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Percorso : HOME > Monachesimo agostiniano > Monaci agostiniani > Teologi > Egidio Romano > MarianiTeologi agostiniani: EGIDIO DA ROMANO
papa Bonifacio VIII
Il trattato "De Potestate Ecclesiastica" di EGIDIO DA ROMANO
di Ugo Mariani O.S.A.
Il grande filosofo agostiniano che nel "De Regimine Principum" aveva tracciato, su base aristotelico-tomista, il quadro del moderno stato dinastico, dopo l'ascesa al trono pontificio di Bonifacio VIII al quale era legato dai vincoli della riconoscenza e dell'amicizia, divenne l'assertore più tenace dell'idea teocratica. Due volte, in circostanze storiche, egli usò la valentia della sua dialettica in difesa del pontefice.
Subito dopo l'abdicazione di Celestino V, mentre ardeva la polemica degli Spirituali contro la legittimità dell'elezione di papa Gaetani, egli prese la penna in difesa del suo signore ed amico, e nel "De Renuntiatione Papae" (Stampato nella raccolta di Antonio Blado, in una edizione curata da parecchi agostiniani, Roma, 1554, e nel t. II della "Bibliotheca Maxima Pontificia" di Giovanni Tommaso Roccaberti, Roma, 1698, pagine 1-64) dimostrò che il vescovo di Roma può validamente rinunciare al suo ufficio, sebbene ne sia direttamente investito da Dio, e nel fatto specifico, ricordò che Bonifacio VIII, ancora cardinale, aveva tentato di far desistere il predecessore dalle sue risoluzioni, dicendogli che bastava al sacro collegio "quod nomen suae sanctitatis invocaretur super eos". Una seconda volta, in occasione del sinodo romano del 1302, indetto per condannare la politica di Filippo il Bello, egli fu l'avvocato del Gaetani, pubblicando il "De potestate ecclesiastica". Quest'opera famosa, conservata in numerosi manoscritti (Cod. n. 4229 della Nazionale di Parigi: mss. n. 4107, perg. in fol. 194 x 278, di c. 83 a due col. sec. XIV, 5612 cart. in fol. sec. XIV fine, 222 x 312 di c. 124 con postille del sec. XVI, della Vaticana: num. 130, 181, 367 dell'Angelica: cod. Magliabechiano, I, VII, 12, pergam. in 4°, 184 x 225, di c. 195, del secolo XIII o del principio del XIV, della Nazionale di Firenze. Cfr. G. BOFFITO, Saggio di Bibliografia Egidiana, Firenze, Olschki 1911, pag. 59), segnalata agli studiosi dal Tritemio, dal Bellarmino, dall'Ughelli, menzionata onorevolmente dal Tiraboschi (Storia della Letteratura Italiana, Milano 1823, t. IV, pag. 64), fu riesumata nel 1858 dal Jourdain (Ch. JOURDAIN, Un ouvrage inédit de Gilles de Rome, in Journal général de l'Instruction Publique (24 e 27 febbr. 1858)) che ne pubblicò alcuni estratti mettendo fine alla leggenda di un Egidio Romano ligio alle ambizioni dei sovrani francesi. Finalmente pochi anni or sono, Giuseppe Boffito, in collaborazione di G. U. Oxilia, servendosi di un antico codice della Nazionale di Firenze (Fondo dei conventi soppressi) dava alle stampe il prezioso trattato che fu subito ritenuto come uno dei documenti più importanti della letteratura curialista medioevale (GIUSEPPE UGO OXILIA, GIUSEPPE BOFFITO, Un trattato inedito di Egidio Colonna. Firenze, Successori B. Seeber 1908).
Enrico Finke gli assegnò come data di composizione il 1302, basandosi sul fatto che la contesa del 1300 tra la Francia e l'Inghilterra è conosciuta come avvenuta dall'autore (De Potestate eccles., III, 6, pag. 143 (ediz. Boffito): "Quando ergo Summus Pontifex volebat se intromittere de litigio quod erat inter regem Franciae et regem Angliae, occasione cujusdam feudi, non agebat hoc ratione ipsius feudi secundum se, sed propter aliam triplicem causam ecc..."), e che il trattato servì a Bonifazio VIII per la redazione della bolla "Unam Sanctam". L' ipotesi che Egidio abbia utilizzato nel suo lavoro lo scritto del pontefice, è inaccettabile, secondo il chiarissimo scrittore, perché il trattato, come apologia della bolla, avrebbe fallito al suo scopo. E poi come avrebbe potuto Giovanni Monaco giovarsi del "De potestate ecclesiastica" nella sua Glossa, uscita subito dopo la pubblicazione del famoso documento papale? Ora a nessuno può sfuggire la stretta dipendenza dal filosofo agostiniano, di questo non oscuro glossatore (Aus den Tagen Bonifaz VIII. Münster, Aschendorff 1902, pag. 160).
Lo Scholz propende per il 1301 (RICHARD SCHOLZ, Die Publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII in Kirchenrechtliche Abhandlungen her von Ulrich Stutz. Stuttgart, Enke 1903, pag. 568), ma non giustifica la sua asserzione. Possiamo con tutta sicurezza fissare per la data di composizione i due limiti, 1300 (lotta anglo-francese) e autunno 1302 (redazione della bolla Unam sanctam). L'opera è preceduta da una breve dedica a Bonifacio VIII. Con termini di speciale riverenza, frater Egidius, arcivescovo di Bourges e primate di Aquitania, umilia se stesso e il trattato ai piedi del beatissimo Padre. Premesso quindi un breve prologo per dimostrare che l'ignoranza dei limiti dell'autorità pontificia, può essere esiziale alla salute dell'anima, l'autore divide lo scritto in tre parti, nella prima delle quali tratta dei rapporti fra i due poteri, spirituale e temporale, nella seconda della proprietà ecclesiastica, e nella terza confuta le eventuali obiezioni alla dottrina precedentemente esposta e definisce la natura della potestà ecclesiastica. Il Papa è quella spirituale persona di cui S. Paolo afferma che "judicat omnia et ipse a nemine judicatur" (Ad Cor., V, 15). Egli possiede la "perfectio status" che consiste in jurisdictione et in plenitudine potentiae, mentre ai semplici laici può competere soltanto la perfezione personale, che è il premio della purezza di coscienza. A lui è soggetto l'uomo ratione animae. E poiché nei singoli uomini la materia è dominata dallo Spirito e l'anima è la forma del corpo, il suo governo si estende all'intiero individuo umano e conseguentemente a tutte le potenze del mondo che non sono ordinate al bene ultraterreno, ma soltanto a quello sociale materialmente inteso (De Potestate eccl., I, cc. 1-2).
