La scena del Tolle lege nel giardino di Milano
MANENTI ASCANIO E VINCENZO
1630-1640
Rieti, chiesa di sant'Agostino, abside
La scena del Tolle lege nel giardino di Milano
L'affresco qui riprodotto è una scena di un breve ciclo dedicato a sant'Agostino che si trova in un altare laterale dedicato alla Vergine nella chiesa omonima a Rieti. La scritta sottostante riporta il testo latino ET LEGIT INDUIMINI DOMINUM IESUM CHRISTUM, che significa "Rivestitevi del Signore Nostro Gesù Cristo". Sono parole di San Paolo che si trovano nella sua Lettera ai Romani. La sua lettura fu lo sprone finale alla conversione di Agostino in un giorno di primavera nel giardino della sua casa milanese. È nel Sacramento della Penitenza che trova la sua libertà rivestendosi di Gesù Cristo e dei suoi meriti.
Agostino comprende dalla lezione di Paolo che tutti dobbiamo essere "ipse Christus" - lo stesso Cristo. È san Paolo che ce lo ingiunge in nome di Dio: "Induimini Dominum Iesum Christum" - rivestitevi di Gesù Cristo.
L'architettura della scena riflette una definizione iconografica ormai consolidata da secoli: Agostino, giovane, si trova nella suprema lotta interiore e sente una misteriosa voce, che viene ripetuta tre volte: «tolle et lege». Prende in mano la Bibbia, la apre a caso, e trova le parole paoline: «Nox praecessit, dies autem appropinquavit. Abiiciamus ergo opera tenebrarum; et induamur arma lucis. Sicut in die honeste ambulemus, non in comessationibus et ebrietatibus, non in cubilibus et impudicitiis, non in contentione et aemulatione, sed induimini Dominum Iesum Christum; et carnis curam ne feceritis in desideriis» (Rm. XIII, 12-14).
Non in crapule ed ubriacature: non in licenziosità: non in contese ed invidie. Ma rivestiamoci del Signore Gesù e non abbiamo cura della carne per non destarne le concupiscenze (Rom 22, 11-13).
Agostino è seduto sotto un albero di fico con le mani raccolte sopra la testa e lo sguardo rivolto alla luce che si irradia dall'alto a destra. Fra i raggi si legge AUGUSTINE TOLLE LEGE, con l'indicazione perentoria a prendere in mano il libro su cui si appoggia il gomito sinistro. In lontananza, all'interno di un locale aperto, una donna, forse Monica, in ginocchio, guarda anch'essa la luce quasi invocandola.
Nelle opere scritte subito dopo la conversione, Agostino non fa il minimo accenno alla famosa scena dell'orto o del tolle lege che ricorda nelle Confessioni. Si può osservare, come sostenne Pincherle, che la descrizione che fa Agostino del suo stato d'animo è, da una parte, tutta dominata dalla preoccupazione, polemica contro i manichei, di dimostrare l'esistenza e il valore del libero arbitrio, la possibilità di una scelta fra bene e male e che, d'altra parte, essa è redatta sotto l'influsso di quei passi paolini che parlano del contrasto fra lo spirito e la carne.
E si potrebbe ancora suggerire, insistendo sull'importanza di questo fatto, che l'episodio dimostra come Agostino abbia conosciuto l'epistolario di san Paolo proprio all'inizio della sua conversione.
Tuttavia questa scena, vera senza dubbio in molti, probabilmente in tutti, i suoi particolari, è stata redatta con la preoccupazione di dimostrare appunto il contrario di ciò che taluno ha creduto di scorgervi: di mettere in luce cioè l'impotenza dell'uomo a operare da solo la propria salvezza e la necessità dell'intervento, subito efficace della grazia divina, intervento che non ha nulla di miracoloso.
Possiamo anche ammettere che il testo paolino, di contenuto così caratteristicamente etico, e inserito in una esortazione morale ed escatologica, fosse per l'appunto quello che Agostino lesse effettivamente, ricavandone la forza di tradurre in atto i progetti che da qualche tempo maturavano nella sua mente.
E, come racconta nelle Confessioni, recatosi in giardino, si mise sotto una pianta a piangere amaramente, e diceva: - Quanto tempo ancora? Quanto ancora? Domani, domani ! ancora un po' di tempo. Ed era desolato di non sapersi decidere o a restare nel mondo o a consacrarsi a Dio.
