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Percorso : HOME > Opera Omnia > Dialoghi > De Libero arbitrioopera omnia di sant'agostino: DE LIBERO ARBITRIO
Agostino e Gerolamo
DE LIBERO ARBITRIO
I Protagonisti dialoganti
Agostino ed Evodio
Agostino affronta il problema della libertà nel dialogo cassiciacense De libero arbitrio, una delle sue opere piú importanti sotto il profilo filosofico. Agostino aveva scritto quest'opera per mettere luce le vere ragioni che lo avevano portato, pochi anni prima, a un completo abbandono del manicheismo.
Le conclusioni raggiunte ed affermate nel De libero arbitrio erano rassicuranti per la fede, però non conservarono a lungo il loro valore agli occhi di Agostino, che si sforzava continuamente di capire sempre piú a fondo la natura del messaggio cristiano. Il manicheismo, con la sua tendenziale negazione della libertà, soggiace sullo sfondo del dialogo, composto in un lungo arco di tempo e completato nel 395, a Ippona, quando Agostino era già vescovo. Agostino insiste nel sottolineare i motivi morali e religiosi che gli imponevano di credere nella libertà dell'uomo. A spingere Agostino in questa direzione era in primo luogo la ferma convinzione che, senza una reale autonomia da Dio, noi non saremmo propriamente responsabili del male che compiamo né meritevoli del premio promessoci da Cristo: non potremmo cioè peccare, volendolo, né salvarci con pieno merito; e ciò toglierebbe credibilità alla Parola. Quanto al problema della prescienza divina, Agostino si limita a osservare che il sapere ab aeterno se un uomo si salverà, o se sarà dannato, non priva ancora l'individuo della sua libertà di iniziativa, infatti Dio nei nostri confronti si atteggia costantemente a Spettatore, non funge da Attore: vede ab aeterno le scelte del nostro comportamento ed ab aeterno giudica i nostri atti, senza tuttavia costringerci a un corso di azione piuttosto che a un altro. Il contenuto dottrinale del De Libero Arbitrio viene verificato dopo il 395, quando riscoprì in modo importante l'apostolo Paolo.
I testi di Paolo gli aprirono nuove prospettive. Gradualmente comprese che una eccessiva esaltazione dell'uomo va a discapito dell'importanza di Cristo, rendendone quasi superfluo il sacrificio. Agostino incominciava a chiedersi: se non è per grazia ricevuta che noi possiamo salvarci, perché mai il Verbo si sarebbe fatto carne e sarebbe morto per i nostri peccati? A che cosa sarebbe servita la Croce, se noi ci procurassimo la salvezza con i soli nostri meriti?
E una creatura immersa nel peccato, potrebbe riuscire a trovarsi in una situazione del genere, potrebbe riuscire ad acquistare meriti sufficienti dinanzi a Dio? A rendere ancora più incisive le sue argomentazioni provvide poi la filosofia neoplatonica. Essa indicava nell'Uno non soltanto il principio ontologico per eccellenza, ma la luce stessa che illumina il mondo e, insieme, il Sommo Bene che ordina a sé ogni cosa. Agostino, che aveva cristianizzato ormai da tempo le idee dei neoplatonici, dopo il 395 ne trasse nuove conseguenze. In particolare, giunse a intravedere in Dio anche la ragione prima e unica del nostro tendere verso il bene, la ragione della nostra capacità a operare con spirito di giustizia, in definitiva, dell'impulso interiore che ci conduce alla salvezza. Ma in un mondo così concepito, dove Dio è principio motore e allo stesso tempo causa finale del tutto, poteva davvero sussistere, in fondo, la libertà di arbitrio ?