La superiorità della potestà pontificia è chiaramente dimostrata dal diritto che spetta al Papa di riscuotere le decime e di consacrare l'imperatore, dal fatto che in certi casi l'autorità sacerdotale istituì quella secolare, dall'ordine dell'universo nel quale le sostanze razionali governano le irrazionali, le spirituali reggono le temporali. Dai sacrifici offerti dal primo uomo alla divinità ripete il sacerdozio la sua origine, mentre il regno ebbe posteriormente l'inizio, ai tempi di Neroth. Essendo quindi la suprema autorità religiosa anteriore, appartiene ad essa l'istituzione delle potestà secolari e la correzione e il giudizio sul principe tirannico o sprezzante dei diritti e dei privilegi della Chiesa (Ibid., cc. 3-4-5). Dal concetto di un duplice alimento, celeste e terreno, indispensabile alla vita dell'uomo, composto di anima e di corpo, si passa facilmente all'altro della necessità del potere laico e di quello ecclesiastico per l'ordinato governo della società, formata a sua volta di uomini (Ibid., c. 6). Ambedue le autorità, la mondana e l'ultramondana, affidate a Mosé e ai sommi sacerdoti nell'antico Testamento, sono oggi concentrate nel Romano Pontefice, che riserva a sé la spirituale più nobile e consona al proprio ufficio ad usum, e concede la temporale ai sovrani ad nutum, affinché la usino ai cenni e col permesso del sacerdote (Ibid., cc. 7-8). Nella seconda parte Egidio rivendica contro gli Spirituali la liceità della proprietà ecclesiastica, nonostante l'apparente contraddizione di alcuni passi della Sacra Scrittura (Luca X, 4: Numeri XVIII, 20-21). Anche ai religiosi che emisero il voto di povertà è concesso il diritto di possedere beni temporali, purchè siano investiti della dignità episcopale. Alle parole di S. Paolo: Tamquam nihil habentes et omnia possidentes (Ad Cor., epist. 2.a, VI, 10), egli nota che la glossa aggiunge: "non solum spiritualia, sed et temporalia, quia timentibus Deum nihil deest". E la gloria degli apostoli fu di posseder tutto quantum ad dominium, e nulla quantum ad sollicitudinem. Il perfetto distacco dalle cose della terra è certamente un opus supererogationis assai meritorio, ma il possesso dei beni materiali appartenenti alla Chiesa, non è, per le persone consacrate a Dio senza il legame di un voto speciale di povertà, un ostacolo alla perfezione (II, c. 1). Nel vecchio e nel nuovo Testamento vi sono passi che sembrano proibire ai fedeli, e specialmente agli ecclesiastici qualsiasi proprietà, ma non ne mancano altri suscettibili di più benevola interpretazione. Se nel capo XVIII, 2° dei Numeri il Signore dice ad Aronne: "Nihil posidebitis, nec habebitis partem inter eos. Ego pars et haereditas in medio filiorum Israel", è pur vero che nel capo XXV dello stesso libro, gli ebrei ricevono l'ordine dallo stesso Signore di assegnare ai leviti città da abitare e terreni da coltivare. E in Luca (X, 4) è scritto: "Nolite portare sacculum neque peram", ma anche: "Sed nunc qui habet sacculum tollat similiter et peram". Volle dunque il Salvatore che i discepoli non fossero del tutto sforniti di cibo e di denaro. Tre fasi nella storia della Chiesa ha attraversato l'jus. di possesso. In un primo tempo la comunità cristiana, direttamente assistita dalla Provvidenza, era priva di beni e ogni proprietà veniva goduta in comune. Poi il clero ottenne il diritto di acquistare e disporre dei beni materiali, ma cessò la speciale assistenza divina. Infine nella terza età, quella attuale, gli ecclesiastici godono dell'jus possidendi e della provvidenza di Dio (De Potest. eccl., II, cc. 2, 3). Si può anzi legittimamente dire che tutto ciò che è temporale cade sotto il dominio della Chiesa.
Questa tesi arditissima è provata con i quattro argomenti fondamentali della pubblicistica medioevale:
1° Le sostanze temporali furono create al servizio delle spirituali;
2° Come i corpi dominano le altre cose materiali e le anime signoreggiano i corpi, così il Papa regna sui corpi, sulle anime e sulle cose;
3° Nella natura imperfectiora ordinata sunt ad perfectiora, gli esseri inanimati a quelli animati, gli animali inferiori a quelli superiori, la potestà regia a quella sacerdotale;
4° Il tributo delle decime cui sono obbligati i fedeli, è il tacito riconoscimento del sovrano dominio di cui Dio ha investito la Chiesa su tutto ciò che è terreno (Ibid. c. 4).
