi che peccherà e la tua prescienza non lo costringe a peccare, sebbene senza dubbio peccherà. Altrimenti non avresti prescienza che peccherà. Come dunque non sono opposti questi due termini, che tu per tua prescienza sai ciò che un altro compirà con la propria volontà, così Dio, sebbene non costringe nessuno a peccare, prevede però coloro che per propria volontà peccheranno.
Prescienza e giustizia di Dio.
4. 11. Perché dunque non dovrebbe punire con la giustizia le azioni che con la prescienza non condiziona a verificarsi? Come tu infatti con la tua memoria non determini che si siano avverati gli avvenimenti passati, così Dio con la sua prescienza non determina che si debbano avverare gli eventi futuri. E come tu ricordi alcune azioni che hai compiute e tuttavia non tutte le cose che ricordi sono azioni che hai compiute, così Dio ha prescienza di tutte le cose, di cui è autore, ma non è autore di tutte le cose, di cui ha prescienza. È poi giusto punitore di tutte le azioni, di cui non è ingiusto autore. Dunque dal momento che Dio non effettua gli eventi futuri che conosce, cerca di comprendere con quale giustizia Dio punisce i peccati. Se pertanto non dovesse retribuire la pena a coloro che peccano perché prevede che peccheranno, non dovrebbe neanche retribuire il premio a coloro che agiscono bene perché prevede egualmente che agiranno bene. Ammettiamo piuttosto che è di pertinenza della sua prescienza che non gli sfugga un qualsiasi evento futuro e della sua giustizia che il peccato, poiché si commette mediante la volontà, non avvenga senza esser punito dal suo giudizio, come non è determinato ad avvenire dalla sua prescienza.
Il libero arbitrio è un bene medio (5, 12 - 14, 41)
Dio è sempre da lodarsi.
5. 12. Quello poi che hai ricordato al terzo posto, come si possa non imputare al Creatore tutto ciò che nella sua creatura avviene per necessità, non scuoterà facilmente la norma di religione, di cui è opportuno ricordarci, che cioè dobbiamo render grazie al nostro Creatore. Certamente la sua munifica bontà dovrebbe esser lodata, anche se ci avesse posto in un grado inferiore del creato. Infatti quantunque la nostra anima sia stata contaminata dal peccato, è sempre più alta e buona che se fosse convertita in questa luce visibile. E puoi facilmente constatare quanto onorino Dio per l'eccellenza della luce corporea le anime anche se dedite ai piaceri sensibili. Non ti turbi pertanto il fatto che sono biasimate le anime peccatrici al punto da farti dire nella tua coscienza che sarebbe meglio non esistessero. Sono biasimate nel confronto con se stesse se si pensa quali sarebbero se non avessero voluto peccare. Ma Dio ordinatore si deve altamente lodare secondo l'umana capacità, non solo perché le ordina con giustizia se hanno peccato, ma anche perché le regola così che anche macchiate di peccato non possono assolutamente esser superate dall'eccellenza della luce visibile. Eppure anche di essa è lodato.
Due prospettive: ideale ed empirica ...
5. 13. Ti avverto inoltre dal guardarti di dire di tali cose che sarebbe stato meglio non fossero. Devi dire che avrebbero potuto esser prodotte diversamente. Qualunque sia l'essere che ti si presenterà mediante ideale ragione, sappi che l'ha prodotto Dio in quanto creatore di tutte le cose. Non è invece ideale ragione ma astiosa debolezza pretendere che non fosse prodotto un essere meno perfetto perché tu hai pensato che se ne poteva produrre uno più perfetto. È come se, visto il cielo, non volessi che fosse fatta la terra. Del tutto irragionevolmente. Biasimeresti ragionevolmente se, non essendo stato fatto il cielo, tu vedessi che è stata fatta la terra. Potresti infatti dire che avrebbe dovuto essere formata secondo l'idea che hai del cielo. Ma puoi osservare che è stata prodotta anche quella realtà, alla cui perfezione volevi far giungere la terra e che esso non si chiama terra ma cielo. Credo dunque che, non privato della realtà migliore, non dovresti affatto esser contrario a che fosse prodotta anche l'inferiore e fosse terra. E nella terra a sua volta, in riferimento alle sue parti, v'è tanta varietà che non si può presentare idealmente un oggetto della sfera della terra che Dio creatore di tutte le cose non abbia realmente prodotto, tenuto conto di tutta la massa terrestre. Infatti dalla terra molto produttiva e amena si giunge gradualmente attraverso le terre medie fino alla terra deserta e sterile. E tu non potrai biasimarne alcuna se non in confronto con la migliore. E così salirai per tutti i gradini dell'approvazione in maniera da non volere che sia sola quella che hai scoperto come la più nobile manifestazione della terra. E intanto fra la terra nella sua totalità e il cielo quanta distanza! S'interpongono i corpi umidi e aerei e da questi quattro elementi è data una molteplicità di altre forme e perfezioni, innumerevoli per noi, ben note nel numero a Dio. Vi può essere quindi in natura un oggetto che tu non ti rappresenti con la tua ragione empirica. Ma non è possibile che non vi sia quello che tu puoi rappresentarti con l'ideale ragione. Non potresti rappresentarti nel creato qualche cosa di più perfetto che sia sfuggito all'artefice del creato. E l'anima umana, quando in considerazione di ragioni trascendenti, da cui deriva per partecipazione, dice: " Questo sarebbe meglio di quello ", se parla del mondo ideale e ha intelligenza di quel che dice, ne ha intelligenza in quelle ragioni, di cui partecipa. Creda dunque che Dio ha fatto ciò che doveva esser fatto, poiché essa lo ha conosciuto con l'ideale ragione, sebbene non lo veda nelle cose create. Anche se non potesse vedere il cielo con la vista e tuttavia con l'ideale ragione concludesse che tale realtà doveva esser prodotta, dovrebbe credere che è stato prodotto, quantunque non lo veda con gli occhi. Col pensiero non potrebbe vedere che doveva esser fatto se non in quelle ideali ragioni, con cui tutto è stato fatto. E di ciò che in esse non è non si può avere intelligenza con l'ideale ragione per il solo motivo che non è intelligibile.
... nei confronti della libertà e peccato.
5. 14. Parecchi uomini errano appunto perché, avendo compreso con la intelligenza gli oggetti più perfetti, non li cercano nei soggetti convenienti, ad esempio se un tizio, rappresentandosi col pensiero la perfetta rotondità, si sdegna perché non la trova in una noce, nell'ipotesi che, eccettuati questi frutti, non abbia mai visto un altro corpo rotondo. Così alcuni con puro pensiero intuiscono che è migliore la creatura che, sempre unita a Dio, mai ha peccato, sebbene abbia la libera volontà. Tuttavia scorgendo i peccati degli uomini, si dolgono non per smettere di peccare ma perché sono stati creati e dicono: " Ci avrebbe dovuto far tali che volessimo sempre godere della sua immutabile verità e mai peccare ". Non strepitino, non vadano in collera. Non li ha costretti a peccare per il fatto che li ha creati, ma ha dato loro il potere di scegliere. Vi sono degli angeli che non hanno mai peccato né mai peccheranno. Pertanto se ammiri una creatura che con perseverante volontà non pecca, non v'è dubbio che con l'ideale ragione la anteponi a quella che pecca. Ma come tu la anteponi col pensiero, così Dio creatore la antepone nell'ordinamento. Abbi fede che ella vive in un mondo superiore e nell'alto dei cieli perché se il Creatore ha manifestato bontà nella creatura di cui prevede i futuri peccati, manifesta in senso assoluto bontà nel creare la creatura, di cui ha previsto che non avrebbe peccato.
Dignità dell'anima anche se pecca ...
5. 15. Ella, la più alta di tutte, godendo indefettibilmente del suo Creatore, ha la propria indefettibile felicità che merita per l'indefettibile volere di mantenere la giustizia. Ma anche la creatura terrena peccatrice rientra nell'ordine perché, pur avendo smarrito la felicità col peccato, non ha perduto il potere di riconquistarla. Ed essa è certamente superiore a quella che è legata da un'indefettibile volontà di peccare. Fra quest'ultima e quella che persiste nella volontà di giustizia, la seconda manifesta un certo stato di mezzo perché con l'umiltà del pentimento riconquista la propria nobiltà. Infatti neanche da quella creatura, di cui fu presciente che non solo avrebbe peccato ma avrebbe persistito nella volontà di peccare, Dio ha trattenuto, per non crearla, la larghezza della sua bontà. Come infatti è migliore un cavallo, sia pure brado, di una pietra che non è brada appunto perché è priva di movimento proprio e di sensazione, così è più nobile la creatura che pecca per libera volontà di quella che non pecca appunto perché non ha la libera volontà. Allo stesso modo loderei un vino buono nel suo genere, mentre biasimerei l'individuo ubriacato da quel vino, e tuttavia anteporrei l'individuo biasimato e ancora ubriaco al vino lodato, con cui si è ubriacato. Così giustamente si deve apprezzare la creatura fisica, ciascuna nel suo grado, quantunque siano da biasimare coloro, i quali con l'uso immoderato che ne fanno si distolgono dalla conoscenza della verità. Tuttavia essi, a loro volta, ormai pervertiti e in certo senso ubriachi, sono preferiti, non già per merito di vizi ma per dignità di natura alla creatura fisica, nel suo ordine apprezzabile, sebbene si siano perduti nel desiderio smodato di essa.
... rimane superiore al corpo.
5. 16. Dunque l'anima è assolutamente più perfetta del corpo e l'anima peccatrice, in qualunque abisso sia caduta, non può assolutamente per qualche trasformazione divenir corpo, non le si toglie affatto di rimanere anima e non perde assolutamente di esser più nobile del corpo e infine la luce occupa il primo posto fra gli esseri fisici. Ne consegue quindi che l'anima più bassa sia anteposta al corpo più alto. È possibile inoltre che un certo corpo sia anteposto al corpo di una determinata anima ma in nessuna maniera alla stessa anima. Perché dunque non dovrebbe esser lodato Dio con una lode inesprimibile a parole per la ragione che, avendo creato anime, le quali avrebbero perseverato nelle leggi della giustizia, ne creò altre, di cui previde che avrebbero peccato o perfino che avrebbero perseverato nel peccato? Esse sono più nobili di quelle anime che non possono peccare perché non hanno il libero arbitrio fondato sulla ragione. Queste tuttavia sono più perfette della lucentezza per quanto viva di determinati corpi, sia pur quella che alcuni, quantunque con grande errore, venerano come la sostanza dello stesso sommo Dio. Ora nell'ordine delle creature fisiche, dai sistemi stellari fino al numero dei nostri capelli, è gradualmente così coordinata l'armonia delle cose buone che proprio insensatamente si può dire: " Che cosa è questo? A che scopo quest'altro? ". Tutto infatti è stato creato nel proprio ordine: quanto molto più insensatamente si dice in riferimento a qualsiasi anima, la quale, anche se giunta a qualsivoglia diminuzione di perfezione, supererà senza alcun dubbio la perfezione di tutti i corpi?
Ragione ed esperienza nel giudizio pratico.
5. 17. In un senso giudica la ragione, in un altro l'esperienza. La prima giudica alla luce della verità per subordinare le cose meno perfette, alle più perfette, l'esperienza al contrario è spesso mossa dall'abitudine dell'interesse a stimar di più cose che la verità ritiene meno perfette. Il pensiero antepone di gran lunga i corpi celesti ai terrestri. Eppure quale degli uomini sensuali non preferirebbe che mancassero parecchie stelle in cielo anziché un arboscello nel proprio campo o una mucca nel proprio armento? I più anziani disprezzano o per lo meno attendono con pazienza che si correggano certi apprezzamenti dei fanciulli. Costoro infatti preferiscono magari che, esclusi alcuni del cui affetto si rallegrano, muoiano tutti gli altri uomini anziché un loro uccellino, e tanto più se l'uomo è repellente e l'uccellino canterino e grazioso. Allo stesso modo alcuni che mediante avanzamento spirituale hanno raggiunto la sapienza, trovano che certi inesperti apprezzatosi delle cose lodano Dio nelle creature più imperfette perché le usano con maggior vantaggio per la vita sensibile, ma che alcuni non lo lodano affatto o di meno per le creature più alte e perfette, che alcuni perfino tentano di biasimarlo e correggerlo e che altri infine non credono che ne sia il creatore. Ora gli anziani disprezzano del tutto i loro giudizi, se non possono correggerli, o in attesa di correggerli, si abituano a sopportarli pazientemente con animo tranquillo.
A Dio non si attribuisce il peccato.
6. 18. Stando così le cose, è assurdo che si pensi di attribuire al Creatore i peccati delle creature, anche se avvengono per necessità gli eventi che egli ha preveduto dovessero avvenire. Dunque se tu dicessi che non puoi trovare come non si debba attribuire a lui tutto ciò che per necessità avviene nella sua creatura, io al contrario non troverei la misura e affermerei che è impossibile trovarla, che anzi non esiste, per attribuirgli tutto ciò che nella creatura si verifica necessariamente soltanto per volere di chi pecca. Se qualcuno dirà: " Preferirei non essere che essere infelice ", risponderò: " Dici una bugia perché adesso sei infelice e appunto per essere non vuoi morire, quindi quantunque non vuoi essere infelice, vuoi essere tuttavia. Sii grato quindi di ciò che, in corrispondenza al tuo volere, tu sei per liberarti di ciò che sei contro il tuo volere. In corrispondenza al volere sei e contro il volere sei infelice. Che se sei ingrato in quello che desideri essere, giustamente sarai necessitato ad essere ciò che non vuoi essere. Dal fatto dunque che, anche se ingrato, hai ciò che vuoi, lodo la bontà del Creatore, e dal fatto che, perché ingrato, devi sopportare ciò che non desideri, lodo la giustizia dell'ordinatore ".
Volere e felicità dipendono da noi.
