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PITTORI: Alberti Antonio da Ferrara

Sant'Antonio Abate e Sant'Agostino

Sant'Antonio Abate e Sant'Agostino

 

 

ALBERTI ANTONIO DA FERRARA

1400-1449

Ravenna, Museo d'Arte della Città

 

Sant'Antonio Abate e Sant'Agostino

 

 

 

La tavola che raffigura sant'Antonio abate (a sinistra) e sant'Agostino (a destra) è composta da due scomparti di differenti dimensioni (scomparto sinistro 41x28 cm e scomparto destro 44x26 cm).

L'opera attribuita a un ignoto pittore quattrocentesco di scuola emiliana risente degli influssi dell'arte gotica ancora ben diffusa nel centro Italia.

Sant'Antonio è stato raffigurato con i suoi tradizionali attributi iconografici, così come Agostino, che qui appare nelle sue vesti episcopali.

Con la mano destra impugna il bastone pastorale, mentre con la sinistra regge un libro chiuso.

Il viso ha un'espressione accigliata e penetrante, rimarcata dallo sguardo profondo e dal viso asciutto da cui si diffonde una folta barba riccioluta.

 

Un certo giorno ecco viene a trovarci, Alipio e me, né ricordo per quale motivo era assente Nebridio, un certo Ponticiano, nostro compatriota in quanto africano, che ricopriva una carica cospicua a palazzo. Ignoro cosa volesse da noi. Ci sedemmo per conversare e casualmente notò sopra un tavolo da gioco che ci stava davanti un libro. Lo prese, l'aprì e con sua grande meraviglia vi trovò le lettere dell'apostolo Paolo, mentre aveva immaginato fosse una delle opere che mi consumavo a spiegare in scuola. Allora mi guardò sorridendo e si congratulò con me, dicendosi sorpreso di aver improvvisamente scoperto davanti ai miei occhi quel testo e quello solo. Dirò che era cristiano e battezzato; spesso si prosternava in chiesa davanti a te, Dio nostro, pregandoti con insistenza e a lungo. Io gli spiegai che riservavo la massima attenzione a quegli scritti, e così si avviò il discorso. Ci raccontò la storia di Antonio, un monaco egiziano, il cui nome brillava in chiara luce fra i tuoi servi, mentre per noi fino ad allora era oscuro. Quando se ne avvide, si dilungò nel racconto, istruendoci sopra un personaggio tanto ragguardevole a noi ignoto e manifestando la sua meraviglia, appunto, per la nostra ignoranza. Anche noi eravamo stupefatti all'udire le tue meraviglie potentemente attestate in epoca così recente, quasi ai nostri giorni, e operate nella vera fede della Chiesa cattolica. Tutti eravamo meravigliati: noi, per quanto erano grandi, lui per non essere giunte al nostro orecchio.

AGOSTINO, Confessioni, 6, 14

 

 

 

Alberti Antonio

Alberti detto anche Antonio da Ferrara nacque in questa città tra il 1390 e il 1400. È ricordato dal Vasari per "molte bell'opere" nella chiesa di S. Francesco di Urbino e a Città di Castello. La prima notizia documentaria risale al 1420 quando Alberti si trova a Montone, per lavorare con un gruppo di pittori perugini. Il suo periodo formativo si svolse, con molta probabilità, nelle Marche e in Umbria a contatto con l'arte di Ottaviano Nelli e di Gentile da Fabriano. Nel 1423 si trasferì a Perugia per eseguire alcuni lavori commissionati da Braccio da Montone, mentre l'anno seguente si spostò ad Urbino dove morì tra il 1442 e il 1449.

In questa città realizzò pregevoli opere, come gli affreschi in San Francesco, che meritarono la citazione di Vasari. Nel 1437 realizzò e firmò gli affreschi della cella del cimitero a Talamello, nel pesarese.

Al periodo umbro-marchigiano sarebbe seguito un ritorno in Emilia, dove la visione dei più gagliardi tra i gotici tardi, come Giovanni da Modena, avrebbe determinato la sua ultima maniera, quale appare negli affreschi di Talamello e nel polittico di Urbino. Nella piena maturità, Alberti si afferma con un linguaggio più rude, solido e austero, con una "dignità morale e una solennità di stile" che indussero alcuni critici a pensare che sulle sue opere dell'Italia centrale avesse meditato il giovane Piero della Francesca. Tra le sue opere ricordiamo anche un suo un gonfalone del 1438 e un polittico del 1439, ambedue nella Galleria nazionale di Urbino. In queste opere, l'Alberti, probabilmente formatosi in ambiente umbro-marchigiano sotto l'influenza di Gentile da Fabriano, mostra di aver raggiunto, nella maturità, un suo robusto stile non scevro dall'influsso di Giovanni da Modena.