L'affermazione che le due potestà, la laica e la religiosa, derivano immediatamente da Dio, non regge, osserva Egidio, ad una critica obiettiva. E prova la sua asserzione risalendo nella storia sino all'infanzia dell'umanità. Nel periodo della legge naturale i popoli furono governati da principi, come Neroth, primo sovrano di Babilonia, malvagi ed usurpatori. Quando Dio volle largire agli uomini una legge positiva, elesse Mosé a giudice del popolo eletto, e soltanto in seguito permise l'istituzione del regno, ma con l'espressa condizione che i Re di Israele fossero consacrati dai sommi sacerdoti. Onde Ugo di S. Vittore dice che il potere spirituale deve costituire il temporale (De Sacramentis, lib. II, ps. 2.a, c. IV).
E quand'anche fosse vero che le due potenze ripetessero da Dio la loro origine immediata, non ne seguirebbe l'autonomia del principato dal sacerdozio, come non seguirebbe nel composto umano l'indipendenza del corpo dall'anima, anche se il primo uscisse direttamente dalle mani del Creatore. Perché spirito e materia formano nell'uomo un tutto inscindibile, in cui il comando spetta all'elemento incomparabilmente più nobile, e potere regio e potere sacerdotale, nel vasto organismo della società, non possono disunirsi, come non si dividono i corpi dalle anime, ma devono risiedere in una sola persona, e precisamente in quella persona, il Romano Pontefice, che avendo il governo delle anime deve regnare per conseguenza anche sui corpi (De Potest. eccl., II, 5). La potestà ecclesiastica e secolare è parte integrante, secondo Egidio, insieme alle altre tre potenze, le virtutes naturales, le artes, le scientiae, dell'ordine naturale del mondo (Ibid., c. 6, pag. 51: Distincta ergo sunt quatuor genera potestatum, ut unum genus potestatis sint virtutes naturales, aliud sint artes, tercium sint principatus et gubernationes hominum).
Ma le virtù naturali sono soggette alle celesti che ad esse presiedono, le arti elaboranti le materia sono dipendenti da quelle che la materia ordinano a un dato fine, le scienze inferiori sono subordinate alle superiori, la metafisica alla teologia, così il potere mondano è gerarchicamente sottomesso all'ultramondano come virtus particularis sub universali, come ars praeparans materiam sub ea cui praeparat, come scientia attingens optimum sub ea quae magis attingit (Ibid). Dal campo politico l'autore si spinge più oltre e passa al concetto di proprietà. Non soltanto nessuna potestà è legittima se non è riconosciuta dalla Chiesa, ma l'uomo non può possedere con giustizia né podere, né vigna, né casa, né qualsiasi altra cosa materiale, ove egli non l'abbia sub ecclesia et per ecclesiam (Ibid., c. 7, pag. 59-60: His ergo declaratis, volumus descendere ad propositum et ostendere quod nullum sit dominium cum iusticia nec rerum temporalium nec personarum laicarum nec quorumcumque quod non sit sub Ecclesia et per Ecclesiam, ut agrum vel vineam vel quodcumque aliud quod habet hic homo vel ille non potest habere cum iusticia nisi habeat illud sub Ecclesia et per Ecclesiam).
Poiché essendosi l'uomo allontanato col peccato dal fine della creazione, divenuto indegno di ogni possesso temporale, non può ricevere dal padre che lo genera carnaliter il diritto ai beni della terra, ma lo avrà dalla Chiesa che lo reintegra, per mezzo dei sacramenti nell'ordine della grazia. E così nello Stato cristiano, cioè nell'unica società politica dove la vera giustizia, secondo l'espressione di S. Agostino (De Civit. Dei, II, c. 22), può essere osservata, la Chiesa è la padrona, almeno indirettamente, delle cose materiali, e ne distribuisce il dominio agli uomini concepiti nel peccato, quali filii irae, dopo averli rigenerati alla vita soprannaturale (De Potestate eccl., c. 7) mediante il battesimo e il sacramento della penitenza. Il primo ci toglie la macchia originaria che contraemmo da Adamo, il secondo cancella il peccatum actuale che, non meno dell'originale, ci rende volta per volta indegni di possedere (Ibid., c. 8, è la teoria già enunciata da Innocenzo VI nella risposta a Federico II riportata dal Winkelmann negli Acta imperii inedita, Innsbruck 1880-1885, n° 1035, t. II, p. 696-701: Romanum Pontificem posse saltem casualiter suum exercere pontificale judicium in quemlibet christianum, cuiuscumque conditionis existit, maxime ratione peccati). Anche la dibattuta questione dell'origine delle potestà terrene, è affrontata da Egidio. Egli ammette che gli scrittori della Bibbia e i Padri della Chiesa sembrino discordi. L'Apostolo dice: Non est potestas nisi a Deo. Ma a questa sentenza paolina, il nostro autore oppone le parole di Osea VIII, 4, ed accenna alle divergenze tra Gregorio ed Agostino, il primo dei quali sembra derivare alcune potestà da Dio. Per conciliare le diverse opinioni apparentemente contrarie, il nostro filosofo distingue la "potestas" in sé che è sempre buona, dall'usus potestatis che può essere cattivo rendendo l'autorità non iussa, cioè non ordinata, ma soltanto permissa, cioè tollerata da Dio. Spesso il Signore permette che regnino sovrani malvagi per punire i peccati del suo popolo e ricavare dal castigo frutti di penitenza. Ma questi principi che abusano della loro potenza non regnant ex Deo, bensì usurpano, come dice S. Gregorio, cupiditate dominandi, il governo delle nazioni. I soli monarchi che si professano figli devoti della Chiesa, che si dichiarano debitori ad essa del potere di cui sono investiti, possono chiamarsi veri signori dei loro popoli (Ibid., c. 10). Però anche così riconosciuti e consacrati dal Sommo Pontefice, questi grandi della terra hanno soltanto il dominio particolare dei beni temporali, appartenendo alla potestà religiosa quello universale, che, fondandosi su una distinzione di Ugo di S. Vittore, Egidio divide in utile o fructiferum, potestativum o jurisdictionale: a quest'ultimo spetta "justitiam exercere" (Ibid., c. 11). Agli infedeli poi nessun diritto compete di possesso e di dominio, perchè non adorando il vero Dio, non avendo ricevuto la grazia vivificante dei sacramenti, nullam potestatem possunt habere vere et cum justitia. Quest'alta sovranità sulle cose materiali proviene alla Chiesa, secondo il nostro autore, dal fatto che Dio la volle costituita come società visibile che fa capo al successore di Pietro ed ha per organi della vita soprannaturale la gerarchia e i sacramenti che essa amministra Il suo divin Fondatore le concesse la potestas ligandi atque solvendi che, si estende su tutti i fedeli, e il diritto di potere annullare nei propri membri, per mezzo della scomunica, ogni capacità giuridica al matrimonio, all'eredità, al possesso dei beni terreni (Ibid., c. 12): "Sed si Deo subiectus non es, indignus es illa potentia, et quia, ut dicebamus, generatus a patre carnaliter, nasceris filius irae, et non es Deo subiectus, peccans etiam mortaliter, te avertis a Deo et non es subiectus sibi, indignus es potestate illa. Et quia nil dignus est quam privari indignum, debent parentes pro filiis ad devotionem surgere et ad Ecclesiam recurrere ut spiritualiter regenerentur, per quam regenerati, fient digni haereditate paterna et omni potestate et dominio".