Deciso ad andare alla radice del problema, Agostino non ebbe tentennamenti: non si spaventò davanti alla "durezza" della risposta che gli veniva suggerita da Paolo, e rivelò con decisione, anzi con chiarezza sempre maggiore con il trascorrere degli anni, il carattere gratuito e soprannaturale della grazia. Allo stesso tempo si impegnò in una vigorosa polemica contro i seguaci di Pelagio, sostenitori della tesi opposta, e la battaglia combattuta contro di loro non ebbe certo poco peso nel determinare l'esito finale della sua ricerca. Secondo Pelagio, Dio aiuta l'uomo, ma solo nel senso che in Cristo rende noto ciò che tutti debbono fare per salvarsi. Secondo Pelagio poi la decisione di ottemperare ai decreti divini è di pertinenza del singolo individuo, così come al singolo spetta scegliere fra la fede o la miscredenza, sicché la responsabilità di una eventuale perdizione ricade esclusivamente su di noi, non coinvolge Dio: Dio è del tutto innocente.
Ma Agostino la pensava diversamente e contro Pelagio ribadì che, dopo la caduta di Adamo, senza un intervento della grazia l'uomo non consegue la fede e non si incammina, in essa, verso la vita eterna. Per di più, egli aggiunse, la penetrazione dell'Onnipotente in noi segue una strategia imperscrutabile e misteriosa che sollecita e sostiene con infinita misericordia la nostra volontà, senza tener conto della stessa né dei meriti acquisiti in precedenza. Agostino non ottenne il consenso unanime nel corso della contesa. Se, dopo alterne vicende, i pelagiani furono condannati da papa Zosimo nel 418, d'altro canto Agostino venne quasi subito accusato, a sua volta, di aver sottolineato con troppa foga l'intervento della grazia, a danno della nostra libertà. Invertitisi i ruoli, ora era Agostino a doversi difendere. Non esitò a lungo, e nel breve volgere di tre anni scrisse il De correptione et gratia (426 o 427), il De praedestinatione sanctorum e il De dono perseverantiae (429), cercando con i suoi ultimi due lavori di rispondere, in particolare, alle obiezioni di Cassiano, del monastero di San Vittore, in Marsiglia. Questi sosteneva che la grazia, pur se indispensabile per compiere il bene, a volte segue a ricompensa della nostra buona volontà, e non predestina affatto. Agostino non era d'accordo e dichiarò che questa posizione costituiva anzi un errore: meno grave di quello pelagiano, tuttavia non molto distante da esso e parimenti pericoloso, poiché tendeva a conciliare l'inconciliabile e cioè l'autonomia umana con la radicale decisività del sacrificio compiuto da Cristo.
Nelle sue repliche Agostino non ebbe tentennamenti e radicalizzò le tesi sostenute in precedenza introducendo espressioni già presenti nel De correptione et gratia. Queste ripetute affermazioni secondo alcuni studiosi costituiscono una conferma e sono una giustificazione della lettura deterministica della teologia agostiniana tentata da Thomas Bradwardine (1290 ca-1349), Calvino (1509-1564) e Giansenio (1595-1638).
Secondo altri studiosi queste affermazioni sono solo accentuazioni polemiche, infelici, certo, ma non tali da escludere la possibile conciliazione di grazia e libertà in una superiore prospettiva religiosa, cioè quella per cui la grazia libera l'uomo dal peccato agendo sulla sua volontà con soavità e leggerezza, senza dispotismi e prescindendo da qualsiasi forma di coazione (cfr. De correptione et gratia, c. VIII, sez. 17).
Il De libero arbitrio è senz'altro una delle opere più meditate di S. Agostino. Iniziata in forma di dialogo, poco dopo la conversione milanese, richiese circa sette anni di gestazione prima di venire completata. In essa sono presenti numerosi riferimenti biblici ed inquadramenti teologici, specie nel terzo libro, ma solo come indispensabile retroterra di fede, da cui parte od in cui trova conferma la primaria finalità dell'opera, che è essenzialmente filosofica.
Agostino in effetti si propone il superamento della posizione manichea sul piano positivo della fondatezza e della coerenza razionale delle argomentazioni. Per raggiungere questo obiettivo egli utilizza linguaggi e strumenti concettuali della sua epoca, principalmente neoplatonici e stoici, ma sempre dando prova di saperli piegare ad esprimere ed a risolvere tematiche e preoccupazioni proprie di un credente. Il quadro che si compone è destinato a rimanere acquisizione definitiva per il suo pensiero e punto di riferimento ineludibile nella storia della filosofia occidentale.