6. 19. Se dirà: " Non voglio morire non perché preferisco essere infelice anziché non essere affatto, ma per non essere ancor più infelice dopo morte ", risponderò: " Se questo è ingiusto, non esisterai così, se poi è giusto, lodiamo lui, per le cui leggi così esisterai ". Se dirà: " Da che cosa dovrei presupporre che, se questo è ingiusto, non esisterò così? ", risponderò: " Se sarai in tuo potere, o non sarai infelice, ovvero ordinandoti ingiustamente, sarai giustamente infelice; oppure volendo ma non potendo ordinarti, non sarai in tuo potere e allora o non sarai in potere di un altro o lo sarai. Se non sarai in potere di un altro, non lo sarai o non volendolo o volendolo. Ma se non vuoi, non puoi essere cosa alcuna, a meno che non ti abbia assoggettato una qualche forza; ora non può essere assoggettato da una qualche forza chi non è in potere di altri. Se invece non sarai in potere di un altro perché vuoi, ritorna l'argomento che tu sia in tuo potere e che giustamente sarai infelice se ti ordini ingiustamente, ovvero per il fatto che potrai trovarti in qualsiasi condizione se lo vuoi, hai ancor motivo di esser grato alla bontà del tuo Creatore. Che se non sarai in tuo potere, ti avrà in potere un essere o più potente o più debole. Se più debole, è colpa tua, e meritata infelicità perché potresti assoggettare uno più debole se volessi. Se poi un essere più potente avrà in potere te più debole, non potrai assolutamente pensare con ragione che sia ingiusto un ordinamento tanto razionale. Con verità è stato premesso dunque: Se è cosa ingiusta, non sarai così; se poi è giusta, lodiamo lui, per le cui leggi sarai così ".
Il bene dell'esistenza.
7. 20. Poniamo che dica: " Perciò appunto preferisco essere infelice che non esistere affatto, perché già esisto; se potessi essere richiesto prima di esistere, sceglierei di non essere anziché essere infelice. Attualmente il temere di non esistere, sebbene non infelice, rientra nella stessa infelicità, per cui non voglio ciò che dovrei volere: dovrei infatti desiderare di non esistere, anziché di essere infelice. Attualmente, certo, ammetto che preferisco di essere anche infelice anziché non essere, ma lo desidero tanto più insipientemente quanto più infelicemente e tanto più infelicemente quanto più veramente penso che non avrei dovuto desiderarlo ". Ed io rispondo: " Sta attento piuttosto a non sbagliare proprio in questo, che credi di pensare il vero. Se infatti tu fossi felice, preferiresti essere che non essere; e attualmente, sebbene infelice, preferisci essere, magari infelice, che non essere affatto, quantunque non vuoi essere infelice. Rifletti dunque, nei limiti del possibile, quale grande bene sia lo stesso essere che felici e infelici desiderano. Se rifletterai bene sul tema, ti accorgerai che in tanto sei infelice, in quanto non sei vicino all'essere che sommamente è, che in tanto pensi che è meglio non essere che essere infelici, in quanto non intuisci l'essere che sommamente è e che perciò appunto desideri esistere perché sei da lui che sommamente è ".
L'indistruttibile desiderio di essere.
7. 21. Se dunque desideri sfuggire all'infelicità, ama in te questo tuo voler essere. Se infatti desidererai sempre di essere, ti avvicinerai a lui che sommamente è. E per adesso sii grato perché esisti. Quantunque infatti tu sia inferiore agli uomini felici, sei superiore a quegli esseri che non hanno neanche il desiderio della felicità. Eppure molti di essi sono apprezzati perfino dagli infelici. In verità tutte le cose, per il fatto che sono, giustamente si devono apprezzare, perché per il fatto che sono, sono buone. Infatti quanto più amerai di essere, tanto più desidererai la vita eterna e intensamente vorrai avere tali attitudini che le tue inclinazioni non siano temporali, impresse a fuoco dall'amore delle cose temporali. E le cose temporali non sono prima di essere, fuggono quando sono e quando fuggiranno non saranno. Dunque quando sono future, ancora non sono e quando sono passate, non sono più. Come dunque possono essere trattenute perché si arrestino? Per esse infatti il cominciare ad essere è muoversi al non essere. Chi ama di essere, le ritiene buone in quanto sono, ma ama ciò che è eternamente. E se si diversificava nell'amore delle cose temporali, tornerà all'uno nell'amore dell'eterno, e se si poneva nel divenire mediante l'amore delle cose che passano, si renderà immobile e avrà quiete nell'amore dell'essere che permane e conseguirà lo stesso essere che desiderava, quando temeva di non essere e non poteva avere quiete perché trascinato dall'amore delle cose che passano. Non ti dispiaccia dunque, anzi ti piaccia molto che preferisci essere, magari infelice, che non essere infelice per il motivo che non saresti affatto. Se a questo fondamento del voler essere tu aggiungi di essere sempre di più, tu ti edifichi innalzandoti a ciò che sommamente è; e così ti preserverai da ogni crollo con cui passa al non essere l'essere più basso e trascina con sé le energie di chi lo ama. Ne avverrà come risultato che chi preferisce di non essere per non essere infelice sia infelice perché non può non essere. Chi poi ama di essere più di quanto odia di essere infelice, con l'accrescere ciò che ama, escluda ciò che odia. Quando comincerà ad essere secondo fine nel proprio grado, non sarà più infelice.
Non si sceglie il nulla.
8. 22. Rifletti con quanto illogica contraddizione si dice: " Preferirei non essere che essere infelice ". Chi dice: " Preferirei questo a quello ", sceglie un qualche cosa. Il non essere invece non è un qualche cosa, ma niente. Dunque ti è assolutamente impossibile scegliere secondo ragione, se ciò che scegli non è. Ma tu dici che desideri di esistere, magari infelice, ma che non avresti dovuto desiderarlo. Che cosa dunque avresti dovuto desiderare? " Non essere piuttosto ", rispondi. Se tu avessi dovuto voler questo, esso sarebbe più perfetto, ma è impossibile che il non essere sia più perfetto. Dunque non avresti dovuto desiderare il non essere ed è più veritiero il sentimento per cui non lo desideri che la teoria per cui ritieni che avresti dovuto desiderarlo. Inoltre, quando l'uomo giunge a ciò che sceglie come oggetto di desiderio, diventa necessariamente più perfetto. Ora chi non esiste non potrà esser più perfetto. Dunque non si può assolutamente scegliere di non essere. E bisogna che non ci lasciamo scuotere dal giudizio di coloro che sotto il travaglio della infelicità si sono uccisi. Essi hanno cercato scampo dove hanno ritenuto di trovarsi meglio e, comunque l'abbiano ritenuto, non costituisce difficoltà per la nostra tesi, ovvero se hanno supposto di finire nel nulla, assai meno m'impressionerà la falsa scelta di individui che scelgono il nulla. Come potrò seguire nella scelta un tizio, il quale se gli chiedessi che sceglie, mi rispondesse: " Niente "? Infatti chi sceglie di non esistere è costretto certamente ad ammettere, anche se non vuole ammetterlo, che non ha scelto nulla.
Opinioni sentimento e desiderio di non essere.
8. 23. Dirò tuttavia, se ne sarò capace, il mio parere sull'argomento. Mi sembra che quando un individuo si uccide o comunque desidera di morire, non ritiene nel proprio sentimento che dopo morte non esisterà più, anche se lo ritiene per opinione. La opinione consiste infatti o nell'errore o nella verità raggiunta da chi dimostra o crede; il sentimento, al contrario, si fonda o sulla consuetudine o sulla natura. Ora è possibile che si abbiano in maniera diversa l'opinione e il sentimento. È facile conoscerlo anche dal fatto che spesso riteniamo di dover fare una cosa, mentre ci piace farne un'altra. E talora è più veritiero il sentimento che l'opinione, se questa ha origine dall'errore e il sentimento dalla natura. Ad esempio, un infermo spesso trae piacere, e con vantaggio, dall'acqua fredda, ma crede che, se la beve, gli nuocerà. Talora è più veritiera l'opinione che il sentimento, se l'infermo crede alla diagnosi del medico che l'acqua fredda è nociva, se di fatto è nociva, e tuttavia ha piacere nel berla. Talora sono tutte e due nella verità, quando ciò che è giovevole non solo è ritenuto tale ma piace anche, e talora tutte e due nell'errore, come quando ciò che è nocivo si ritiene giovevole e l'infermo non lo rifiuta liberamente. Inoltre di solito tanta forza è nel dominio e nella supremazia della ragione che una retta opinione corregge una cattiva abitudine e una cattiva opinione deprava la retta natura. Quando dunque qualcuno, credendo che egli dopo morto non ci sarà più, è spinto da intollerabili sofferenze al definitivo desiderio della morte e la incontra per libera scelta, secondo l'opinione ha l'errore della totale distruzione, ma nel sentimento il naturale desiderio di riposo. Ora ciò che è in riposo non è un nulla, anzi è anche più perfetto dell'essere in movimento. Il movimento infatti diversifica le determinazioni d'essere nel senso che una esclude l'altra. Il riposo al contrario ha la permanenza, per cui principalmente si concepisce il predicato È. Pertanto il desiderio di voler morire va inteso non nel senso che chi muore non è più, ma che raggiunge il riposo. Così, sebbene per errore crede di non esser più, per natura tuttavia desidera di essere nel riposo, cioè di essere di più. Quindi come è assolutamente impossibile che piaccia di non essere, così bisogna assolutamente non essere ingrati al proprio Creatore di ciò che si è.
Ogni cosa nel suo grado di perfezione.
9. 24. Poniamo che dica: " Non era difficile o faticoso a Dio onnipotente che tutte le cose da lui create avessero il proprio ordine senza che alcuna giungesse alla infelicità. Essendo onnipotente, non è che non l'ha potuto ed essendo buono, non ce l'ha invidiato ". Risponderò che l'armonia del creato, dalla più grande alla più piccola delle creature, si dispone con ordine così giusto che lo sviserebbe chi dicesse: " Questa cosa non dovrebbe esserci ", ed anche chi dicesse: " Questa cosa dovrebbe esser come quest'altra ". Desidera, supponiamo, che essa diventi eguale a una superiore. Ma la superiore esiste già ed ha l'essere competente sicché non è possibile aggiungergliene altro perché è perfetta. E chi obiettasse: " Anche l'inferiore dovrebbe esser come l'altra ", o vorrebbe aggiungere a quella superiore già perfetta e sarebbe privo della misura e ingiusto, oppure vorrebbe sopprimere l'inferiore e sarebbe malvagiamente invidioso. Chi dicesse: " L'inferiore non dovrebbe esistere ", sarebbe in egual modo malvagiamente invidioso perché non vorrebbe che esistesse una creatura anche se è costretto ad apprezzarne una meno perfetta. Poniamo che dica: " Non dovrebbe esserci la luna ". Eppure deve ammettere, e se lo nega è per vera ignoranza o caparbietà, che lo splendore di molto inferiore di una lucerna è nel suo genere bello, conveniente durante le tenebre della terra perché adatto agli usi della notte e a motivo di tutto questo certamente apprezzabile nei suoi limiti. Non può dunque dire ragionevolmente: " La luna non dovrebbe esserci nel mondo ", giacché comprenderebbe di dover essere deriso anche se dicesse: " Non dovrebbe esserci la lucerna ". Che se dice: " La luna non dovrebbe esserci ", ma aggiunge che la luna dovrebbe essere come vede che è il sole, non capisce che finisce per dire: " Non dovrebbe esserci la luna, ma due soli ". E sbaglia per due motivi, perché desidera aggiungere qualche cosa alla perfezione della realtà, quando desidera un altro sole, e desidera diminuire, quando vuole che sia soppressa la luna.
Provvidenza nella verità delle perfezioni.
9. 25. A questo punto forse mi potrebbe dire che non si lamenta affatto della luna perché anche se il suo splendore è così scarso non può essere infelice. Si lamenta invece non della mancanza di luce ma dell'infelicità delle anime. Ma egli rifletta attentamente che se lo splendore della luna non è infelice, quello del sole non è felice. E sebbene siano corpi celesti, sono tuttavia corpi per attinenza alla luce che si può percepire con la vista. I corpi per sé non possono essere né felici né infelici, sebbene possano essere corpi di esseri felici o infelici. Ma la similitudine derivata da quegli splendori insegna qualche cosa. Nell'osservare le diversità dei corpi, quando scorgi alcuni più splendenti, richiedi ingiustamente che i più oscuri siano eliminati o resi eguali ai più splendenti. Riferendo tutto alla perfezione dell'universo, ti è possibile constatare che se fra di loro sono più o meno splendenti, lo sono in quanto hanno tutti l'esistenza e non ti si manifesterebbe un universo perfetto se nell'apparire dei più perfetti mancassero i meno perfetti. Pensa la medesima cosa sulla differenza delle anime. Avrai modo perfino di conoscere che l'infelicità, di cui ti lamenti, serve anche ad uno scopo. Alla perfezione dell'universo infatti non devono mancare anime che sono dovute divenire infelici perché hanno voluto peccare. E non si deve affermare che Dio non doveva crearle in quelle condizioni perché deve esser lodato anche se ha creato altri esseri di molto inferiori a quelle infelici.
Per ordine è creata l'anima ...
9. 26. Ma sembra che comprendendo meno bene quanto è stato detto, abbia ancora una obiezione. Dice infatti: " Se anche la nostra infelicità completa la perfezione dell'universo, sarebbe mancato qualche cosa e questa perfezione nell'ipotesi che fossimo sempre felici. Quindi se l'anima incontra l'infelicità soltanto peccando, anche i nostri peccati sono necessari alla perfezione dell'universo che Dio ha creato. Come dunque punisce giustamente i peccati dal momento che se fossero mancati, il creato non avrebbe pienezza e perfezione? ". Si risponde che non i peccati o l'infelicità sono necessari alla perfezione dell'universo ma le anime in quanto anime. Se esse vogliono, peccano; se hanno peccato, divengono infelici. Se invece tolto il loro peccato, la infelicità continuasse o anche precedesse il peccato, allora con ragione si direbbe che viene alterato l'ordinato governo dell'universo. Ma a sua volta se si commette il peccato e non ci fosse l'infelicità, ugualmente l'ingiustizia demolisce l'ordine. Ma l'universo ha perfezione, quando c'è felicità per chi non pecca. Ed ugualmente l'universo ha perfezione, quando c'è infelicità per chi pecca. Ma per il fatto che non mancano le anime, le quali hanno l'infelicità se peccano e la felicità se agiscono secondo ragione, l'universo è pieno e perfetto di tutte le determinazioni dell'essere. Infatti il peccato e la pena del peccato non sono esseri determinati ma perturbazioni dell'essere, la prima volontaria, la seconda penale. Ma la volontaria, che avviene col peccato, è una perturbazione contro il fine. Le si applica dunque quella penale che la reinserisca in quel settore dell'ordine, in cui quello stato non è contro il fine e la costringa a conformarsi all'armonia dell'universo. Così la pena del peccato corregge la disarmonia del peccato.