Ad essa spettano ambedue le spade, la spirituale e la temporale, delle quali la prima la impugna il suo capo visibile, il vescovo di Roma, l'altra è affidata a persone che a suo comando e per i suoi fini la usino (Ibid., cc. 13-14-15). Nella terza parte del trattato, Egidio intende ribattere le possibili obiezioni che a queste dottrine potrebbero esser mosse. Dopo essersi scusato col lettore di avere adoperato termini che forse altri dotti non potrebbero accettare, preoccupandosi di riuscire piuttosto chiaro che elegante (Ibid., III, 1, pag. 114: Ait enim Apostolus, secunda ad Corinthios. XI: "Et si imperitus sermone, non tamen scientia"... Quae verba non ad nostram commendationem, ut nos peritos in scientia asseramus, sed ad nostram excusationem, ut si in hoc opere non per eadem verba locuti fuimus per quae profundiores in hac materia loquerentur, excusatos esse volumus, quia, secundum Augustinum, cum de re constat, nulla debet esse quaestio de sermone, et Hilarius vult quod non sermoni res sed rei sermo debet esse subiectus) egli passa all'esposizione delle difficoltà. Gli stessi giuristi che derivano da Dio l'origine immediata del potere laico, negano conseguentemente la liceità dell'appello dal tribunale secolare a quello ecclesiastico. Ma è innegabile, dice il nostro scrittore, che se il fine dell'uomo è la salute eterna, il Sommo Pontefice, la cui missione è di facilitare ai fedeli questo compito, possa e debba intervenire ogni qual volta il raggiungimento di questo scopo è minacciato, avocando a sè quelle cause civili che egli giudica di essere in diritto, dato il suo ufficio, di risolvere. A questo principio sembra contraddire Alessandro III negli Extrav. (c. 7, X, 12, 28) asserendo che tale appello non è de rigore iuris. Ora, osserva Egidio, bisogna tener presente la distinzione dell'jus in rigidum, in equum e in mite. Quando affermiamo che i beni temporali, in quanto tali, cadono direttamente sotto la giurisdizione laica, intendiamo dire che ciò avviene de rigore juris, mentre è secondo un diritto più mite, sebbene anch'esso inalienabile, che essi siano oggetto della sanzione pontificia quando tornano a pregiudizio dell'anima e ostacolano il fine etico ultraterreno. Ma come Dio, fonte e causa di ogni cosa, lascia che l'ordine della natura segua il suo corso, così il Romano Pontefice non interviene d'ordinario nel foro secolare per non intralciare l'opera dei giudici e per non distogliere la sua mente dal governo delle anime che è il primo e più alto compito del suo ufficio (De Potest. eccl., III, cc. 1, 2, 3, 4). A questo prudente criterio di regolarizzare l'intromissione della S. Sede negli affari civili, alludeva forse Innocenzo III quando scriveva: "cunctis causis inspectis, temporalem jurisdictionem causaliter exercemus" (Extrav. cap. Per Venerabilem,13, X, 4, 17).
Del resto, aggiunge Egidio ripetendo un'osservazione che aveva fatto a proposito di Alessandro III, la parola di un Papa non obbliga, nel campo giuridico, il suo successore (De Potest. Eccles., III, c. 4). Ma vi sono casi che richiedono l'intervento dell'autorità ecclesiastica nei tribunali secolari per avocare a sè quelle liti giudiziarie nelle quali temporale e spirituale vicendevolmente si annettono. Tali sono le cause intorno alle decime, ai matrimoni, alla legittimazione, alla dote, al testamento, ai crimini denunziati, ai patti confermati con giuramento, alla guerra, alle contese tra sovrani, alle donazioni fatte alla chiesa o alle opere pie. Inoltre il Sommo Pontefice è tenuto ad intromettersi nella legislazione civile quando il potere laico è assente o negligente, e quando la legge non sufficentemente chiarita ha bisogno d'interpretazione (Ibid., cc. 5, 6, 7, 8. L'Ostiense raccolse tutte le cause che si traevano al foro ecclesiastico nei seguenti versi:
Haereticus, simon, foenus, periurus, adulter,
Pax, privilegium, violentus, sacrilegusque
Si vacat imperium, si negligit, ambigit, aut sit
Suspectus, judex, si subdita terra, vel usus
Rusticus, et servus, peregrinus, feuda, viator
Si quis poenitens, miser, omnis causaque mixta.