JACOPO DA VARAGINE, Legenda Aurea
Così parlavo e piangevo nell'amarezza sconfinata del mio cuore affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando e ripetendo più volte: «Prendi e leggi, prendi e leggi». Mutai d'aspetto all'istante e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla udita da nessuna parte ... Tornai al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro dell'Apostolo all'atto di alzarmi.
Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: « Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze ... » Non volli leggere oltre né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono.
AGOSTINO, Confessioni 8, 12, 29
La chiesa di sant'Agostino risale alla metà del Duecento e fu eretta in stile romanico-gotico. La facciata, di forma rettangolare, si presenta in pietra e termina con un attico leggermente sporgente. Vi si accede da un unico portale, che presenta una strombatura con tre ordini di colonne. A chiusura della strombatura sono presenti cinque archi a tutto sesto completati da un timpano. L'interno si presenta a navata unica con un soffitto a capriate in legno. Il presbiterio è strutturato in tre absidi da dove si aprono una finestra trifora e due bifore. Con Decreto del 17 giugno 2010 questa chiesa ha ottenuto il titolo e la dignità di basilica minore dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
Manenti Ascanio
Ascanio nacque a Capradosso nel 1573. In seguito al matrimonio con una certa Lucia si stabilì ad Orvinio, dove aprì una bottega artistica. Partecipò alla vita politica del paese divenendo Consigliere o priore dal 1611 al 1660, anno della sua morte. Ascanio era a diretto contatto con l’Accademia dei Crescenzi, nata intorno al 1590, che costituiva uno dei più importanti centri artistici romani, che aveva in Cristoforo Roncalli il suo maggior esponente. Lo stretto legame con questo ambiente culturale tardo-manierista plasmò la sua formazione di artista. Tra i suoi dipinti ancora visibili a Rieti, si rammentano il S. Giovanni Battista tra la Maddalena e sant'Eligio in vescovado, un sant'Alessandro papa tra due donatori e la Madonna del Rosario nella chiesa di S. Francesco, le Storie di san Bernardino, affresco nell'oratorio omonimo e un quadro con sant'Andrea apostolo, conservato nel Museo civico. Opere di Ascanio Manenti si trovano anche nella chiesa di Pietro Martire in Rieti e nella chiesa di San Biagio a Tivoli. Ascanio oltre che padre fu il maestro di Vincenzo, che entrò fin da giovanissimo nella bottega artistica di famiglia.
Manenti Vincenzo
Nacque a Orvinio, nel Reatino, nel 1600 da Lucia e da Ascanio. Iniziò a lavorare nella bottega del padre, i cui insegnamenti gli servirono per comprendere i tratti del a cultura figurativa del tardo manierismo romano. Conosciamo poco i suoi primi lavori, anche perchè sono andati perduti. Accusato di aver aggredito una fanciulla, dovette allontanarsi da Orvinio trovando riparo in Abruzzo presso i nobili Ricci, presso cui lavorò tra il 1629 e il 1630 dipingendo scene mitologiche nel loro palazzo.
Dopo il ritorno in Sabina, presumibilmente a Rieti, si sposò con Beatrice De Amicis nel 1631. In città affrescò le lunette dei portali della cattedrale il che gli valse una successiva commissione per dipingere due cappelle interne. Nel chiostro nuovo del convento di S. Domenico realizzò nel 1634 alcune lunette con Storie di santa Colomba. In quel periodo Vincenzo si impegnò nella ricerca di un linguaggio pittorico svincolato dal tardo manierismo. Sembra che si sia recato a Roma, come testimonia una lettera del 10 maggio 1635 di suo padre Ascanio al governatore di Rieti.
Il secondo matrimonio nel 1638 con Margherita Oddi da Moricone prelude ad un'intensa campagna decorativa nei luoghi di culto di Subiaco. Ulteriori testimonianze dei suoi lavori si possono rintracciare a Montopoli Sabina (1645), a Subiaco (1646), a Rieti (1647) e a Farfa, dove si stabilì nel 1648 per decorare il refettorio dell'abbazia benedettina. Verso il 1655 il pittore sostò per la terza volta a Subiaco e successivamente tornò nella cittadina d'origine. Morì a Orvinio nel 1674.