... ma il peccato e l'infelicità ...
9. 27. Ne risulta che una creatura più perfetta, se pecca, sia punita dalle creature meno perfette giacché esse sono tanto basse che possono ricevere elevazione anche dalle anime indegne e così adattarsi all'armonia dell'universo. Non v'è in una casa nulla di più degno dell'uomo e nulla di così abietto e basso che la fogna della casa. Eppure lo schiavo sorpreso in una trasgressione tale che sia giudicato degno di curare la nettezza della fogna, la rende degna con la propria indegnità. Le due cose, cioè l'indegnità del servo e la ripulitura della fogna, sono ormai congiunte e ridotte a una determinata unità, sono inserite così idoneamente nella sistemazione della casa che convengono all'insieme di essa con ordine e decoro. Ma se il servo non avesse voluto peccare, non sarebbe mancato all'organizzazione della casa un altro provvedimento per le necessarie ripuliture. Pertanto il corpo terreno è la cosa più bassa nella realtà. Eppure anche un'anima peccatrice innalza in tal maniera la carne corruttibile da offrirle la perfezione conveniente e il movimento della vita. Dunque una simile anima a causa del peccato non è idonea all'abitazione nel cielo, ma è idonea mediante la pena a quella sulla terra. Quindi, comunque sceglie, l'universo rimane bello in quanto ordinato mediante parti convenienti perché Dio ne è creatore e provvidenza. E le anime più buone finché rimangono fra le creature più basse, non le elevano con la propria infelicità, che non hanno, ma con il loro buon uso. Se poi fosse permesso alle anime peccatrici di raggiungere i luoghi più elevati, sarebbe un disordine in quanto non sono idonee ad essi perché non possono usarne bene né conferire loro una qualche elevazione.
... rientrano nell'ordine.
9. 28. Dunque sebbene l'orbe terrestre sia stato assegnato alle cose materiali, tuttavia conservando, quanto è possibile, l'immagine esemplare più alta, non manca di mostrarcene copie e segni. Supponiamo dunque di vedere un individuo buono e illustre, il quale, sotto l'impulso del dovere dell'umana dignità, lascia bruciare il proprio corpo dal fuoco. Non consideriamo il fatto come pena di un peccato ma testimonianza di fortezza e di pazienza e stimiamo l'uomo nel momento in cui un'orribile consunzione distrugge le membra del suo corpo più che se non avesse sopportato tale pena perché ammiriamo che l'indole spirituale non muta col mutare del corpo. Ma quando vediamo consumarsi con tale supplizio il corpo di un bandito sanguinario, noi approviamo l'ordinamento delle leggi. Quindi tutte e due le pene elevano, ma la prima come merito della virtù, la seconda del peccato. Se dunque dopo quel tormento o anche prima vedessimo che quell'individuo degnissimo, resosi capace della vita celeste che gli si addice, viene elevato alle stelle, certamente ci allieteremmo. Ma ognuno si sentirebbe offeso nel vedere sia prima che dopo il supplizio, elevato alla dimora eterna della gloria, nel cielo, lo scellerato bandito, se persiste nella malizia del volere. Avviene così che tutte e due hanno potuto elevare le creature meno perfette, ma una soltanto le più perfette. Da ciò siamo indotti a constatare che la mortalità della carne è stata elevata tanto dal primo uomo perché la pena convenisse al peccato, quanto da Nostro Signore perché la misericordia ci liberasse dal peccato. Dunque un giusto ha potuto, perseverando nella giustizia, avere un corpo mortale. Invece un individuo iniquo, mentre rimane iniquo, non può giungere alla immortalità dei santi, intendi quella più alta e angelica, non di quegli angeli, di cui l'Apostolo ha detto: Non sapete che giudicheremo gli angeli (2), ma di quelli, di cui il Signore ha detto: Saranno eguali agli angeli di Dio (3). Coloro invece, che desiderano l'eguaglianza con gli angeli per la propria vanagloria, non vogliono essere eguali agli angeli ma gli angeli a se stessi. Pertanto, se continuano in tale volere, saranno eguagliati agli angeli prevaricatori che amano il proprio potere anziché quello di Dio onnipotente. Ad essi, destinati alla sinistra giacché non hanno cercato Dio passando per la porta dell'umiltà che il Signore Gesù Cristo ha svelato in sé e sono vissuti nella superbia senza pietà per gli altri, sarà detto: Andate nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e i suoi angeli (4).
Giusta soggezione al diavolo.
10. 29. Due sono le cause del peccato, una per spontanea determinazione, l'altra per istigazione di un altro. Penso che al caso attiene ciò che dice il Profeta: O Signore, mondami dai miei peccato occulti e perdona il tuo servo da quelli degli altri (5). Certo l'uno e l'altro sono volontari. Infatti come per spontanea determinazione un individuo non pecca senza libertà, così quando acconsente al cattivo istigatore, acconsente certamente col volere. Tuttavia è più grave non solo peccare per propria determinazione senza l'istigazione di alcuno, ma soprattutto istigare ad altri il peccato per malanimo o inganno che esser trascinato a peccare dall'istigazione di un altro. Dunque nell'uno e nell'altro peccato è stata mantenuta la giustizia del Signore nel punire. Ed anche la istigazione al peccato è stata pesata al vaglio della equità al punto che l'uomo non fu sottratto al potere dello stesso diavolo che se lo aveva assoggettato con la cattiva istigazione. Era ingiusto che non dominasse su chi aveva reso schiavo. È assolutamente impossibile infatti che la perfetta giustizia di Dio vero e sommo, la quale si estende dovunque, abbandoni senza ordinarla al fine persino la rovina di coloro che peccano. Ma l'uomo aveva meno peccato del diavolo. Gli valse dunque per riconquistare la salvezza il fatto stesso che è stato, fino alla mortalità della carne, assoggettato al principe di questo mondo, inteso come parte corruttibile e infima della realtà, cioè al principe di tutti i peccati e signore della morte. Così, sgomento nella consapevolezza della soggezione alla morte, timoroso delle molestie e della morte provenienti da bestie molto spregevoli e abiette e perfino assai piccole, incerto del futuro, ha contratto l'abito di frenare i piaceri illeciti e soprattutto reprimere la superbia poiché per sua istigazione è decaduto. Con questo solo vizio appunto si respinge la medicina della misericordia. Chi infatti ha tanto bisogno di misericordia quanto un miserabile e chi è più indegno di misericordia d'un miserabile superbo?.
Ragione teologica dell'Incarnazione.
10. 30. Ne è avvenuto che il Verbo di Dio, mediante il quale tutto è stato fatto e da cui è costituita tutta la felicità degli angeli, ha esteso la propria clemenza fino alla nostra infelicità, è divenuto carne e ha abitato in mezzo a noi. Così l'uomo, senza essere reso eguale agli angeli, avrebbe potuto mangiare il pane degli angeli, se lo stesso pane degli angeli si fosse degnato di eguagliarsi agli uomini. Non è disceso fra noi per abbandonare gli angeli, ma tutto per essi e insieme tutto per noi, cibando quelli nell'interiorità mediante l'essenza divina e insegnando a noi nell'esteriorità mediante l'essenza umana, ci rende idonei con la fede a cibarci egualmente mediante l'apparenza sensibile. La creatura pensante si ciba del Verbo come del suo migliore cibo. L'anima umana è pensante, ma era trattenuta dalla catena della morte per la pena del peccato ed era ridotta a tale imperfezione che si sforzava di pensare gli intelligibili mediante l'esperienza dalle cose sensibili. Pertanto il cibo della creatura pensante è divenuto visibile, non mediante trasformazione della propria natura ma mediante assunzione della nostra per richiamare a sé invisibile esseri che seguono le cose visibili. Così l'anima trovò umile nell'esteriorità colui che aveva abbandonato insuperbendosi nella interiorità. Doveva imitare la sua umiltà visibile e tornare all'altezza invisibile.
Giusto riscatto del diavolo.
10. 31. E il Verbo di Dio, unico figlio di Dio, assunto l'uomo, assoggettò anche all'uomo il diavolo che ebbe sempre soggetto alle proprie leggi. Non gli ha sottratto qualche cosa dominandolo con la forza, ma l'ha vinto con legge di giustizia. Ora il diavolo, ingannata la donna e fatto cadere mediante la donna l'uomo, reclamava alle leggi della morte, sia pur con maligno desiderio di nuocere, ma con legittimo diritto, tutta la discendenza del primo uomo come peccatrice. Quindi il suo potere avrebbe dovuto durare fino a quando non faceva morire il giusto, nel quale non poté riscontrare motivo che lo rendesse degno di morte, non solo perché è stato ucciso senza aver commesso delitto, ma anche perché è nato senza concupiscenza. Ad essa aveva fatto soggiacere gli uomini, che aveva fatto prigionieri, in maniera da trattenere, sia pure con malvagio desiderio di dominare e tuttavia con legittimo diritto di possedere, come frutti del proprio albero, gli uomini che dovevano nascere dalla concupiscenza. Con piena giustizia dunque è costretto a lasciar liberi i credenti in colui che con somma ingiustizia egli ha fatto morire, sicché per il fatto che muoiono nel tempo, paghino ciò che dovevano e per il fatto che vivono per sempre, vivano in lui che ha pagato ciò che non doveva. Il diavolo poi avrebbe avuto con sé compagni in una perpetua condanna coloro che aveva istigato alla continuità nella ribellione. Avvenne così che l'uomo non fu sottratto al diavolo con la forza perché anche egli non l'aveva preso prigioniero con la forza ma con l'istigazione. E l'uomo che giustamente è stato umiliato di più ad essere schiavo di colui, a cui aveva acconsentito per il male, giustamente era liberato da colui, a cui aveva acconsentito per il bene perché di meno aveva peccato l'uomo col consentire che il diavolo, con la malvagia istigazione.
Anime che peccano ed anime che non peccano.
11. 32. Dio dunque ha creato tutti gli esseri, e non solo quelli che avrebbero continuato nella virtù e giustizia, ma anche quelli che avrebbero peccato, non perché peccassero ma perché avessero conferito armonia all'universo, sia che avessero voluto peccare o non peccare. Se infatti alla realtà mancassero anime che raggiungono fra tutte le creature la perfezione dell'ordine sicché se avessero voluto peccare, s'indebolirebbe e crollerebbe l'universo, verrebbe a mancare un grande principio al creato. Mancherebbe appunto quel principio, senza di cui sarebbe turbata l'invariabile armonia delle cose. Esse sono le ottime sante e altissime creature dei poteri celesti e sopracelesti, ai quali soltanto Dio comanda e cui l'universo è soggetto. Senza la loro funzione di perfetta giustizia non può sussistere l'universo. Egualmente mancherebbe moltissimo, se mancassero anime, le quali, sia che pecchino, sia che non pecchino, nulla sarebbe tolto all'ordine dell'universo. Vi sono infatti delle anime ragionevoli, differenti dalle superiori per funzione, ma eguali per natura. Sotto di esse vi sono ancora molti gradi inferiori, comunque degni di lode, di cose create da Dio sommo.
I gradi di perfezione nelle anime.
11. 33. Di funzione più alta è dunque quell'essere, il quale non solo se non esistesse, ma anche se peccasse, renderebbe meno perfetto l'ordine dell'universo. Di funzione inferiore è quello che soltanto se non esistesse e non se peccasse, l'universo subirebbe una imperfezione. Al primo è stato dato il potere di contenere nella propria funzione tutto ciò che non può mancare all'ordine delle cose. Esso non persiste nell'ordinato volere perché ha ricevuto questa funzione, ma l'ha ricevuta perché è stato previsto da chi gliela ha data che avrebbe perseverato. E non per propria supremazia contiene tutto, ma unendosi alla supremazia e ubbidendo con assoluta dedizione all'ordine di colui che è principio, ordinatore e fondamento di tutte le cose. Anche all'anima inferiore è data, se non pecca, la potente funzione di contenere tutto, non da sola tuttavia ma con quella superiore perché è stato previsto che peccherà. Gli esseri spirituali infatti hanno fra di sé congiungimento senza accrescimento e separazione senza diminuzione. Dunque l'essenza superiore non è agevolata nel compimento della sua azione, quando le si congiunge la inferiore, né l'azione gli diventa più difficile se l'altra abbandona la propria funzione col peccato. Le creature spirituali possono unirsi o separarsi secondo concordia o discordanza delle disposizioni e non secondo spazio e tempo, sebbene alcune hanno un proprio corpo.
Anime superiori e inferiori.
11. 34. L'anima ordinata dopo il peccato nei corpi inferiori e mortali domina il proprio corpo non certo arbitrariamente, ma come permettono le leggi dell'universo. Comunque tale anima non è meno perfetta di un corpo celeste, sebbene ad esso siano soggetti i corpi terreni. La veste cenciosa di uno schiavo condannato è molto inferiore alla veste di uno schiavo meritevole e avuto in grande onore dal padrone, ma lo schiavo è migliore di qualsiasi veste preziosa perché è uomo. L'anima superiore dunque si unisce a Dio e in un corpo celeste con potenza angelica eleva e dirige anche il corpo terrestre come gli ordina colui, di cui ineffabilmente intuisce il volere. La inferiore invece appesantita da membra mortali regge all'interno il corpo stesso, da cui è gravata e tuttavia lo eleva quanto può. Quanto ai corpi che le sono vicini all'esterno, può modificarli all'esterno con azione molto più debole.