Si denunciat Ecclesiae quis, judicat ipsa.
(Cfr. CANTÙ, Storia degli Italiani, T. II, Palermo 1858, pag. 370).
Nel Papa risiede la pienezza della potestà. Egli potrebbe regnare sulle anime e sui corpi senza servirsi di intermediari, perchè, spiega scolasticamente il nostro autore, plenitudo potestatis est in aliquo agente, quando illud agens potest sine causa secunda quidquid potest cum causa secunda. Ma come Dio regge l'universo per mezzo di leggi o di agenti, così il Capo dei fedeli si vale negli atti del suo governo di ministri oculati e attivi che agiscono in virtù del potere di cui sono da lui investiti (De Potest. eccl., III, c. 9). La potenza del Vescovo Romano è maggiore di quella delle sfere celesti che non possono operare senza il concorso delle cause seconde, ma parecchie analogie si potrebbero riscontrare fra l'essenza della potestà del Pontefice e la natura dei cieli che circondano la terra e vi esercitano il loro influsso (Ibid., c. 10).
Nonostante la plenitudo potestatis, l'autorità spirituale riceve in dono beni materiali dai fedeli. Si ha in tal caso la cessione alla Chiesa del proprio particolare jus che ad ogni uomo compete nelle cose temporali. In questo senso si deve spiegare l'espressione di Ugo di S. Vittore che talora è concesso al clero dalla pia devozione dei cristiani il possesso in temporalibus (Ibid., c. 11). Al Papa, nella chiusa del trattato, sono rivolte le parole della sapienza: (XI, 22) Omnia in mensura, numero et pondere disposuisti. Tutto può disporre il Sommo Pontefice e ordinare nella società dei credenti. Anche la facoltà di assolvere dai peccati è posta illimitatamente nelle sue mani. "Abbi timore del vescovo di Roma, esclama Egidio, ed osservane i comandi, essendo questo il fine per cui fosti creato". E riepiloga in un periodo tutta la sua dottrina: Summus Pontifex est timendus et sua mandata sunt observanda, quia potestas eius est spiritualis, coelestis et divina, et est sine pondere, numero et mensura (De Potest. eccl., III, c. 12).
Analisi del De Potestate Ecclesiastica
Noi esaminammo il De Regimine Principum di Egidio che ci rivelò uno scrittore di larghe vedute, consapevole dei problemi politici del suo tempo. Nel 1280, anno in cui il trattato fu probabilmente redatto, il filosofo agostiniano definiva l'uomo un animale sociale e politico, e la civitas un'istituzione necessaria che sorge naturalmente quando alcune famiglie si associano dapprima in villaggi, e poi in aggregazioni maggiori. Il fine dell'organizzazione statale è la felicità dei cittadini: procurar loro non il semplice vivere, ma l'agiatamente e virtuosamente vivere. L' influsso dell'antico concetto platonico-aristotelico di una finalità della civitas rivolta non soltanto ai beni del corpo, ma anche e sopratutto a quelli ben più rilevanti dell'anima, è manifesto, in tutta la fortunata opera che Egidio Romano dedicò a Filippo il Bello, non ancora asceso al trono di Francia. In seguito il grande filosofo non si occupò più per quasi un ventennio di questioni politiche. Le polemiche vivissime, dopo l'elezione di Bonifacio VIII, tra i Colonna e gli Spirituali che negavano la validità dell'abdicazione di Celestino V e conseguentemente dell'assunzione al trono pontificio del suo successore, e i partigiani di papa Gaetani che riconoscevano al Vescovo di Roma il diritto di rinunziare al proprio altissimo ufficio, dettero occasione al nostro autore di scrivere il "De Renuntiatione Papae" per porre termine all'incresciosa controversia. Strane voci di subdole arti tentate dal novello pontefice per indurre l'ingenuo suo antecessore al gran rifiuto correvano per l'Europa. In realtà la storia ha fatto giustizia di queste malevoli insinuazioni, e ha ridotto l'opera del cardinale Gaetani al solo fatto di aver assicurato l'antico romito asceso, in seguito ad avvenimenti straordinari, alla cattedra di Pietro, della legittimità del passo che stava per compiere. Il 10 marzo 1297, i cardinali Jacopo e Pietro Colonna, adunatisi coi loro seguaci a Lunghezza, dichiaravano non valida l'abdicazione di Celestino V e l'elezione di Bonifacio e si appellavano al futuro concilio. Poco dopo nei cenacoli dei letterati italiani e nei circoli degli Spiritualisti o Fraticelli, così influenti nella società di quel tempo, risuonava terribile l'invettiva di Jacopone da Todi: O papa Bonifazio, molt'hai iocato al mondo, penso che giocondo non te porrai partire. Ma contro questi acri polemisti che appoggiandosi sul principio dell'origine divina dell'autorità di cui è investito il Successore di Pietro, sostenevano l'impossibilità, dopo averla ottenuta, di rinunziarvi senza un espresso consenso da parte di Dio, Egidio sorse in difesa del suo amico e protettore esponendo alcune teorie sulla natura dei poteri, veramente interessanti per chi voglia seguire lo sviluppo del suo pensiero politico. Il nostro scrittore parte da una distinzione concettualista fra potestas e jurisdictio. Ogni autorità spirituale e temporale in quanto è ordo ha un'origine ultraterrena, in quanto è jurisdictio deriva dalle determinazioni umane, essendo indispensalile la cooperazione degli uomini per scegliere la persona che della potestà dovrà essere investita. E così tutte le potestates formalmente in Dio, in concreto si fondano nel consenso degli elettori e nell'assenso dell'eletto (De Renuntiatione Papae, e. XXIV, pag. 58 (ediz. Roccaberti nella Bibliotheca Maxima Pontificia, t. II): Si videre volumus quid est formale in ipso Papatu, considerare debemus in quibus consistit ipse papatus; nam cum omnis auctoritas et ecclesiastica potestas, vel dicit ea quae sunt ordinis, vel ea quae sunt jurisdictionis, oportet quod ratio papalis potestatis in aliquo illorum existat. Materiale autem in ipso papatu sunt personae, in quibus habet esse papatus, vel quae assumuntur ad papatum, nam potestates, virtutes, et similiter omnes perfectiones non habent materiam ex qua fiunt, sed in qua recipiuntur: cum ergo papatus sit quaedam potestas, et quaedam auctoritas et quaedam perfectio, non habet materiam ex qua, sed in qua: ipsae ergo personae, quae assumuntur ad papatum, et in quibus recipitur papatus, dicuntur esse quid materiale respectu papatus. Causa autem efficiens ipsius papatus est consensus eligentium, et consensus electi: et si dicatur quod est causa efficiens etiam confirmatio ipsius Dei dicemus quod Deus sic administrat res, ut eas proprios cursus agere sinat: ex quo ergo hoc requirit cursus rerum, quod si eligentes eligunt, et intellectus assentit quod ille sit Papa, debemus supponere quod hoc fiat ex divina voluntate).
