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Intestazione del de Regimine Principum di Egidio Romano
IL "DE REGIMINE PRINCIPUM" DI EGIDIO DA ROMANO
di Ugo Mariani O.S.A.
L'opera fu dedicata a Filippo il Bello (De Regim. Princip. Prologo: "Ex regia ac sanctissima prosapia oriundo suo Domino speciali Domino Philippo primogenito et haeredi praeclarissimo viri Domini Philippi Dei gratia illustrissimi Regis Francorum. Suus devotus Fr. Aegidius Romanus Ordinis Fratrum Eremitarum S. Augustini, cum recommendatione seipsum et ad omnia famulatum", Edizione edita da Fr.Girolamo Sammaritano, 1607, presso Bartolomeo Zannetto), non ancora cinto della corona reale, che aveva commissionato il lavoro ad Egidio (Ibid. Quare si vestra generositas gloriosa nos amicabiliter requisivit de eruditione Principum, sive de Regimine Regum quemdam librum componerem ecc).
Vogliono unanimamente gli storici che il principe fosse allievo del filosofo agostiniano. Ma già abbiamo sostenuto l'inverosimiglianza di questa notizia che a noi sembra confutata dal fatto che proprio negli anni in cui avrebbe dovuto svolgere la sua opera di pedagogo presso il giovine principe, il grande dottore abbia trascorso il suo tempo fuori di Francia, costretto a lasciare l'Università di Parigi, dopo l'acre polemica con Stefano Tempier. Per la stessa ragione noi assegneremo alla pubblicazione del trattato un anno anteriore al 1281, data del Capitolo generale tenuto dagli Eremitani di S. Agostino a Padova, al quale Egidio intervenne come definitore della provincia romana, per stabilirsi poi lungamente in Italia, sino a quasi l'assunzione al trono di Filippo IV (1285).
Il De Regimine Principum fu un'opera nel Medio Evo sommamente ricercata. Conservata in numerosi manoscritti fu tradotta nelle principali lingue d'Europa (Si hanno versioni in francese e in italiano, in catalano, portoghese, spagnolo e persino in ebraico. Cfr. G. BOFFITO, Saggio di Bibliografia Egidiana, pagg. 7-10).
Ebbe l'onore di essere citata nel Convivio di Dante (II, 13) e di aver servito come modello ai trattati congeneri dell'epoca. Nei tre libri di cui esso si compone, l'autore ha voluto esporre diffusamente le norme che devono regolare la vita morale dei sovrani e i loro rapporti famigliari, e definire l'essenza del potere regio. Potremmo chiamare Etica il primo libro del trattato, ed Economia e Politica gli altri due. Un'equazione rigorosa è posta fra le capacità di signoreggiare le proprie passioni e quella di regnare. Soltanto chi ha imparato a dominare se stesso può ascendere i gradini di un trono. Quando Egidio pubblicava la sua opera, si chiudeva l'era gloriosa dei liberi Comuni che in Italia avevano sostituito i palazzi del popolo ai castelli dei nobili. Ma educato in Francia, frequentatore della Corte dove era bene accolto per la sua scienza e le sue virtù, il filosofo agostiniano considerava la monarchia come l'ordinamento naturale della comunità, e specialmente quella monarchia che aveva sotto gli occhi, con la successione ereditaria e un sistema feudale bene sviluppato. Egidio Romano è lo scrittore da tavolino che stende con calma il suo lavoro e non disdegna di consultare i trattatisti che lo precedettero. In tutta l'opera affiorano qua e là pensieri tratti dalla Politica, dalla Rettorica e dall'Etica di Aristotele. Anche con S. Tommaso ha grande famigliarità.
L'attenta lettura della seconda parte della Summa theologica di questo maestro, gli ha suggerito forse l'idea di condensare nel primo libro del De Regimine, in un compendio generale, la dottrina dell'Etica. Nelle quattro divisioni di questa prima parte del trattato, Egidio espone la teoria delle virtù umane che devono adornare l'animo di un Re, e svela quali vizi sociali, non evitati a tempo, possano condurre a rovina gli Stati favoriti dalla fortuna. Egli enumera dodici virtù morali, delle quali quattro cardinali, oggetto tutte, eccettuate la prudenza e la giustizia che appartengono all'intelletto l'una e alla volontà l'altra, dell'irascibile e del Concupiscibile (In intellectu est prudentia. In voluntate iustitia. In irascibili est Fortitudo, Mansuetudo, Magnanimitas et Magnificentia, quae sic accipiuntur: quia Fortitudo et Mansuetudo sunt circa passiones ortas ex malis, ut Fortitudo est circa passiones ortas ex malis futuris, Mansuetudo circa passiones ortas ex malis praesentibus. Magnificentia vero et Magnanimitas sunt circa bona ardua, aliter et aliter: quia Magnificentia est circa magna bona utilia, ut circa magnos sumptus: Magnanimitas vero circa magna bona honesta, ut circa magnos honores. In concupiscibili autem sunt sex virtutes: videlicet Temperantia, Liberalitas, Honoris amativa, Veritas, Affabilitas et Eutrapelia: quae sic accipiuntur, quia tres harum, ut Temperantia, Liberalitas et Honoris amativa, sumuntur secundum bonum hominis in se: aliae vero tres, secundum bona hominis in ordine ad alium: secundum ergo utraque bona, sunt tres virtutes. Nam bona hominis in se tria sunt: nam quaedam sunt delectabilia, circa quae est Temperantia: quaedam utilia, circa quae est Liberalitas: quaedam honesta, circa quae est honoris amativa. Sic etiam bona in ordine ad alium tripliciter possunt considerari; vel ut deserviunt nobis ad manifestationem, et hic est scritas; vel ad vitam, et sic est affabilitas: vel ad ludum, et sic est Eutrapelia. De Regimine Principum I, ps. 2, c. 3, pp. 55-56).