Il peccato e il non peccato nell'ordine.
12. 35. Se ne conclude che non sarebbe mancata alla infima creatura corporea l'armonia più conveniente, anche se l'anima inferiore non avesse voluto peccare. Infatti l'anima che può reggere il tutto, regge anche la parte, ma non necessariamente quella che può il meno, può anche il più. Un bravo medico sana efficacemente anche la scabbia, ma non necessariamente chi provvede con vantaggio a uno scabbioso, può provvedere a tutta la salute umana. E se si ha la dimostrazione valida dell'evidenza che era necessaria l'esistenza di una creatura che mai ha peccato e mai peccherà, la medesima dimostrazione ci svela anche che essa rifugge liberamente dal peccato e che non è costretta a non peccare, ma lo fa di propria scelta. Ma poniamo che peccasse. Non ha peccato tuttavia come Dio ha previsto che non avrebbe peccato. Comunque se anche essa peccasse, basterebbe a reggere l'universo la grandezza dell'ineffabile potere di Dio. Egli dando a ciascuno secondo convenienza e merito, non permette che in tutto il suo dominio vi sia qualche cosa di deforme e sconveniente. Infatti da un lato, se ogni creatura angelica si fosse ribellata ai suoi ordini col peccato, egli mediante la sua potenza reggerebbe il tutto con assoluta convenienza e bontà, senza i poteri angelici creati a questo scopo. Nell'ipotesi non invidierebbe alla creatura spirituale l'esistenza perché ha prodotto con tanta larghezza di bontà anche la creatura fisica molto inferiore agli esseri spirituali che hanno peccato. Di conseguenza non v'è alcuno, il quale osservando con intelligenza il cielo, la terra e tutti gli esseri visibili prodotti nei loro generi secondo misura, forma e ordine, pensi che vi sia un altro artefice del tutto fuor di Dio e non confessi che egli si deve onorare con lodi ineffabili. Dall'altro lato non c'è migliore ordinamento della realtà che quello, in cui il potere angelico per superiorità di natura e per bontà del volere eccelle nel governo dell'universo. Ma anche se tutti gli angeli avessero peccato, non produrrebbero impotenza nel Creatore degli angeli a reggere il proprio dominio. Infatti né la sua bontà mancherebbe per una certa qual noia, né la sua onnipotenza per qualche difficoltà di crearne altri da porre nelle sedi che i precedenti avessero abbandonato col peccato. Ed anche se la creatura spirituale in qualsiasi numero fosse condannata perché lo merita, non potrebbe limitare l'ordine che con giustizia e convenienza accoglie tutti i dannati. Quindi, da qualunque parte si volti la nostra considerazione, scopre di dover lodare Dio creatore ottimo e ordinatore giustissimo di tutti gli esseri.
12. 36. Infine, per lasciare la contemplazione dell'armonia delle cose a coloro che per dono di Dio possono vedere e per non tentare di convincere con parole quelli che non possono a intuire l'ineffabile, tuttavia con attenzione a certe persone o ciarliere o deboli o cavillose, svolgiamo l'importante argomento con poche parole.
Bontà degli esseri.
13. 36. Ogni natura, che può divenire meno buona, è buona ed ogni natura corrompendosi diviene meno buona. Difatti o non le nuoce la corruzione, e allora non si corrompe, o se si corrompe, le nuoce la corruzione e se nuoce, fa diminuire un po' del suo bene e la rende meno buona. Che se la priva di ogni bene, quanto di essa rimane non potrà più corrompersi. Non vi sarà appunto il bene, con la cui sottrazione la corruzione può nuocere. E la natura, cui la corruzione non può nuocere, non si corrompe. Ora una natura che non si corrompe è incorruttibile, vi sarà quindi una natura resa incorruttibile dalla corruzione. Ma è un'assurdità il dirlo. Pertanto è assolutamente vero che ogni natura, in quanto natura, è buona. Se è incorruttibile, è più perfetta di una corruttibile. Se poi è corruttibile, giacché corrompendosi diviene meno buona, senza dubbio è buona. Ora ogni natura o è corruttibile o incorruttibile. Quindi ogni natura è buona. Intendo per natura quel che si suole dire esseità. Dunque ogni esseità o è Dio o è da Dio perché ogni bene o è Dio o è da Dio.
Dio si loda anche nel biasimo ...
13. 37. Stabiliti validamente questi principi come premesse della nostra dimostrazione, segui ciò che sto per dire. La natura ragionevole, creata con il libero arbitrio del volere, se persiste nel godere il sommo bene non diveniente, è senza dubbio da lodarsi. Si deve lodare anche quella che tende a persistere. Ma quella che non persiste in lui e non vuole impegnarsi a persistere si deve biasimare, ma solo in relazione al fatto che non è in lui e non si adopera ad esservi. Se dunque si deve lodare la natura ragionevole che è stata creata, non v'è dubbio che si deve lodare chi l'ha creata, e se è biasimata, non v'è dubbio che il suo Creatore si deve lodare per questo stesso biasimo. Se la biasimiamo appunto perché non vuol godere del bene sommo e non diveniente, cioè del suo Creatore, lui senza dubbio noi lo lodiamo. Quanto gran bene è dunque e quanto si deve esaltare e onorare in modo ineffabile da tutte le lingue e anche da tutti i pensieri Dio creatore di tutte le cose perché senza la lode dovutagli noi non possiamo essere né lodati né biasimati. Infatti è possibile biasimarci per il fatto che non persistiamo in lui soltanto perché il persistere in lui è grande, sommo e primo nostro bene. E questo soltanto perché egli è il bene ineffabile. Dunque non si può trovar nulla nei nostri peccati per biasimarlo perché è assurdo il biasimo per i nostri peccati se egli non è lodato.
... meritato dall'essere imperfetto.
13. 38. E cosa dire che nelle stesse cose biasimate si biasima soltanto l'imperfezione? Ma non si biasima l'imperfezione di qualche cosa, se non si loda la natura della cosa stessa. Infatti o è secondo natura ciò che biasimi e allora non è imperfezione e tu piuttosto devi correggerti per imparare a biasimare ragionevolmente, anziché l'oggetto che non ragionevolmente biasimi; ovvero, se è imperfezione, perché si possa biasimare ragionevolmente, è necessario che sia contro la natura della cosa. Ogni imperfezione, per il fatto stesso che è imperfezione, è contro la natura. Se non offende la natura, non è imperfezione, ma se è imperfezione appunto perché offende, è imperfezione perché è contro la natura. Che se una natura si corrompe non per propria imperfezione ma di altri, si biasima ingiustamente. Bisogna ricercare se la natura, dalla cui imperfezione ha potuto esserne corrotta un'altra, non sia già corrotta per una propria imperfezione. E che cos'è essere imperfetti se non esser corrotti da una imperfezione? Ora una natura che non è imperfetta è esente da imperfezione, ma ha certamente imperfezione quella, dalla cui imperfezione è corrotta un'altra natura. Per prima dunque è imperfetta e per prima è corrotta dalla propria imperfezione la natura, dalla cui imperfezione può esserne corrotta un'altra. Se ne conclude che ogni imperfezione è contro la natura della cosa di cui è imperfezione. Ora in ogni essere è biasimata soltanto l'imperfezione ed è imperfezione appunto perché è contro la natura della cosa di cui è imperfezione. Dunque ragionevolmente si biasima soltanto l'imperfezione di una cosa, la cui natura è lodata. Nell'imperfezione disapprovi ragionevolmente soltanto che rende imperfetto ciò che approvi nella natura.
Ci si corrompe con la propria imperfezione.
14. 39. Si deve esaminare anche se è vero che una natura è corrotta dalla imperfezione di un'altra senza una propria imperfezione. Se infatti la natura, che sopravviene con la propria imperfezione per corromperne un'altra, non trova in essa nulla di corruttibile, non la corrompe. Se ve lo trova, ne compie la corruzione con l'imperfezione che vi trova. Se una natura più potente non vuole essere corrotta da una più debole, non viene corrotta, ma se lo vuole è corrotta prima dalla propria imperfezione che da quella dell'altra. Allo stesso modo se una eguale non vuole essere corrotta da una eguale, non può esserlo. Infatti qualsiasi natura che sopravviene con la propria imperfezione ad un'altra senza imperfezione per corromperla, per il fatto stesso della propria imperfezione non sopravviene eguale ma più debole. Nel caso che una natura più potente corrompa una più debole, la corruzione avviene o per imperfezione d'entrambi, se avviene per non ordinato desiderio d'entrambi, ovvero per imperfezione della più potente se è di tanto prestigio di natura che, per quanto imperfetta, è più perfetta della più debole che corrompe. Nessuno infatti potrà biasimare ragionevolmente i frutti del suolo perché gli uomini non ne usano bene e corrotti dalla propria imperfezione li corrompono abusandone a scopo di lussuria. Tuttavia è da pazzi dubitare che la natura dell'uomo, anche imperfetta, sia più nobile e potente dei prodotti della terra, sebbene non imperfetti.
Corruzione non dovuta a imperfezione.
14. 40. Può anche avvenire che una natura più potente ne corrompa una meno perfetta e che avvenga senza loro imperfezione perché sì dice imperfezione ciò che è degno di biasimo. Chi oserebbe biasimare un individuo, magari frugale, che cerca nei prodotti della terra soltanto il sostentamento, o gli stessi prodotti che, usati come cibo, si corrompono? Questa abitualmente neanche si dice corruzione perché di solito corruzione è concetto di imperfezione. È possibile inoltre osservare nella realtà quanto segue. Spesso una natura più perfetta ne corrompe una meno perfetta indipendentemente dalla esigenza di soddisfare un proprio bisogno, talora per punire secondo giustizia una colpa, come nella massima enunciata dall'Apostolo: Se qualcuno corromperà il tempio di Dio, Dio corromperà lui (6); talora in base all'ordinamento delle cose in divenire che si susseguono per le leggi convenienti date all'universo secondo il rango delle singole parti. Se infatti il sole con lo splendore rovina gli occhi di un tale, perché incapace di sopportar la luce, dato il limite della loro capacità, non si deve pensare che esso li trasforma per colmare una carenza della propria luce o che lo fa per imperfezione, o che si devono biasimare gli occhi perché hanno ubbidito alla persona nell'aprirsi contro luce o alla luce per esser rovinati. Dunque fra tutte le corruzioni soltanto quella dovuta a imperfezione si biasima ragionevolmente. Le altre neanche si possono dire corruzioni, o per lo meno non possono essere biasimevoli perché non sono dovute a imperfezione. Si crede infatti che il termine vituperazione etimologicamente deriva dal concetto che essa è preparata, cioè adatta e dovuta al solo vizio.
Biasimo dell'imperfezione e lode dell'essere.
14. 41. L'imperfezione, come avevo cominciato a dire, è male soltanto perché si oppone alla natura di quella cosa, di cui è imperfezione. Ne deriva con evidenza che questa medesima cosa, di cui si biasima l'imperfezione, è buona di natura. In definitiva dobbiamo ammettere che il biasimo stesso dell'imperfezione è lode delle nature, intendi di quelle le cui imperfezioni si biasimano. E poiché l'imperfezione si oppone alla natura, tanto si aggiunge al male delle imperfezioni quanto si sottrae all'interezza delle nature. Quando dunque biasimi una imperfezione, lodi certamente la cosa di cui desideri l'interezza. E certamente la desideri della natura. La natura perfetta infatti non solo non è degna di biasimo, ma di lode nel suo genere. Tu vedi che manca qualche cosa alla perfezione della natura e la chiami imperfezione, mostrando che la natura la vuoi perché col biasimo della sua imperfezione mostri di volerla perfetta.
Dalla volontà libera dipendono bene e male (15, 42 - 22, 65)
Limiti del contingente.
15. 42. Se dunque il biasimo delle imperfezioni mette in luce la competente dignità delle nature, anche di quelle di cui sono imperfezioni, quanto più si deve lodare Dio, creatore di tutte le nature, e perfino nelle loro imperfezioni. Da lui appunto hanno l'essere ed in tanto sono difettose, in quanto si allontanano dalla sua idea, con cui sono state create, ed in tanto sono ragionevolmente biasimate, in quanto chi le biasima conosce l'idea con cui sono state create e le biasima appunto perché in esse non la trova. E se l'idea, mediante la quale tutte le cose sono state fatte, cioè la somma e immutabile sapienza di Dio ha, come difatti ha, l'essere sommamente intelligibile, puoi vedere dove tende l'essere che da essa si allontana. Ma questo dissolversi dell'essere non sarebbe biasimevole, se non fosse volontario. Rifletti, per piacere, se puoi ragionevolmente biasimare un essere che è come dovrebbe essere. Io non lo penso. Si biasima l'essere che non è come doveva essere. Non si deve ciò che non si è ricevuto, e se si deve, si deve a colui da cui si è ricevuto con l'intenzione di doverlo. Anche le cose che si restituiscono per trasmissione ereditaria, si restituiscono a chi le ha trasmesse. Ed anche ciò che si rende ai legittimi eredi dei creditori, si rende a coloro, a cui questi secondo la legge succedono. Altrimenti non si deve considerare restituzione, ma cessione, concessione o altro di simile. Pertanto molto illogicamente si dice che non dovrebbero cessar d'essere tutte le cose temporali. Esse sono così disposte nell'ordine della realtà che se non cessano d'essere, non possono le cose future succedere alle passate in maniera che si svolga nel suo genere tutta l'armonia dei tempi. Quanto hanno ricevuto infatti, tanto realizzano e tanto restituiscono a chi devono ciò che sono nei limiti del loro essere. Chi poi si duole che cessano d'essere, deve riflettere sul proprio discorso, quello appunto con cui si lamenta, se lo ritiene giusto e dettato dalla prudenza. Infatti per quanto attiene al suono di questo discorso, se qualcuno ne preferisse una piccola parte e non volesse che essa cessando dia luogo alle altre, le quali trascorrendo e succedendosi danno lo svolgimento dell'intero discorso, sarebbe tacciato di strabiliante pazzia.