Dei due elementi che le compongono, l'ordine e la giurisdizione, il primo è la base trascendentale e divina del potere e non può essere alienato, l'altro forma la base materiale ed è trasmissibile (Ibid., c. XVI, pag. 41: Quare quae sunt jurisdictionis possunt tolli, non autem quae sunt ordinis). Anche il papato è posto sulla linea delle altre autorità: il Romano Pontefice riceve dall'umana determinazione la jurisdictio che è l'esercizio, il contenuto dell'ordo, e può quindi validamente rinunziare ad essa e al suo altissimo ufficio quando lo crede opportuno (Ibid., c. VI pag. 11: Igitur si a solo Deo est papatus, est tamen in hac persona vel in illa per cooperationem humanam. Et quia ad talem potestatem habendam intervenit opus humanum, ideo opere humano desinere potest, quia cooperatione humana esse habuit). Queste teorie ebbero in seguito fortuna. Il nostro filosofo aveva detto: Tutto ciò che deriva da Dio, ma si attua con la cooperazione umana, può essere dagli stessi uomini abrogato (Ibid., c. V. pag. 8: Illud quod sic est a Deo, quod ad illud possunt cooperari creaturae, creaturarum opere tolli potest).
E su principio fondava la validità dell'abdicazione di Celestino V. Ben presto si passò ad affermare che le persone arrivate ad una carica per consensum hominum, potessero, per mezzo dello stesso consenso, esser rimosse dal loro ufficio. E non fu eccettuato, andando assai più lontano di quanto avrebbe voluto Egidio, nemmeno il papa. La distinzione tra ordo e jurisdictio fu il punto d'appoggio a numerosi dottori dei secoli seguenti per proclamare la superiorità del Concilio sul Papa. Nel "De Potestate Ecclesiastica" è invece esposta una dottrina rigidamente teocratica. Nella letteratura medioevale prosastica e poetica dominava incontrastata l'idea feudale. L'amore stesso era presentato come un signore che va in cerca di vassalli da dominare e da comandare. Seguendo questo concetto, Egidio dispone i poteri in un armonico disegno, secondo il quale i superiori governano gl'inferiori, e nell'ordine terreno scorge un riflesso di quello celeste. Dio, il supremo moderatore dell'intiera machina mundi dirige la sua Chiesa per mezzo del Papa, cui commise, come suo vicario, il governo di tutte le nazioni dopo averlo investito della duplice spada, l'una ad usum, l'altra ad natum. Sembra anzi che lo scrittore agostiniano rimpianga quel tempo del vecchio Testamento quando una sola persona poteva maneggiare le due spade, anche quella temporale, senza bisogno d'intermediari (De Potest. eccl., I, c. VII, pag. 24: Videtur ergo ex hoc quod gladius materialis et terrena potestas non reservaretur in ecclesiastica potestate, et exinde posset ulterius argui quod sacerdotes in lege graciae essent imperfectiores sacerdotalibus in lege naturae, quia illi erant reges et sacerdotes habentes utrumque gladium et utramque potentiam).
Ma era troppo profondo conoscitore della storia ecclesiastica per ignorare quanto le occupazioni incessanti impedissero ai Sommi Pontefici il raccoglimento. Forse nel suo orecchio durava ancora l'eco delle parole di Gregorio Magno piangente che il suo cuore fosse trattenuto dalle sollecitudini del governo di Roma nel suo slancio verso Dio (Gregorii Magni opp. omn. Ediz. dei frati Maurini, Parigi 1705, Epist. I, 5, pag. 490; I, 25, pag. 514), o quelle che Innocenzo III scriveva all'abate di Citeaux: "La meditazione mi è impedita, il pensare quasi impossibile, a pena posso io respirare" (FELIX ROCQUAIN, Le papauté au moyen âge. Paris, Plon 1886, pag. 178). Perchè Egidio afferma che "perfectius et excellentius est habere materialem gladium ad nutum quam ad usum, (De Potest. eccl., I, c. VIII, p. 28), e che l'antico sacerdozio rinunziò ben presto alle cure mondane per dedicarsi più diligentemente a quelle dello spirito. Vi è nel nostro scrittore una strana tendenza ad inasprire, anche nel campo giuridico, le idee teocratiche dominanti nella società del suo tempo. Valga come esempio la sua teoria delle decime. Gli antichi canonisti le derivavano dall'istituzione divina appoggiandosi su Malachia (III, 8-10) e sui Numeri (XVIII, 27, 28). S. Tommaso le fonda in parte sul precetto positivo e in parte sul diritto di natura (Summa theol., 2, 2, q. 87, art. I: Unde praeceptum de solutione decimarum partim quidem erat morale, inditum naturali ratione: partim autem erat judiciale, ex divina institutione robur habens: quod enim eis, qui divino cultui ministrabant ad salutem populi totius, populus necessaria victus ministraret, ratio naturalis dictat: sicut et his, qui communi utilitati invigilant, scilicet: principibus, et militibus et aliis hujusmodi stipendia victus debentur a populo).