In queste due facoltà dell'anima, risiedono anche le quattro passioni fondamentali (spes, timor, gaudium, tristitia) e le otto derivate e secondarie che si oppongono, come contrarie, alle virtù (Praedictae ergo passiones sic distinguuntur: quia primae sex videlicet, amor, odium, desiderium, abominatio, delectatio et tristitia pertinent ad concupiscibilem: reliquae vero sex ad irascibilem spectant. Ibid., ps. 3, c. 1, p. 154. S. Tommaso ritiene che all'irascibile spettino sole cinque (spes, desperatio, audacia, timor, ira) e non sei passioni). Soltanto dell'ira non si nomina il contrarium, perché il nome della virtù ad essa opposta è ignoto ad Egidio, ed egli non può attribuire alla mansuetudine tutte le qualità per affermarsi tale (Ibid., I, ps. 3, c. 1, pp. 153-154. Computabatur enim supra mansuetudo inter virtutes: sed hoc est propter vocabulorum penuriam, ut ait Philosopus 4, Ethic. Mansuetudo enim proprie nominare videtur passionem oppositam irae. Sed cum sit quaedam virtus inter iram et mansuetudinem, quia virtutem illam proprio nomine nominare nescimus, nominamus eam nomine mansuetudinis, eo quod illa virtus plus comunicat cum mansuetudine, quam cum ira. Erit mansuetudo aequivocum ad virtutem, et ad passionem oppositam irae. Si quis autem laborare vellet, cuilibet posset invenire nomen proprium).
Concordante sostanzialmente col pensiero di S. Tommaso è la teoria egidiana intorno alle Virtutes e alle Passiones. Anche il concetto che nei sovrani debbano esistere in eminentissimo grado tutte le virtù morali (Ibid., I, ps. 2, c. 31, p. 143, Quare sic decet Reges et Principes esse quasi semideos, et habere virtutes perfectas: decet eos habere omnes virtutes, quia perfecte una virtus sine aliis haberi non potest) è forse suggerito da un'espressione del filosofo d'Aquino sull'eccellenza delle buone azioni dei regnanti a Dio tanto gradite (TOM., De Regim. Princip., I, 9. Considerandum autem restat ulterius, quod et eminentem obtinebunt coelestis beatitudinis gradum, qui offìcium regium digne laudabiliter exequuntur... Est igitur excellentis virtutis bene regium officium exercere. Debetur igitur ei excellens in beatitudine praemium). La divisione delle virtù e dei vizi secondo le singole età e condizioni sociali dell'uomo, è invece ispirata dal 2° libro della Rettorica di Aristotele.
Egidio considera gli abiti morali, la vita affettiva umana come qualcosa affatto naturale, il cui superamento presuppone una forza, una perfezione che eccede le capacità dell'uomo. Richiamandosi allo Stagirita egli attribuisce questa perfezione ai Sovrani (EGIDIO, De Regim. Princip., I, ps. 2, c. 4, pag. 57. Sunt etiam quaedam bonae dispositiones, quae sunt supra virtutem, cuiusmodi est virtus divina, sive virtus heroica et superiusta, de qua determinatur 7 Eth. Nam sicut aliqui homines sunt sicut bestiae, et sunt mali ultra modum hominum: sic aliqui sunt quasi divini, et sunt boni supra modum propter quod tales supervirtuosi dici possunt. Huiusmodi autem virtutem divinam, quae est quodammodo super virtus, maxime habere debent Reges et Principes, qui (ut dictum est) semidii esse debent).