Norma del dover essere o restituzione ...
15. 43. Non si può dunque ragionevolmente biasimare la fine delle cose che appunto cessano d'essere perché non hanno avuto di essere più a lungo affinché tutte le cose si svolgano nel loro tempo. Non si può dire: " Doveva rimanere ancora ". Non poteva oltrepassare i limiti stabiliti. Nelle creature razionali poi, siano peccatrici o no, si conduce alla perfezione nella misura più conveniente l'armonia universale. In esse o non vi sono peccati, che è un'assurdità il dirlo, perché pecca per lo meno chi condanna come peccati azioni che non lo sono; ovvero non si devono biasimare i peccati, ma questo è ugualmente assurdo, perché comincerebbero a non esser lodate neanche le azioni buone e così il disporsi al fine dell'umana ragione sarebbe turbata e sconvolgerebbe tutta la vita; o anche si biasimerà un'azione compiuta come si doveva, e ne nascerà una esecranda pazzia, o tanto per usare un eufemismo, un miserevole errore; ovvero se una valida dimostrazione ci costringe, come ci costringe, a biasimare i peccati e biasimare quanto ragionevolmente si biasima appunto perché non è come doveva essere, cerca cosa deve l'essere che pecca e scoprirai che deve la buona azione, cerca a chi la deve e troverai che la deve a Dio. Da chi ha ricevuto la possibilità di agire secondo ragione se vuole, ha ricevuto anche di essere infelice se non l'ha fatto, felice se l'ha fatto.
... cui segue sanzione.
15. 44. E poiché non si possono superare le leggi dell'onnipotente Creatore, non si permette all'anima di non restituire il dovuto. Perché o restituisce usando bene ciò che ha ricevuto o restituisce perdendo ciò che non ha voluto usar bene. Dunque se non restituisce operando la giustizia, restituisce subendo l'infelicità. Nell'uno e nell'altro aspetto si manifesta appunto il concetto di dovuto. La massima infatti si può formulare anche in questo modo: " Se non restituisce facendo ciò che deve, restituirà subendo ciò che deve ". I due momenti non sono separati da discontinuità di tempo nel senso che in uno non fa ciò che deve e nell'altro subisce ciò che deve. Neanche in una piccola frazione di tempo deve esser turbata l'armonia dell'universo. Si avrebbe l'indegnità del peccato senza la dignità della punizione. Ma quanto è ora punito occultamente sarà riservato al futuro giudizio per render manifesta la tormentata coscienza della infelicità. Come infatti chi non veglia, dorme, così chi non fa ciò che deve, senza soluzione di continuità subisce ciò che deve poiché è tanto grande la felicità della giustizia, che ce se ne può allontanare soltanto per avviarsi alla infelicità. In tutti i casi di mancanza di essere, o non hanno più ricevuto l'essere le cose che vengono a mancare e non è colpa; ugualmente non è colpa che, mentre ancora esistono, non hanno ricevuto di essere più di quel che sono; ovvero non vogliono essere ciò che potrebbero essere se lo volessero, e poiché è un bene, è colpa se non vogliono.
Dio non deve nulla, noi tutto ...
16. 45. Dio non deve nulla a nessuno poiché dà tutto gratuitamente. E se qualcuno dirà che da Dio si doveva qualche cosa ai suoi meriti, almeno l'esistenza, si ricordi che non gli si doveva. Neanche esisteva colui a cui si sarebbe dovuto. E tuttavia quale merito è volgerti a lui, da cui sei, per esser da lui anche migliore perché da lui hai l'essere? E che cosa gli avanzi da chiederglielo come debito? Se non ti vuoi volgere a lui, a lui non manca nulla, a te invece manca lui. Senza di lui sei un nulla e da lui sei un qualche cosa. E se non gli restituirai ciò che da lui sei a lui volgendoti, non diverrai certamente un nulla ma sarai infelice. Tutti gli esseri dunque gli debbono prima di tutto ciò che sono nei limiti del loro essere; tutti gli esseri poi che hanno ricevuto di volere hanno da lui ogni cosa che possono essere di più perfetto, se vogliono, e tutto ciò che è conveniente al loro essere. Quindi non si è rei per il fatto che non si è ricevuto, ma si è meritatamente rei perché non si è fatto ciò che si deve. E si deve se si è ricevuta la libera volontà e una valida capacità di fare.
... fuorché il peccato.
16. 46. Dunque se non si fa ciò che si deve, non è colpa del Creatore, anzi a lui ne viene lode perché si subisce ciò che si deve e per il fatto che si è biasimati non facendo ciò che si deve, è lodato lui a cui si deve. Tu sei lodato quanto t'impegni a conoscere il tuo dovere, sebbene lo conosci soltanto in lui che è l'immutabile Verità. Quanto più dunque è lodato lui, il quale ha comandato il volere, ha offerto il potere e non ha permesso che il non volere rimanesse impunito! Se dunque si deve ciò che si è ricevuto e se l'uomo è così fatto che pecca necessariamente, deve il peccare. E quando pecca, fa ciò che deve. Ma è delitto dirlo. Dunque non si è costretti a peccare dalla propria natura. Ma neanche da un'altra. Infatti non si pecca quando si subisce ciò che non si vuole. E in definitiva se si subisce giustamente, non si pecca per il fatto che si subisce contro volere, piuttosto si è peccato perché si è agito volontariamente in maniera da subire meritatamente ciò che non si voleva. Se però si subisce ingiustamente, come si pecca? Infatti non è peccato subire ingiustamente, ma agire ingiustamente. Che se non si è costretti a peccare né dalla propria natura né da un'altra, rimane che si pecca di volontà propria. Se poi lo vorrai attribuire al Creatore, scagionerai il peccatore perché non ha fatto altro che eseguire gli ordinamenti del Creatore. Ma se è ragionevolmente scagionato, non ha peccato e non hai quindi di che imputare al Creatore. Lodiamo dunque il Creatore se può esser difeso il peccatore, lodiamolo se non lo può. Difatti se è giustamente scagionato, non è peccatore. Loda dunque il Creatore. Se poi non si può difendere, in tanto è peccatore in quanto si è voltato in altro senso dal Creatore. Loda dunque il Creatore. Pertanto non trovo proprio, anzi affermo che non si può trovare e che non esiste affatto un motivo per attribuire a Dio nostro Creatore i nostri peccati. Anzi io lo trovo degno di lode perfino in essi, non solo perché li punisce, ma anche perché si commettono nel momento in cui ci si allontana dalla sua verità.
Evodio - Accolgo questi pensieri con molto piacere e li approvo, ed è del tutto vero, sono d'accordo, che è assolutamente impossibile imputare i nostri peccati al nostro Creatore.
Obiezione della prescienza.
17. 47. Vorrei sapere tuttavia, se fosse possibile, perché non pecca l'essere, di cui Dio ha preveduto che non avrebbe peccato e perché pecca un altro, di cui egli ha preveduto che avrebbe peccato. Non penso che dalla prescienza di Dio siano costretti l'uno a peccare e l'altro a non peccare. Ma se non ci fosse una causa, la creatura ragionevole non sarebbe così ripartita che una non pecchi mai, un'altra persista nel peccare e una terza quasi di mezzo fra di esse, ora pecchi ed ora si converta ad agir bene. Quale causa le distribuisce in questi ranghi? Non vorrei che mi si risponda " la volontà ". Io cerco la causa della stessa volontà. Infatti non è senza causa che una non vuole peccare mai, che un'altra non vuole mai non peccare e che un'altra ora vuole ed ora non vuole. Sono in definitiva della medesima natura. Mi sembra di capire soltanto questo, che non è senza causa questa tripartizione del volere della creatura ragionevole, ma quale ne sia la causa non so.
Causa prossima del peccato ...
17. 48. Agostino - Il volere è causa del peccato, ma tu cerchi la causa del volere stesso. Ora se io potrò trovarla, cercherai anche la causa di quella causa che è stata trovata? E quale limite vi sarà al ricercare, quale termine nel discutere col dialogo, quando è necessario che non ricerchi al di là della radice?. Non pensare che si poteva dire qualche cosa di più vero del detto che la radice di tutti i mali è l'avarizia (7), cioè voler di più di quanto basta. E basta quanto richiede, per sé il limite di ogni natura per conservarsi nel suo genere. L'avarizia infatti, che in greco si denomina , non si dice soltanto per riferimento all'argento e alle monete. Tuttavia ne deriva etimologicamente il nome perché presso gli antichi le monete si facevano prevalentemente di argento ovvero di una lega di argento. Ma si deve intendere anche per riferimento alle cose che si desiderano immoderatamente, e in definitiva in ogni caso, in cui si vuole più di quanto basta. Ora questo tipo di avarizia è desiderio disordinato e tale desiderio è volontà pervertita. Dunque la volontà pervertita è causa di tutti i mali. E se fosse secondo natura, la conserverebbe, non le sarebbe dannosa e perciò non sarebbe pervertita. Ne consegue che la radice di tutti i mali non è secondo natura. È un argomento sufficiente contro tutti coloro che considerano gli essere naturali un male. Ma se tu ti metti a cercare la causa di questa radice, essa non sarebbe la radice di tutti i mali. Sarebbe invece quella che ne è causa. E se la trovassi, dovresti, come ho detto, cercare ulteriormente la causa di questa seconda e non avresti un limite alla ricerca.
... è la stessa volontà ...
17. 49. Ma in definitiva quale potrà essere la causa della volontà anteriormente alla volontà? O è la stessa volontà, e non ci si allontana da questa radice della volontà, ovvero non è volontà, e allora non ha alcun peccato. Quindi o è la volontà stessa la prima causa del peccato, ovvero la prima causa del peccato non è peccato. Ora non si può ragionevolmente imputare a qualcuno un peccato, se non pecca. Quindi ragionevolmente si imputa soltanto a chi vuole. Ma non capisco perché vorresti ricercare ancora. Poi, qualunque sia la causa della volontà o è giusta o è ingiusta. Se è giusta, chi le obbedisce, non pecca; se è ingiusta, non le obbedisca e non peccherà.
... quindi è possibile non peccare.
18. 50. Forse è una causa violenta e costringe anche chi non vuole? Ma dobbiamo ripetere tante volte i medesimi concetti? Ricordati, fra le cose già dette da noi, le molte sugli argomenti del peccato e della volontà libera. Ma se è faticoso ritenere tutto a memoria, ritieni questo breve tema. Qualunque sia codesta causa della volontà, se non è possibile resisterle, si cede ad essa senza peccato; se è possibile, non le si ceda e non si peccherà. Ma forse può ingannare un incauto? Dunque si guardi per non essere ingannato. Ma ha tanto potere d'ingannare che proprio non è possibile guardarsene? Se è così, non si danno peccati. Non si pecca in condizioni, in cui è assolutamente impossibile evitare. Ma si pecca, dunque è possibile evitare.
Condizione dell'uomo decaduto ...
18. 51. E tuttavia anche azioni compiute per ignoranza sono disapprovate e giudicate da correggere dall'autorità della sacra Scrittura. Dice l'Apostolo: Ho ottenuto il perdono perché l'ho fatto per ignoranza (8). Ed il Profeta: Non ricordare le colpe della giovinezza e della mia ignoranza (9). Si devono disapprovare anche azioni compiute per necessità, quando l'uomo vuole agire bene e non può. Da questo principio derivano le seguenti espressioni: Non faccio il bene che voglio, ma compio il male che non voglio (10) e questa: Volere il bene è alla mia portata, ma non riesco a compierlo (11), e ancora: La carne ha desideri contro lo spirito e lo spirito contro la carne; essi si contrastano a vicenda per non farvi compiere le azioni che volete (12). Ma tutto questo è degli uomini che provengono dalla condanna di morte. Se essa non è pena dell'uomo, ma natura, essi non sono peccati. Se non ci si allontana dallo stato, in cui secondo natura l'uomo è stato creato, sicché non può essere in condizione migliore, fa ciò che deve, quando compie le azioni indicate. Se l'uomo fosse buono, sarebbe in una diversa condizione, ma ora perché è così, non è buono, e non ha in potere di esserlo sia che non veda come dovrebbe essere, sia che lo veda e non possa essere come vede che dovrebbe essere. Chi dubiterebbe che questa è una pena? Ora ogni pena, se è giusta, è pena del peccato e si denomina supplizio. Se poi la pena è ingiusta, poiché non v'è dubbio che è pena, è stata imposta da un ingiusto dominatore. Ma è da pazzi dubitare della onnipotenza e della giustizia di Dio. Dunque la pena è giusta e si paga per un peccato. Infatti è impossibile che un qualche ingiusto dominatore abbia sottratto l'uomo a Dio, che non se ne sarebbe accorto, ovvero glielo abbia estorto contro il suo volere mediante il timore o la lotta come a uno più debole per tormentare l'uomo con una pena ingiusta. Rimane dunque che questa giusta pena derivi dalla condanna dell'uomo.
... per soggezione a ignoranza e passione.
18. 52. Non c'è da meravigliarsi che l'uomo o per ignoranza non abbia il libero arbitrio della volontà, con cui scegliere il da farsi secondo ragione, ovvero che per la resistenza dell'abito della passione, sviluppatosi in certo senso come un'altra natura a causa della non libertà nella propagazione della specie, egli conosca il da farsi e lo voglia, ma non possa compierlo. È pena giustissima del peccato che si perda ciò che non si è voluto usar bene, sebbene fosse possibile senza alcuna difficoltà, se si volesse. È quanto dire che chi, pur conoscendo, non agisce secondo ragione, perde la conoscenza di ciò che è ragionevole e chi non ha voluto agire secondo ragione potendolo, ne perde la possibilità quando lo vuole. Vi sono in realtà per l'anima che pecca queste due condizioni di pena: l'ignoranza e la debolezza. A causa dell'ignoranza ci toglie dignità l'errore, a causa della debolezza ci tormenta il dolore. Ma affermare il falso a posto del vero fino ad errare involontariamente e non poter trattenersi da azioni passionali, perché reagisce con tormento la sofferenza della soggezione alla carne, non è natura dell'uomo in quanto tale, ma pena dell'uomo condannato. Ma quando si parla della libera volontà di agire secondo ragione, si parla di quella, in cui l'uomo è stato creato.