Esse sono una recognitio divini beneficii (Ibid., 2, 2, q. 86, art. 4: Offerebantur autem primitiae ex speciali causa, scilicet in recognitionem divini beneficii: quasi aliquis profiteatur se a Deo fructus terrae percipere, et ideo se teneri ad aliquid de hujusmodi Deo exhibendum), un riconoscimento delle grazie che Dio spande sulle creature e un mezzo per fornire ai ministri del culto quel necessario sostentamento che già il popolo offriva ai principi e ai cavalieri sotto il titolo di stipendia victus. Ma nella dottrina tomistica le decime non rivestono la qualità di tributo, perchè esse erano pagate con i frutti della terra ottenuti ex munere divino. Invece nel "De Potestate ecclesiastica" questo carattere tributario è ad esse chiaramente attribuito. Egidio le concepisce come un segno della sottomissione dei fedeli al dominio universale della Chiesa, un censo di servitù dei laici ai sacerdoti (De Potest. eccl., I, c. 4, pag. 14: Dantur autem hujusmodi decimae in recognitionem propriae servitutis, ut quilibet recognoscat se servum Dei, sicut inferiores sunt cubicularii suo superiori ut recognoscant se et habere quod habent a superioribus suis, sic et nos quae tenemus et habemus a Deo recipimus... Terrena itaque et temporalis potestas, ut terrena est, idest ut fructus terrae recipit et ut temporalis est, idest ut bona temporalia habet, est tributaria et censuaria ecclesiasticae potestati, quam vice Dei recognoscens, in recognitione propriae servitutis debet eis decimas exhibere).
Egli, il grande filosofo, sembra che abbia il compito di portare all'estreme conseguenze tutte le teorie degli scrittori curialisti medioevali. Non gli bastava asserire la supremazia assoluta della potestà spirituale sulla temporale, doveva arrivare, con un trapasso infelice dal concetto di potere a quello di possesso, alla stupefacente conclusione che nessuna proprietà può l'uomo possedere con giustizia, ove egli non l'abbia sub ecclesia et per ecclesiam. E' innegabile in tutto il trattato l'influsso della scuola agostinista, in cui mancava una netta distinzione fra il dominio della filosofia e quello della teologia, fra le verità razionali e quelle rivelate, in modo che le prime erano assorbite dalle seconde. Da questa confusione dei due ordini di verità proveniva la distruzione delle forze originarie dello Stato. Infatti se il diritto di natura spariva in quello soprannaturale, l'organizzazione politica della società non aveva ragione di esistere senza il riconoscimento della Chiesa. Ogni elemento spirituale mancava al potere terreno, se quello ultramondano negava di conferirglielo. A questo principio si appoggiava Egidio quando sosteneva che la potenza romana non era un impero legittimo (Ibid., c. 7, pag. 60), e i regni degli infedeli non hanno un fondamento legale, ma sono, secondo l'espressione di S. Agostino, magna latrocinia (Ibid., III, c. 2, pag. 125).
I Romani Pontefici difesero con molta energia e varia fortuna in tutto il Medio Evo l'idea teocratica. Ai principi che essi propugnavano, l'autorità laica opponeva, come fecero Enrico IV, Federico II, Filippo il Bello, la teoria dell'uguaglianza dei due poteri. Papa Gelasio formulò in un modo classico la superiorità della potestà spirituale su quella temporale, appoggiandosi alla concezione dell'unità ideale del regno e del sacerdozio in Cristo (Cfr. ERNST BERNHEIM, Mittelalterliche Zeitanschauungen in ihrem Einfluss auf Politik und Geschichtschreibung. Tübingen, Verlag von j. C. B. Mohr (Paul Siebeck) 1918, Teil I, pagg. 150-152). Gli altri elementi dottrinali, le potestates ordinis, magisterii, jurisdictionis vennero sviluppandosi sotto i suoi successori sino a raggiungere l'unità totale del sistema in Gregorio VII. Ma i canoni politici e filosofici che hanno retto idealmente la civiltà cristiana nell'età di mezzo sono rampollati dalla teologia di S. Agostino sintetizzata in quel meraviglioso libro della Città di Dio che fu la carta fondamentale della Chiesa per la sua missione sociale. Nello scritto del grande dottore la Civitas Dei s'identifica con la comunità dei fedeli, di cui è Rettore Cristo, il Messia predetto nell'antico Testamento, discendente da Aronne e da David, dai quali ereditò la dignità di Sacerdote e di Re. A S. Agostino fu attribuita la teoria della natura diabolica e peccaminosa dello Stato in sé, non soltanto del pagano, ma anche del cristiano. Ma è questo un errore che si rivela anche ad uno sguardo superficiale dato alla produzione letteraria del grande Padre dell'occidente cristiano. La lotta fra le due società, dei buoni e dei cattivi, che si è accentuata nel cozzo fra paganesimo e cristianesimo e che si perpetuerà oltre la fine dei tempi, nell'altro mondo, con l'eternità della vita per gli Eletti e della morte per i dannati, non è guerra della Chiesa contro ogni forma di organizzazione politica dei popoli, ma del bene contro il male, della grazia contro il peccato, di Dio contro il diavolo. Le frasi pessimiste di S. Agostino sulla natura e sull'origine del regnum, si devono riferire allo stato non cristiano che è veramente in antitesi colle finalità della Città di Dio. Inoltre il dottore d'Ippona mantiene una posizione neutrale di fronte alle due autorità, spirituale e temporale, perché dice che tanto i sovrani quanto i sacerdoti ricevono dall'alto la potestà a loro affidata per il vantaggio dei sudditi. E se fu il primo pensatore ad osservare che il concetto di dominio del Redentore nella Civitas da lui fondata, importa anche l'idea di sacerdozio e di regno riuniti nella persona di Cristo, egli non affermò che Dio trasmise il duplice potere, almeno in senso terreno e politico, ai Sommi Pontefici suoi vicari (ERNST BERNHEIM, Op. cit., pagg. 118-119).
