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PITTORI: Francesco de Mura

Agostino lava i piedi al Cristo pellegrino

Agostino lava i piedi al Cristo pellegrino

 

 

FRANCESCO DE MURA

1726-1729

Collezione privata

 

Agostino lava i piedi al Cristo pellegrino

 

 

 

Quest'olio su tela dalle dimensioni di cm. 102x76 appartenne in precedenza alla Collezione fiorentina Contini-Bonacossi e alla Collezione, sempre fiorentina, di Luigi Baldacci.

Lo stile dell'opera induce a collocarla probabilmente nei primi anni Trenta del Settecento, in un periodo in cui l'artista non aveva ancora del tutto schiarito il tenebrismo del maestro Solimena. In questa tela condensa in forme statiche e monumentali il barocco e denso di forti slanci sentimentali del maestro. I personaggi esprimono pacati stati d'animo, dove le due figure principali sono immobili e statuari, il cui aspetto richiama le opere dello scultore Nicola Fumo in San Giovanni Battista delle Monache a Napoli. Le caratteristiche del dipinto inducono a ipotizzare una datazione prossima al Sacrificio di Ifigenia del 1727, conosciuto nelle due versioni del Museo di Providence e di una collezione privata napoletana.

La scena descrive l'incontro di Agostino con il Cristo pellegrino, un episodio che ebbe molta fortuna nella iconografia leggendaria del santo. Agostino è inginocchiato dinanzi a Cristo che gli offre il piede destro perchè lo lavi. Una bacinella piena d'acqua e uno strofinaccio fra le mani del santo evocano il gesto penitenziale. Agostino indossa la tunica nera dei monaci che seguono la sua regola, ha una folta barba rossastra ed è calvo.

Alle sue spalle si vede un tavolino di lavoro dove sono disposti alcuni libri e una penna. Dall'alto irrompono due angeli che osservano la scena, che si svolge in aperta campagna. Sullo sfondo il panorama si apre su un paese in lontananza e più lontano ancora dei monti su cui sta calando la luce notturna.

Il quadro descrivendo questa leggenda vuole mettere in luce la carità di Agostino. L'episodio divenne molto caro agli Eremitani ed ai Canonici, che seguivano la sua regola. Secondo M. Aurenhammer, che lo affermò nel suo Lexikon der christlichen Ikonographie (Vienna, 1953), la leggenda sarebbe stata elaborata in Spagna, dove in effetti appare per la prima volta. Da lì si diffuse nelle Fiandre.

Probabilmente fu estrapolata da qualche frase di Giordano di Sassonia, che nel suo Liber vitasfratrum scrisse: "Unde in Vitaspatrum legitur, quod sanctus Apollonius fratribus suis praecipiebat attentius, ut advenientes fratres quasi Domini susciperent adventum: "Nam et adorari adventantes fratres propterea", inquit, "traditio habet ut certum sit in adventu eorum adventum Domini nostri iesu Christi haberi, qui dicit: Hospes fui et susceptistis me". Et hoc sumpta est illa laudabilis observantia Ordinis, ut fratres hospites recipiantur cum genuflexione et manuum deosculatione."

N. CRUSENIUS nel suo Monasticon Augustinianum, I, 7 pubblicato a Vallisoleti nel 1623 a sua volta scrive: "Ad interiora deserti secedens, Christum hospitio suscipit, pedes lavat et audit: 'Augustine, Filium Dei hodie in carne videre meruisti; tibi commendo Ecclesiam meam.' S. Prosper et alii ", dove questi alii sarebbero Ferdinando vescovo di Tarragona e Jean Maburn canonico regolare.

Il primo a produrre questo tema iconografico fu Huguet, ma sarà Bolswert con le sue incisioni a diffonderlo ampiamente. La valenza di questo soggetto è teologicamente importante sia perché abbondano i testi agostiniani che sottolineano il valore dell'ospitalità al pellegrino, e perché Agostino stesso diede molta importanza all'ospitalità nei suoi monasteri. Già nelle Costituzioni Agostiniane del 1290 si trova il passo che stabilisce per i pellegrini la possibilità di lavarsi i piedi nel monastero. Nel 1686 si ribadisce che bisogna lavare i piedi dei pellegrini come se fossero la persona di Cristo.

Il tema di Agostino che lava i piedi al Cristo ha un grande valore anche teologico, poiché secondo la tradizione degli agostiniani eremitani, Agostino quando era monaco a Tagaste si sarebbe ritirato in un eremo con finalità di pura contemplazione. L'apparizione di Cristo in forma di pellegrino, gli avrebbe imposto di ritornare al mondo per testimoniare con la parola e le opere la vita cristiana.

Spesso la scena è accompagnata dal testo "O grande padre Agostino, ti affido la mia Chiesa", tratto da un apocrifo ambrosiano. E' un chiaro segno per giustificare la vita mista fra contemplazione e azione propria degli eremitani, con l'invito a seguire l'esempio del santo fondatore.

 

 

 

 

Francesco de Mura

Nasce a Napoli nel 1696 e vi muore nel 1782. Frequentò la bottega di Domenico Viola, e a partire dal 1708 entrò a far parte dello studio di Francesco Solimena, dove rimase fino al 1730. Questa esperienza condiziona la sua tecnica pittorica soprattutto nei dipinti risalenti al periodo 1720-30, tra le quali è da annoverare il Cristo morto in croce con san Giovanni per la Chiesa di San Girolamo alle Monache. Dal 1728, con i dipinti per la Chiesa di Santa Maria Donnaromita, De Mura avviò un percorso pittorico più personale, influenzato dalle tematica arcadiche che si stavano diffondendo nei circoli culturali a Napoli. Dal 1741 al 1743 si trasferì a Torino dove conobbe l'architetto barocco Filippo Juvara, il pittore Corrado Giaquinto e l'architetto Benedetto Alfieri. Tornato a Napoli la sua opere ebbe un largo riconoscimento. De Mura mantenne contatti con diversi artisti attivi soprattutto a Roma, in particolare con il pittore francese Pierre Subleyras. La sua tecnica cromatica influenzò i contenuti del classicismo-rococò del Settecento napoletano. Alla sua morte lasciò tutte le opere e i bozzetti in suo possesso alla storica istituzione di Carità del Pio Monte della Misericordia di Napoli.