L'uomo può superare errore e passione.
19. 53. Qui si presenta il problema che gli uomini sono soliti di rimuginare, giacché in tema di peccato sono disposti a tutto fuorché ad accusarsi. Dicono: " Se Adamo ed Eva hanno peccato, che cosa noi meschini abbiamo fatto da nascere con l'accecamento della ignoranza e con le tribolazioni della debolezza? Siamo condizionati ad errare in un primo tempo perché non sappiamo cosa dobbiamo fare, poi, appena ci si manifestano i comandamenti della giustizia, vorremmo eseguirli, ma non ne siamo capaci perché ce lo impedisce non saprei quale necessità della concupiscenza carnale ". A costoro in poche parole si risponde che stiano quieti e la smettano di mormorare contro Dio. Forse si lagnerebbero giustamente, se nessun uomo riuscisse vittorioso dell'errore e della passione. Ma Dio è dovunque presente e mediante la creatura che gli obbedisce come a signore in molti modi chiama chi si è allontanato, insegna a chi crede, consola chi spera, esorta chi ama, aiuta chi si sforza, esaudisce chi invoca. Quindi non ti si rimprovera come colpa che senza volere ignori, ma che trascura di cercare ciò che ignori, ed ugualmente non che non fasci le membra ferite, ma che disprezzi chi ti vuol guarire. Questi sono peccati tuoi. A nessuno è stato negato di conoscere che si cerca con utilità ciò che senza utilità si ignora e che si deve umilmente riconoscere la debolezza affinché a lui, che cerca e riconosce, venga in aiuto colui che, nel venire in aiuto, non erra e non si affatica.
Condizione prima e dopo il peccato.
19. 54. Infatti l'azione che non si compie secondo ragione per ignoranza e quella che non si può compiere secondo ragione anche se si vuole si dicono peccati appunto perché hanno origine dal primo peccato della libera volontà. Quella premessa ha richiesto queste conclusioni. Si dice lingua non soltanto l'organo che si muove in bocca nel parlare, ma anche l'effetto che consegue al movimento di questo organo, cioè la forma e la sequenza delle parole e in questo senso appunto si dice che la lingua greca è diversa dalla latina. Così non solo si dice peccato quello che propriamente è considerato peccato perché si commette volontariamente e coscientemente, ma anche quello che necessariamente consegue da quella condanna. Allo stesso modo, in termini di natura, la natura dell'uomo, in cui originariamente nel suo genere l'uomo è stato creato innocente, parlando con proprietà s'intende diversamente da questa, in cui dalla pena del primo uomo condannato si nasce mortali, ignoranti e schiavi della carne. In questo senso dice l'Apostolo: Siamo stati anche noi per natura figli dell'ira, come gli altri (13).
Trasmissione della condanna ...
20. 55. Ora dalla prima coppia noi nasciamo nell'ignoranza, nella debolezza e nella mortalità, poiché essi avendo peccato sono stati precipitato nell'errore, nella tribolazione e nella morte. Con assoluta giustizia dunque Dio, sommo ordinatore della realtà, volle che dall'origine apparisse nella nascita dell'uomo la giustizia di chi punisce ed in seguito la misericordia di chi libera. Al primo uomo dopo la condanna non è stata tolta la felicità in maniera da togliergli anche la fecondità. Era possibile infatti che anche dalla sua discendenza, sebbene carnale e mortale, provenisse nel suo genere un conveniente ornamento della terra. Non era certamente giusto che generasse individui migliori di se stesso, ma era necessario che, col volgersi verso Dio, chi voleva non solo non fosse impedito, ma anche aiutato per superare la condanna che col volgersi in altro senso il capostipite aveva meritato. Anche così il Creatore delle cose ha mostrato con quanta facilità l'uomo, se avesse voluto, avrebbe potuto conservare ciò che è stato creato, quando la sua discendenza ha potuto trionfare della condizione in cui è nato.
... nell'ipotesi creazionista ...
20. 56. Inoltre se è stata creata una sola anima, da cui sono derivate quelle di tutti gli uomini che nascono, chi può dire di non aver peccato quando il primo ha peccato? Se invece sono create singolarmente in ciascuno che nasce, non è ingiusto, anzi appare come molto conveniente all'ordine che il cattivo merito di chi precede sia natura di chi segue e che il buon merito di chi segue sia natura di chi precede. Che cosa di irrazionale infatti se il Creatore ha voluto anche così mostrare che a tal punto eccelle la dignità dell'anima sulle creature materiali che il sorgere di uno può iniziare da quel punto, in cui si è avuto il tramontare di un altro? Infatti il giungere dell'anima peccatrice all'ignoranza e debolezza si dice appunto pena perché prima di questa pena è stata più perfetta. Se dunque una ha cominciato non solo prima del peccato, ma addirittura prima della propria vita, ad esser tale, quale un'altra diventa dopo una vita colpevole, possiede ugualmente un grande bene, di cui ringraziare il proprio Creatore perché il suo sorgere e incominciare sono più perfetti di qualsiasi corpo perfetto. Non sono beni mediocri non solo che è anima e che per questo suo essere è più perfetta del corpo, ma anche che può, con l'aiuto del suo Creatore, perfezionarsi e con religioso impegno acquistare e vivere le virtù. Con esse si riscatta dalla debolezza che tormenta e dalla ignoranza che acceca. Che se è vera l'ipotesi, per le anime create l'ignoranza e la debolezza non saranno pena del peccato, ma stimolo ad avanzare e inizio di perfezione. Infatti prima di ogni merito di opera buona non è poco avere ricevuto un naturale criterio con cui l'anima preferisce la sapienza all'errore, la serenità alla tribolazione, per giungervi non in virtù dell'origine ma della scelta. E se l'anima non vorrà farlo, sarà a diritto giudicata rea di peccato, perché non ha bene usato della facoltà che ha ricevuto. Quantunque infatti sia nata nell'ignoranza e della debolezza, non è tuttavia costretta da qualche necessità a rimanere nello stato in cui ha avuto origine. Inoltre soltanto Dio onnipotente ha potuto essere creatore anche di tali anime che non amato crea, amando sana e amato perfeziona. Egli concede di esistere a quelle che non esistono e di esser beate a quelle che lo amano perché da lui esistono.
... nell'ipotesi della preesistenza ...
20. 57. Se poi sono mandate ad animare e informare i corpi dei singoli individui che nascono anime preesistenti in un mondo trascendente, esse vi sono mandate con un compito. Dovranno appunto preparare nell'ordine e tempo opportuno anche al corpo il luogo della celeste non corruzione disciplinando bene il corpo stesso che nasce dalla pena del peccato, cioè dalla mortalità del primo uomo, in altri termini dominandolo con le virtù e imponendogli una ben regolata e dovuta soggezione. Esse quando entrano in questa vita sono soggette a portare membra mortali, sono necessariamente anche soggette all'oblio della vita precedente e alla sofferenza della presente. Ne seguiranno la già detta ignoranza e la debolezza che nel primo uomo sono state pena della mortalità nel subire l'infelicità della coscienza e nelle anime l'inizio del dovere a conquistare la non corruzione del corpo. Anche in tal caso questi non sono peccati, salvo che la carne, provenendo dalla discendenza di un peccatore, procura alle anime che vengono in essa questa ignoranza e questa debolezza. Ma esse non si possono imputare a colpa né alle anime né al Creatore. Infatti egli ha dato la capacità di agir bene nel difficile compimento del dovere e la via della fede contro l'accecamento dovuto all'oblio. Ha dato soprattutto il criterio, per cui ogni anima ammette che si deve ricercare ciò che è utile non ignorare e che si deve attendere con costanza agli impegni del dovere per superare la difficoltà, di agire secondo ragione e infine che si deve chiedere il soccorso del Creatore affinché aiuti chi si sforza. Ed egli, all'esterno con la legge o parlando nella intimità, ha ordinato che ci si deve sforzare e prepara la gloria della città felice a coloro che trionfano del diavolo, il quale ha condotto il primo uomo a questa infelicità con la peggiore istigazione. Ed essi per vincerlo accettano questa infelicità con la migliore fede. Non è di poca gloria vincere in battaglia il diavolo, accettando la pena, a cui egli si vanta di aver condotto l'uomo vinto. Ma chi, preso dall'amore di questa vita, trascura tale impegno, non potrà assolutamente imputare con giustizia al comando del re il delitto della propria diserzione, ma piuttosto sotto il signore di tutti sarà posto nelle schiere del diavolo perché ha preferito il suo soldo ignominioso per disertare gli accampamenti di Dio.
... anche se le anime scelgono la terra.
20. 58. Se poi le anime viventi fuori del corpo non sono mandate da Dio Signore, ma spontaneamente vengono ad abitare nei corpi, è facile comprendere che non si deve assolutamente incolpare il Creatore per qualsiasi effetto di ignoranza e difficoltà che è seguito alla loro stessa scelta. Ma egli sarebbe ugualmente senza colpa, anche se le avesse mandate lui perché malgrado l'ignoranza e debolezza, non ha tolto loro il libero volere di chiedere, ricercare e sforzarsi, pronto a dare a coloro che chiedono, a mostrare a coloro che ricercano, ad aprire a coloro che picchiano. Egli concederà che l'ignoranza e debolezza, le quali devono esser superate dagli individui desiderosi d'apprendere e volenterosi, valgano per conseguire la corona della gloria. Ai negligenti invece che col pretesto della debolezza intendono scusare i propri peccati, non rinfaccerà come peccato la ignoranza e la debolezza, ma li punirà con giusta pena perché hanno preferito rimanere in esse piuttosto che giungere alla verità e vigore spirituale con l'impegno di apprendere nella ricerca e con l'umiltà di lodare Dio nella preghiera.
Cautela sull'origine dell'anima.
21. 59. Di queste quattro teorie sull'anima, e cioè se le anime hanno origine per discendenza, se sono create nei singoli che nascono, se già preesistenti altrove sono da Dio mandate nei corpi degli individui che nascono, ovvero se vi cadono di proprio impulso, non si deve affermare nessuna pregiudizialmente. Infatti o il problema non è stato ancora chiaramente trattato a causa della sua oscurità e incertezza dagli interpreti cattolici dei Libri sacri, ovvero se è stato già fatto, testi simili non sono ancora giunti nelle mie mani. Ma almeno ci sia la fede di non pensare qualche cosa di falso e indegno della essenza del Creatore. A lui infatti tendiamo per il cammino della religione. Se dunque penseremo di lui altro da quel che è, il nostro proposito non ci indurrà ad andare alla felicità, ma alla vanità. Invece non si ha alcun pericolo se penseremo della creatura qualche cosa di diverso da quel che è, purché non lo riteniamo come conoscenza certa. Infatti non ci si comanda per esser felici di tendere alla creatura ma allo stesso Creatore. E se su di lui ci facciamo una idea differente di quel che conviene e diversa da quel che in effetti è, ci lasciamo ingannare da un errore rovinoso. Non si può giungere alla felicità, se ci muoviamo verso qualche cosa che o non esiste, o se esiste, non rende felici.
La luce della rivelazione ...
21. 60. Ma per avviarci alla visione della eternità della verità onde goderne e a lei unirci, alla nostra debolezza è stata indicata la via dalle cose temporali. Dobbiamo appunto accettare per fede avvenimenti passati e futuri in maniera d'averne a sufficienza per il cammino di chi si muove verso l'eternità. E questo insegnamento della fede, affinché s'imponga con l'autorità, è ordinato dalla misericordia di Dio. Gli avvenimenti presenti invece, per quanto attiene alla creatura, sono percepiti come fluenti nel movimento e divenire del corpo e dell'anima. Ma tutto ciò di cui in essi non abbiamo esperienza non può essere oggetto di un'altra qualunque conoscenza. Tutti questi fatti, passati o futuri, relativi a varie creature, ci sono proposti come oggetto di fede dall'autorità di Dio. Di essi alcuni sono già trascorsi prima che noi potessimo percepirli, altri non sono ancora arrivati ai nostri sensi. Essi servono moltissimo a fortificare la nostra speranza e a stimolare la nostra carità facendoci ricordare, attraverso la serie ordinatissima dei tempi, che Dio non abbandona la nostra liberazione. Devono dunque esser creduti senza alcuna esitazione. Ma ogni errore che si arroga il ruolo dell'autorità di Dio si deve respingere soprattutto se viene confutato perché crede o afferma che oltre la creatura v'è qualche altra determinazione del divenire, ovvero che una qualche determinazione del divenire esiste nella sostanza di Dio o se vuol dimostrare che la medesima sostanza sia più o meno che Trinità. Ed è proprio a spiegare, nei limiti consentiti dalla religione, la Trinità, che sta all'erta la vigile difesa della fede ed è indirizzato tutto il suo interesse. Non è qui il posto di trattare dell'unità ed eguaglianza della Trinità e della proprietà delle singole Persone. Infatti proporre su Dio Signore, creatore, causa esemplare e provvidenza di tutte le cose, alcuni temi che attengono alla fede più elementare e con cui vantaggiosamente è aiutato un proposito che ancora ha bisogno di latte e che inizia ad elevarsi dalle cose terrene alle celesti, è molto facile a farsi e da parecchi è stato già fatto. M a trattare l'intero argomento e svolgerlo in maniera che ogni intelligenza umana sia convinta, per quanto è concesso in questa vita, dall'evidenza del ragionamento, non può apparire per qualsiasi uomo, e certamente per me, impresa agevole e facile, non solo in termini di discorso, ma perfino col solo pensiero. Ora dunque, per quanto siamo aiutati e per quanto ci è permesso, continuiamo ciò che abbiamo intrapreso. Si devono credere senza incertezza tutti i fatti che, per quanto attiene alla creatura, ci vengono narrati come passati e preannunciati come futuri e che servono a proporci la perfetta religione stimolandoci al puro amore di Dio e del prossimo. Ed essi si devono difendere contro gli increduli in maniera che o la loro miscredenza sia schiacciata dal peso dell'autorità, ovvero si mostri loro, per quanto è possibile, prima di tutto che non è da ignoranti credere tali cose, poi che è da ignoranti non crederle. Tuttavia è necessario respingere una falsa teoria, non tanto su oggetti passati o futuri, quanto piuttosto su oggetti presenti e soprattutto immutabili, e per quanto è concesso, confutarla con dimostrazione evidente.