Con l'insulto di Anagni (settembre del 1303) crollò per non più rialzarsi la potenza politica dei papi. Un anno avanti, in occasione del concilio romano indetto per giudicare la politica di Filippo il Bello, Bonifacio VIII aveva pubblicato la bolla Unam Sanctam, ed Egidio Romano il "De Potestate ecclesiastica". Alcuni scrittori (JORDAIN, Excursions historiques et philosophiques à travers 1e M. Age. Paris, Firmin, Didot 1888, pag. 192; KRAUS, Dante, sein Leben und sein Werk etc., Berlin, Grote 1897, pag. 680) hanno voluto riconoscere nell'estensore della bolla il nostro filosofo. Ma questa opinione che, data la grande somiglianza di forma e di concetti fra lo scritto egidiano e quello del pontefice, potrebbe sembrarci seducente, è decisamente contraddetta da una notizia contenuta nel Cod. 4229 della Nazionale di Parigi, secondo la quale il Papa avrebbe steso di suo pugno il documento famoso (FINKE, Op. cit., pag. 147, n. 2). E' però probabile che l'opera del nostro filosofo abbia ispirato la bolla solenne che a monito dei principi terreni poco riguardosi dei diritti sovrani della potestà spirituale, Bonifacio VIII emanava nell'imminenza del tragico epilogo della sua lotta contro la corte di Francia. Un breve confronto fra i due scritti, del papa e del monaco agostiniano, ci convincerà della loro grande affinità d'idee e di forma, che non possiamo spiegarci senza supporre che l'uno abbia servito di base all'altro. Entrambi, Bonifazio ed Egidio, prendono le mosse dal passo di S. Luca (XXII, 38): "Ecce gladii duo hic" per affermare che alla Chiesa competono ambedue le spade, la spirituale e la temporale, l'una direttamente, l'altra indirettamente. Già S. Bernardo, parlando della spada materiale, aveva detto, rivolto a papa Eugenio: "Tunc ergo et ipse (gladius) tuo forsitan nutu, etsi non tua manu evaginandus. Uterque ergo ecclesiae, et spiritualis scilicet gladius et materialis: sed is quidem pro Ecclesia, ille vero ab Ecclesia exercendus; ille sacerdotis, is militis manu: sed sine ad nutum Sacerdotis, et iussum Imperatoris" (SCADUTO, Op. cit., pag. 19). Tanto Bonifazio VIII quanto Egidio ripetono quasi le stesse parole, ma tolgono il forsitan che serviva a S. Bernardo per temperare la frase troppo decisamente esaltante la potenza papale, ed asseriscono senz'altro che la spada temporale appartiene sì al potere civile, ma "ad nutum et patientiam sacerdotis" (Bolla Unam Sanctam, Raynaldi, Annales Eccl., T. XIV, an. 1302, n. 13: De Potest eccl., II, c. 15).
E poiché tutte le autorità terrene, non due, ma una sola gerarchia devono costituire, dominando l'unità nella natura e nell'ordine delle cose, ne segue che l'autorità temporale è soggetta non solo, ma ordinata allo spirituale (Bolla Unam Sanctam: Opertet autem esse sub gladio, et temporalem auctoritatem spirituali subiici potestati. Nam cum dicat Apostolus: non est potestas nisi a Deo, quae autem a Deo ordinata sunt, non autem ordinata essent nisi gladius esset sub gladio, et tanquam inferior reduceretur per alium in suprema. Nam, secundum beatum Dionysium, lex divinitatis est infima per media in suprema reduci. Non ergo secundum ordinem universi omnia aeque ac immediate, sed infima per media, inferiora per superiora ad ordinem reducentur. Gli stessi concetti e quasi le stesse parole si leggono nel De Potestate Ecclesiastica, I, 3). E a prova di questa asserzione ambedue gli scrittori, il pontefice e il monaco, adducono quattro ragioni:
1°. Il diritto di riscuotere le decime che ha la Chiesa;
2°. La consacrazione dell'Imperatore da parte del Papa e la benedizione impartita;
3°. Il fatto che nell'antico Testamento Dio si è servito del sacerdozio per istituire il potere civile;
4°. L'ordine dell'universo che importa il dominio dello spirito sulla materia (Bolla Unam Sanctam: Spiritualem autem et dignitate et nobilitate terrenam quamlibet praecellere potestatem oportet tanto clarius nos fateri, quanto spiritualia temporalia antecellunt: quod etiam ex decimarum datione, et benedictione et sanctificatione, ex ipsius potestatis acceptione, ex ipsarum rerum gubernatione claris oculis intuemur. Cfr. De Potest. eccl., I, 4).
Infine entrambi concludono che se l'autorità spirituale può pronunziar giudizio su quella temporale, essa, a sua volta, non può esser trascinata davanti al tribunale umano, ma soltanto Dio può giudicarla (Bolla Unam Sanctam: Ergo si deviat terrena potestas, iudicabitur a potesate spirituali: sed si deviat spiritualis, minor a suo superiori, si vero suprema a solo Deo, non ab homine poterit iudicari. Cfr. De Potest. eccl., I, 4).