... sul nostro passato e futuro ...
21. 61. Certamente nella serie delle cose temporali l'attesa del futuro è da anteporsi alla ricerca del passato. Anche nei Libri sacri gli eventi, che si narrano come passati, propongono o una prefigurazione di eventi futuri, oppure una promessa o testimonianza. Infatti anche negli interessi materiali, sia nella prosperità che nell'avversità, non si cerca tanto quel che è stato, ma si concentra tutta l'ansia nell'avvenire che si spera. Non so per quale intimo o innato sentimento i fatti che ci sono occorsi, essendo passati, nel momento della felicità e infelicità, sono considerati come se non fossero mai accaduti. Dunque non mi nuoce certamente se non so quando ho cominciato ad esistere, se io che esisto e non dispero che esisterò nel futuro. Difatti non ritorno ai fatti passati per temere come rovinoso l'errore di pensarli diversamente da come sono, ma con l'aiuto della misericordia dei mio Creatore dirigo i passi verso il mio futuro. Se crederò o penserò della mia futura esistenza o di colui presso il quale esisterò, diversamente da come la verità richiede, è questo l'errore che si deve assolutamente evitare. Se qualche cosa mi sembra diversa da come è, potrei non preparare i mezzi necessari, ovvero non raggiungere il fine stesso delle mie intenzioni. Pertanto, come non mi nuocerebbe affatto all'acquisto di una veste il fatto che mi sono dimenticato dell'inverno passato, ma mi nuocerebbe se non credessi che il freddo futuro è imminente, così non nuocerà affatto alla mia anima il fatto che ha dimenticato ciò che ha sofferto, purché ora avverta diligentemente e tenga presente il fine, al quale è ammonita di prepararsi. Ad esempio, per chi naviga verso Roma non gli nuocerebbe affatto se gli esce di mente il lido, da cui è salpato, purché non ignori dove dirigere la prua dal luogo dove attualmente si trova, e non gli gioverebbe affatto ricordarsi del lido, da cui ha cominciato il viaggio, se andasse a finire negli scogli perché è male informato sul porto di Roma. Così se non ricorderò l'inizio della mia vita, non mi nuocerà, purché sappia la fine, con cui la condurrò a riposo. Egualmente non mi gioverebbe affatto la memoria o congettura dell'inizio della vita, se incorressi negli scogli dell'errore, pensando a Dio, la sola fine delle sofferenze dell'anima, diversamente da come si deve.
... poiché la ragione è incompetente.
21. 62. Questo mio discorso non deve avere come risultato da far pensare a qualcuno che io proibisca a coloro che ne sono capaci di ricercare secondo le Scritture ispirate da Dio, se un'anima nasce da un'altra, ovvero se le anime sono create singolarmente in ogni individuo, ovvero se da qualche altro luogo per ordine divino sono mandate a reggere e animare il corpo, ovvero se vi entrano di propria scelta. Basta che un qualche motivo richieda di trattare ponderatamente questi temi per chiarire un interessante problema e che, per indagarli e discuterli, sia a disposizione tempo libero da occupazioni più importanti. Ho detto queste cose prevalentemente perché qualcuno in un argomento simile non si adiri senza motivo contro chi non condivide la sua teoria, o anche perché, se qualcuno ha potuto avere sull'argomento qualche concetto competente e chiaro, non pensi che un altro ha perduto la speranza del futuro, appunto perché non ricorda come è iniziato il passato.
Giusta la pena del peccato ...
22. 63. Comunque sia, tanto se l'argomento è addirittura da omettere, come da rimandare per ora e considerare in altra occasione, non viene elusa la conclusione che, come è evidente, le anime scontano le pene dei loro peccati perché si dà la perfettissima, giustissima, immobile e immutabile maestà e sostanza del Creatore. E questi peccati, come da tempo stiamo discutendo, si devono imputare soltanto alla loro volontà. Non si deve cercare altra causa del peccato.
... nonostante difficoltà e ignoranza.
22. 64. Se invece ignoranza e debolezza sono naturali, proprio di lì l'anima inizia a progredire e ad avanzare alla conoscenza e alla serenità fino a che in lei non sia perfetta la felicità. Ma se essa trascurerà di propria scelta, pur essendogliene stata concessa la possibilità, il progresso nelle conoscenze più alte e nella pietà, viene precipitata giustamente in ignoranza e debolezza più gravi, che sono già effetti della pena. E perciò viene posta in un livello inferiore da un equo e convenientissimo ordinamento delle cose. Infatti non viene all'anima imputato a colpa il fatto che per natura non sa e per natura non può, ma che non si è applicata a sapere e che non ha posto l'impegno ad acquistare la capacità di agire secondo ragione. Non sapere e non poter parlare è naturale per il bambino. E questa ignoranza e incapacità di parlare non solo non è colpevole dal punto di vista delle regole dei grammatici, ma desta perfino una certa carezzevole tenerezza nell'affettività umana. Infatti il bambino non ha trascurato, per un suo vizio, di acquistare quella capacità o perduto, per vizio, una capacità che aveva acquistata. Quindi se la felicità consistesse nell'arte del parlare e fosse considerata colpa lo sbagliare nelle parole, come quando si sbaglia nella vita morale, non si potrebbe incolpare alcuno d'infanzia perché è partito da essa per conseguire l'arte del parlare. Giustamente invece sarebbe condannato, se per cattiva volontà vi fosse ritornato o rimasto. Così anche adesso, se la ignoranza del vero e la difficoltà dell'onesto sono naturali nell'uomo perché da esse cominci ad elevarsi alla felicità della sapienza e della serenità, non si possono ragionevolmente condannare a causa dell'inizio naturale. Se invece non si vuole avanzare o si vuole tornare indietro, molto giustamente si pagherà la pena.
Si loda Dio che crea e salva.
22. 65. Ma il Creatore dell'anima è lodato in ogni caso, sia perché l'ha iniziata fin dal principio alla capacità del sommo bene, sia perché aiuta il suo progresso, sia perché la perfeziona compiutamente, se progredisce, sia perché la sottopone a giustissima condanna secondo i meriti, se pecca, cioè se rifiuta di elevarsi dai propri inizi alla perfezione o se torna indietro dopo aver progredito. Dunque per questo appunto che non è ancor perfetta tanto quanto ha ottenuto di poter essere col progredire, non l'ha creata malvagia. Infatti tutte le perfezioni dei corpi sono inferiori al suo stato originario. Eppure le giudica degne di lode chi sa rettamente giudicare delle cose. Il fatto dunque d'ignorare deriva dal motivo che ancora non ha ricevuto un dono; ma anche questo riceverà, se userà bene di ciò che ha ricevuto. Ha ricevuto di cercare con diligenza e pietà, se vorrà. Inoltre non ha ancora ricevuto di essere capace, conseguentemente alla conoscenza che ha, di compiere ciò che deve fare. È andata avanti appunto una sua parte più nobile per conoscere qual è il bene della buona azione, ma una sua parte più tarda per il peso della carne non necessariamente viene condotta alla norma morale. Così dalla stessa incapacità di agire è ammonita a implorare come soccorritore del proprio perfezionamento colui, al quale ella pensa come ad autore del proprio inizio. Per questo le diviene più caro, perché è innalzata alla felicità, non dalle proprie forze, ma dalla misericordia di colui, dalla cui bontà ha l'esistenza. E quanto è più cara a colui, dal quale esiste, con tanta maggiore tranquillità in lui si riposa e tanto più largamente gode della sua eternità. Infatti non si può ragionevolmente considerare sterile un arboscello recente e ancora infruttuoso, sebbene trascorra alcune estati senza frutti, fino a che al tempo giusto non manifesta la propria produttività. Si deve dunque lodare con la dovuta pietà il Creatore dell'anima perché le ha concesso un inizio tale che progredendo mediante l'impegno può giungere al frutto della sapienza e giustizia e le ha comunicato tanta dignità che ha anche posto in suo potere di tendere, se vuole, alla felicità.
Risposta ad alcune obiezioni (23, 66 - 25, 77)
Obiezione della morte dei fanciulli.
23. 66. A questa dimostrazione si suole opporre dagli ignoranti una obiezione sulla morte dei bambini e su alcuni dolori fisici, da cui spesso li vediamo colpiti. Dicono: " Che bisogno c'era che nascesse, se è morto prima di cominciare ad acquistar merito, ovvero come sarà considerato nel futuro giudizio, se non v'è per lui luogo fra i giusti perché non ha compiuto alcuna opera buona, né fra i malvagi perché non ha peccato ". Si risponde a costoro: In considerazione dell'intero dell'universo e dell'ordinatissimo concatenamento di tutto il creato mediante spazio e tempo, non è possibile che sia creato inutilmente un individuo umano. Perfino una foglia d'albero non è creata inutilmente. Certo però si cercano inutilmente i meriti di chi non ha meritato nulla. Non si deve temere infatti che non si diano una via di mezzo tra la buona azione e il peccato e una sentenza del giudice tra il premio e la pena.
Battesimo dei bimbi e fede degli altri.
23. 67. A questo punto si suole investigare cosa ha giovato ai bambini il sacramento del battesimo cristiano, poiché, ricevutolo, talora muoiono prima che ne abbiano potuto avere conoscenza. Sull'argomento si crede secondo religione e ragione che giova al bambino la fede di coloro, da cui viene presentato al sacramento. E la salutare autorità della Chiesa raccomanda che in considerazione di ciò ciascuno rifletta quanto gli giova la propria fede, se a beneficio di altri, che ancora non hanno la propria, può esser messa a loro disposizione l'altrui. Cosa poteva giovare al figlio della vedova la propria fede, che, essendo morto, certamente neanche aveva? Ma gli giovò per resuscitare la fede della madre (14). A più forte ragione dunque la fede di altri può soccorrere il bimbo, al quale non si può imputare la mancanza di fede.
I gradi e le sofferenze dei piccoli.
23. 68. Un più grande lamento, quasi a titolo di pietà, si suole levare sulle sofferenze fisiche, da cui sono colpiti i piccoli che a causa dell'età non hanno peccati, nell'ipotesi che le loro anime non hanno cominciato ed esistere prima degli individui. Si dice: " Che male hanno fatto per soffrire così? ". Come se vi possa essere il merito dell'innocenza prima che si possa nuocere. Dio opera un bene nel correggere i grandi, quando sono colpiti dalle sofferenze e morti dei propri piccoli che sono loro cari. Ma perché non dovrebbero avvenire queste cose, se una volta passate saranno come non avvenute per coloro, in cui sono avvenute? Coloro poi, per i quali sono avvenute, o diventeranno migliori se, corretti dalle disgrazie temporali, sceglieranno di vivere più onestamente, oppure non avranno scuse nella pena del futuro giudizio perché non hanno voluto approfittare delle angustie della vita presente per convertirsi al desiderio della vita eterna. Ma chi sa che cosa Dio riserva ai piccoli, le cui sofferenze spezzano la durezza dei grandi, ne tengono in esercizio la fede, ne provano la benevolenza, chi sa dunque quale ricompensa riserva Dio ai piccoli nel segreto dei propri giudizi, perché anche se non hanno fatto niente di bene, tuttavia senza aver peccato hanno così sofferto? Infatti non a caso la Chiesa esalta, inserendoli nel numero dei martiri, i bambini che furono uccisi, quando il Signore Gesù Cristo era cercato da Erode per essere ucciso (15).
Ordine e provvidenza nelle sofferenze dei bruti.
23. 69. Ma questi individui, che fanno tante obiezioni, che non esaminano con lo studio, ma strombazzano con grandi chiacchiere questi problemi, di solito turbano la fede dei meno istruiti allegando anche le sofferenze e le molestie delle bestie. Dicono: " Che cosa hanno meritato di male anche le bestie da soffrire tanti disagi, ovvero che cosa sperano di bene da essere colpite da tanti disagi? ". Ma dicono e pensano così perché giudicano molto male le cose. Non sapendo farsi un'idea dell'essenza e del valore del sommo bene, vogliono che tutte le cose siano come ritengono che è il sommo bene, non riescono a concepire il sommo bene al di sopra dei corpi più perfetti che sono i celesti e che sono i meno soggetti alla corruzione. Per questo molto irrazionalmente chiedono che il corpo delle bestie non subisca né morte né alcuna corruzione, come se non fosse mortale, pur essendo il meno perfetto, ovvero come se fosse un male perché i corpi celesti sono più perfetti. Inoltre il dolore che le bestie sentono pone in rilievo anche nelle anime brute una certa facoltà, nel suo genere ammirevole e degna di considerazione. Da questo fatto appare sufficientemente che esse tendono all'unità nel dominare e animare il proprio corpo. Il dolore non è altro appunto che un sentimento, il quale reagisce alla divisione e dissoluzione. Ne risulta più chiaro della luce quanto l'anima bruta sia desiderosa e conservatrice dell'unità nel complesso del proprio corpo. Essa infatti, non con soddisfazione e indifferenza ma con resistenza e reazione, si oppone alla perturbazione del proprio corpo, perché avverte con disagio che da essa viene demolita la perfetta unità. Non apparirebbe dunque se non dal dolore delle bestie quale tendenza all'unità hanno le più basse creature animate. E se non apparisse, meno del necessario saremmo avvertiti che tutto ciò è stabilito dalla somma perfetta ineffabile unità del Creatore.
Funzione del dolore e del piacere.
23. 70. E in verità se rifletti con religiosa attenzione, ogni determinazione ed ogni movimento della creatura fanno appello al nostro ammaestramento, stimolandoci insistentemente, mediante inclinazioni ed esperienze varie che sono come un contesto di parole, a riconoscere il Creatore. Non v'è infatti un essere fra quelli che non sentono né dolore né piacere, il quale non raggiunga con una certa unità la perfezione del proprio genere o addirittura una determinata permanenza della propria natura. Egualmente, fra quelli che provano le molestie del dolore e le lusinghe del piacere, non v'è un essere, il quale per il fatto stesso che fugge il dolore e tende al piacere, non suggerisca che fugge il dissolvimento e tende all'unità. Nelle stesse anime ragionevoli la tendenza a conoscere, di cui l'essere pensante gode, riferisce all'unità l'oggetto della conoscenza e nell'evitare l'errore non fugge altro che il dissolversi nell'antinomia che elude l'espressione del vero. E l'antinomia è molesta soltanto perché non è riducibile all'unità. Ne consegue che tutte le cose, sia quando danneggiano o sono danneggiate, e quando dilettano o sono dilettate, dichiarano insistentemente l'unità del Creatore. Se poi l'ignoranza e l'incapacità, da cui la vita presente necessariamente inizia, non sono naturali per le anime, resta che siano state accettate come dovere o irrogate come pena. Ma penso che sull'argomento abbiamo parlato abbastanza.
Possibile stato di mezzo fra sapienza e insipienza.
24. 71. Pertanto si deve investigare più attentamente in quale stato fu creato il primo uomo anziché il modo con cui si è propagata la sua discendenza. Alcuni ritengono di proporre la questione con molto acume, quando dicono: " Se l'uomo è stato creato nella sapienza, perché è stato ingannato? Se invece è stato creato nell'insipienza, in che modo Dio non è autore dei difetti, se l'insipienza è il difetto più grande? ". Dicono così supponendo che la natura umana non possa ricevere uno stato di mezzo fra sapienza e insipienza. L'uomo comincia a divenire o sapiente o insipiente, e quindi il suo stato si può considerare o l'uno o l'altro, soltanto quando può avere la sapienza, se non la trascura, di modo che la volontà sia responsabile dell'insipienza in quanto imperfezione. Non si vaneggia al punto da chiamare insipiente un bambino, quantunque si sarebbe più irragionevoli, se si volesse chiamarlo sapiente. Dunque un bambino non può essere considerato né insipiente né sapiente, sebbene sia già un uomo. Ne consegue che la natura può ricevere uno stato di mezzo che non puoi considerare né insipienza né sapienza. Così se un individuo ricevesse l'anima nello stato in cui si trova chi è privo di sapienza a causa della negligenza, non si può ragionevolmente considerarlo insipiente perché vi si trova non per imperfezione ma per natura. L'insipienza è infatti non una qualsiasi ma una difettosa ignoranza delle cose che si devono desiderare e fuggire. Per questo non consideriamo insipiente il bruto perché non ha ricevuto la possibilità di essere sapiente. Tuttavia talora consideriamo l'imperfezione, non propriamente ma per analogia. La cecità è infatti il più grande difetto della vista, ma nei cuccioli appena nati non è difetto e neanche si può considerare cecità.
Sapienza e comando nel primo uomo.
24. 72. Dunque l'uomo è stato così creato che, sebbene non fosse ancora sapiente, poteva ricevere il comando, al quale doveva obbedire. Dunque non c'è da meravigliarsi che ha potuto essere ingannato, e non è ingiustizia che paghi la pena perché non ha obbedito al comando. Il suo Creatore inoltre non è autore delle imperfezioni perché non possedere la sapienza non era ancora una imperfezione nell'uomo, se ancora non aveva ricevuto di possederla. Ma aveva un potere con cui, se usato bene, poteva elevarsi a ciò che non aveva. È diverso essere ragionevoli ed esser sapienti. Con la ragione si riceve il comando e ad esso l'uomo deve la fedeltà di osservare ciò che è comandato. E come la natura consegue il comando della ragione, così l'osservanza del comando consegua la sapienza. E ciò che è la ragionevolezza per ricevere il comando, è la volontà per osservarlo. E allo stesso modo che l'essere ragionevole è come un merito per ricevere il comando, così l'osservanza del comando è un merito per ricevere la sapienza. E l'uomo comincia a poter peccare dal momento in cui comincia ad essere capace di comando. In due modi pecca prima di divenir sapiente, o perché non si dispone a ricevere il comando o se l'ha ricevuto, non l'osserva. E quando è già saggio, pecca se si volge in altra parte dalla sapienza. Come infatti il comando non proviene da colui, al quale si comanda, ma da chi comanda, così la sapienza non proviene da chi è illuminato ma da chi illumina. Perché dunque non si dovrebbe lodare il Creatore dell'uomo? L'uomo è un bene, e più perfetto della bestia perché è capace di comando, più perfetto ancora, quando ha ricevuto il comando, ed ancora più perfetto, quando ha obbedito al comando, e di tutti questi più perfetto, quando è felice nella luce eterna della sapienza. Il peccato invece è un male nella trascuratezza a ricevere il comando, o a osservarlo, ovvero a conservare la conoscenza intellettuale della sapienza. Da questo si capisce che l'uomo poteva essere ingannato, anche se fosse stato creato sapiente. E poiché il peccato dipendeva dal libero arbitrio, una giusta pena ne conseguì per legge divina. Così dice anche l'apostolo Paolo: Poiché dicevano di essere sapienti, sono divenuti insipienti 16. La superbia infatti volge in altro senso dalla sapienza, e l'insipienza segue a questo volgersi. L'insipienza è appunto una specie di cecità, come dice il medesimo Apostolo: E si è oscurato il loro cuore insipiente (17). E tale oscuramento deriva appunto dall'essersi voltati in altra parte dal lume della sapienza e questo volgersi si ha perché :colui, il cui bene è Dio, pretende di essere bene a sé, come Dio lo è a sé. È scritto appunto: L'anima mia è volta con turbamento a me stesso (18), e ancora: Mangiate e sarete come dèi (19).
Originario stato di mezzo.
24. 73. Turba chi riflette un po' quello che alcuni chiedono: " L'uomo si è allontanato da Dio a causa dell'insipienza, oppure è divenuto insipiente allontanandosi? ". Se risponderai che con l'insipienza si è allontanato dalla sapienza, sembrerà che sia stato insipiente prima che si allontanasse dalla sapienza, di modo che l'insipienza fu causa dell'allontanarsi. Egualmente se risponderai che è divenuto insipiente allontanandosi, chiedono se ha causato il proprio allontanamento con un atto da insipiente o da sapiente. Se l'ha fatto con atto da sapiente, ha agito secondo ragione e non ha peccato, se da insipiente, già esisteva, dicono, in lui l'insipienza, per cui è avvenuto il suo allontanamento. Non poteva infatti fare qualche cosa da insipiente senza l'insipienza. Appare da ciò che v'è uno stato di mezzo, col quale si passa dalla sapienza all'insipienza. E non si può dire di questo stato che sia stato causato da un atto da insipiente o da sapiente, giacché esso si può concepire dagli uomini durante la vita soltanto mediante i due opposti termini. Infatti nessun mortale diviene sapiente, se non passa dalla insipienza alla sapienza. Ora se il passaggio si fa con atto d'insipienza non è un passaggio. Ma è da pazzi dire così. Se poi si fa con un atto di sapienza, già esisteva nell'uomo, prima di passare alla sapienza, la sapienza. Anche questo è un assurdo. Se ne conclude che v'è uno stato di mezzo, il quale non si può dire né l'uno né l'altro e che anche il passaggio, con cui il primo uomo passò dal sommo della sapienza all'insipienza, non fu né insipiente né sapiente. Esemplificando col sonno e la veglia, non è il medesimo dormire e addormentarsi, e così l'esser desti e il destarsi, ma un certo passaggio dall'uno all'altro. La differenza. sta in questo, che questi passaggi avvengono il più delle volte senza volontà, gli altri soltanto con la volontà. Per questo li seguono giustissime retribuzioni.
Conoscenza e scelta nel primo uomo.
25. 74. Soltanto un oggetto conosciuto stimola la volontà ad agire. Ora è in potere ciò che si sceglie e ciò che si rifiuta, ma non è in potere l'oggetto, dalla cui conoscenza si è stimolati. Si deve dunque ammettere che lo spirito è stimolato dalla conoscenza di oggetti più perfetti o meno perfetti affinché il soggetto ragionevole scelga dagli uni e dagli altri ciò che vorrà e dal merito della scelta seguano o infelicità o felicità. Nel paradiso terrestre l'oggetto conosciuto è il comando di Dio da un punto di vista superiore e l'istigazione del serpente da un punto di vista inferiore. Infatti non fu in potere dell'uomo né ciò che gli veniva comandato da Dio né ciò che era suggerito dal serpente. Ma per chi è stabilito nella salvezza della sapienza è veramente dovuto a libertà ed esente dai vincoli della soggezione il non cedere agli stimoli della concupiscenza. Lo si può comprendere anche da questo, che perfino gli insipienti li superano nel passare alla sapienza, e perfino col disagio di rimaner privi della morbosa dolcezza di esiziali abitudini.
Conoscenza e scelta nel diavolo.
25. 75. Dato che furono a disposizione dell'uomo dall'una e dall'altra parte gli oggetti, uno dal comando di Dio, l'altro dalla istigazione del serpente, si può esaminare a questo punto da chi fu suggerito al diavolo il consiglio di scegliere la ribellione, per cui doveva precipitare dalle sedi più alte. Se non fosse stato stimolato da un oggetto conosciuto, non avrebbe scelto di fare quel che ha fatto poiché se non gli fosse venuto in mente qualche cosa, non avrebbe volto l'atto del conoscere nell'azione colpevole. Da chi dunque gli venne in mente, a parte quel che gli venne in mente, di macchinare quell'impresa, per cui da angelo buono doveva divenire il diavolo?. Infatti chi vuole, vuole qualche cosa, e non può volerlo se non è stimolato o dall'esterno mediante il senso, ovvero se non gli viene in forma non manifesta. Si devono dunque distinguere i generi degli oggetti. Uno di essi è quello che deriva dalla volontà di chi istiga, come quello del diavolo, al quale consentendo l'uomo ha peccato, l'altro dalle cose sottoposte o all'atto conoscitivo dello spirito o ai sensi del corpo. Sono sottoposti all'atto conoscitivo dello spirito, eccetto l'immutabilità della Trinità che certamente non è sottoposta, ma piuttosto sovrapposta, sono dunque sottoposti all'atto conoscitivo dello spirito, prima lo stesso spirito, per cui sentiamo di vivere, poi il corpo che esso domina del quale, per compiere qualsiasi azione, muove l'organo che conviene, quando conviene. Sono poi sottoposti ai sensi tutti i sensibili.
Peccato nell'uomo e nel diavolo.
25. 76. Nella conoscenza intellettuale della somma sapienza, che certamente non è lo spirito perché è al di sopra del divenire, lo spirito conosce anche se stesso, che è nel divenire, e in certo senso viene in mente a se stesso. Ma ciò avviene con questa differenza che egli non è eguale a Dio, ma è pur un qualche cosa che può essere amato dopo Dio. È più perfetto, quando dimentica se stesso per amore di Dio immutabile, o nel confronto con lui si disprezza. Se al contrario in un confronto con se stesso si piace per imitare perversamente Dio e per voler godere del proprio dominio, diviene tanto più piccolo, quanto desidera essere più grande. Sta scritto: Inizio di ogni peccato è la superbia (20), e ancora: Inizio dell'umana superbia è distaccarsi da Dio (21). Il diavolo aggiunge alla superbia l'invidia piena di tanta malevolenza da indurlo ad istigare l'uomo alla superbia, per cui egli capiva di essere stato condannato. Ne conseguì che una pena di emendamento anziché di condanna a morte risollevò l'uomo, sicché mentre il diavolo gli si era offerto come esempio di superbia, il Signore gli si è offerto come esempio di umiltà. Per mezzo suo ci si promette la vita eterna. Quindi, dopo indicibili travagli e sventure, nel sangue di Cristo offerto in nostro riscatto, dobbiamo unirci al nostro liberatore con tanta carità ed essere a lui attratti da tanta sua clarità che gli oggetti più bassi non ci distolgano dalla visione verso l'alto. E se qualche cosa di terreno viene suggerito a questo nostro atto conoscitivo dall'appetito degli oggetti più bassi, ci richiamino l'eterna condanna e pena del diavolo.
Il ritorno a Dio.
25. 77. È tanta la bellezza della giustizia, tanto l'incanto della luce eterna, cioè della immutabile verità e sapienza che, anche nell'ipotesi che si potesse rimanere in essa per lo spazio di un sol giorno, per questo stesso motivo si dovrebbero disprezzare molto giustamente innumerevoli anni di questa vita, pieni di delizie e abbondanza di beni temporali. Infatti non è stato detto erroneamente o con scarso sentimento: Un solo giorno nei tuoi atrii è migliore di mille giorni (22). Certamente il testo si può intendere in altro senso. I mille giorni potrebbero essere intesi come il divenire del tempo, invece col termine di un solo giorno si potrebbe intendere il non divenire dell'eternità. Non so di aver tralasciato nella mia risposta, per quanto il Signore si è degnato di concedermelo, qualche argomento che lasci insoddisfatte le tue domande. Tuttavia, anche se ti viene in mente qualche cosa, il limite del libro ci costringe a metter fine e riposarci alfine da questa discussione.
(1) - Sal 40, 5.
(2) - 1 Cor 6, 3.
(3) - Lc 20, 36.
(4) - Mt 25, 41.
(5) - Sal 18, 13-14.
(6) - 1 Cor 3, 17.
(7) - 1 Tm 6, 10.
(8) - 1 Tm 1, 13.
(9) - Sal 24, 7.
(10) - Rm 7, 19.
(11) - Rm 7, 18.
(12) - Gal 5, 17.
(13) - Ef 2, 3.
(14) - Lc 7, 12-15.
(15) - Mt 2, 16.
(16) - Rm 1, 22.
(17) - Rm 1, 21.
(18) - Sal 41, 7.
(19) - Gn 3, 5.
(20) - Sir 10, 15.
(21) - Sir 10, 14.
(22) - Sal 83, 11.