Ciò non è consono all'intezione espressa nell'inizio del lavoro di voler basare strettamente sui principi dell'Etica naturale, l'arte difficile di governare i popoli (Ibid., Prolog., pp. 1-2, de regimine Regum quemdam librum componerem, quatenus gubernatione regni secundum rationem et legem diligentius circumspecta polleretis regimine naturali). Ma il dottore agostiniano dimentica a mano a mano il suo proposito per ispirare al giovane principe atti eroici di altissime virtù cristiane. E dice fin dal principio che la felicità dei Re è da riporsi in actu charitatis per quam immediatius coniungimur ipsi Deo, nell'amore di Dio, Bonum commune (Ibid., I, ps. 1, c. 12, p. 39. Cfr. THOM., De Regim. Princip., I, cc. 7-8). E dimostrerà in seguito che l'ordine naturale s'include e si completa in quello soprannaturale, che la legge di natura ha il perfezionamento in quella del vangelo.
Il secondo libro del De Regimine Principum tratta del domestico regimine del Re in rapporto alla sua consorte, ai figli, ai servi. L'uomo è per sua natura, afferma Egidio, un essere socievole (Ibid., II, ps. 1, c. 1, p. 218. Quare si sic naturale est, hominem esse animal sociale: recusantes societatem et nolentes civiliter vivere, ut supra in primo libro tetigimus, et ut infra tangentur, quasi non vivunt ut homines), e più innanzi, ricollegandosi ad Aristotele e a S. Tommaso, dirà che è anche un "animal politicum". Sulla dottrina dell'uomo come individuo morale, cioè sulla monastica, e sulla dottrina della famiglia come base e fondamento delle comunità sociali e politiche, cioè sull'economista, egli fonda il sistema della vita politica, seguendo in ciò strettamente il filosofo di Stagira. E non identifica, come S. Tommaso, la comunità sociale con quella politica (TOM., De Regim. Princip., I, 1). In seguito però si riaccosta alla concezione tomistica per provare la necessità della vita sociale.
L'uomo ha bisogno del vitto e del vestito per vivere e delle armi per difendersi dai nemici, ma soltanto dalla società organizzata può ottenere i mezzi necessari alla propria conservazione. Non diversamente ragiona Tommaso nel capo I del De Regimine Principum. Con un concetto felice in uno scritto pedagogico, Egidio aggiunge anche la disciplina e il sermo "per quae instruitur" come bisogni naturali dell'uomo che unicamente la vita associata può soddisfare (EGIDIO ROMANO, De Regim. Princip., II, ps. I, p. 215).
(Ibid., II, 3 ps., c. 5, p. 360). Habere ergo dominium rerum exteriorum est quodammodo homini naturale: quia natura produxit hujusmodi sensibilia propter hominem. Sumus enim quodammodo nos finis omnium, ut dicitur secundo politicorum, qui ergo talibus abrenunciat, et proponit vivere absque dominio exteriorum rerum, non proponit vivere ut homo, sed eligit sibi vitam coelestem, et supra hominem.
I rapporti del Re con la propria consorte sono regolati secondo le norme del Diritto e della Disciplina matrimoniale ecclesiastica. Nella concezione aristotelica seguita dal nostro scrittore, dove la realizzazione dell'universale è un processo, uno sviluppo, la famiglia forma il primo addentellato delle più alte forme dell'organizzazione umana. Egidio tratta ampiamente anche dell'allevamento dei principi e della loro educazione scientifica, e descrive l'ordinamento degli studi che abbracciava allora le sette arti liberali e le discipline più strettamente filosofiche e le teologiche e le giuridiche (Ibid., II, 2 ps., c. 8, pp. 306-310). Tale schema di ordinamento, sebbene condotto in gran parte sulle regole esposte nella Politica aristotelica, ha per noi grande interesse. L'autore però mostra da un punto di vista tutto medioevale, un'eccessiva stima della vita contemplativa e un deprezzamento del lavoro corporale. Con S. Tommaso egli ritiene che il diritto di proprietà sia indispensabile al sostentamento materiale dell'uomo, consentaneo alla sua dignità e fondato nella stessa natura (Ibid., II, 3 ps., c. 5, pp. 359-361). Perché la società politica possa regolarmente avere il suo sviluppo e il suo perfezionamento si richiede o almeno è utile che ciascuno abbia il proprio possesso (Ibid., II, 3 ps., c. 6, pp. 361-363), e soltanto può lodarsi quella rinunzia che sia ispirata dal nobile desiderio di consacrarsi ai ministeri di religione, di abbracciare uno stato di vita moralmente più elevato. Ai rinunciatari si schiude allora un lembo di cielo in questa terra. Tra le proprietà che la famiglia può possedere vi sono anche gli schiavi. Egidio basa la schiavitù con Aristotele sul diritto naturale e su quello positivo. Oltre il servus nato (Ibid., II, 3 ps., c. 13, pp. 380-382), vi sono anche i servi in base a disposizione legale, specialmente prigionieri di guerra (Ibid., II, 3 ps., c. 14, pp. 383-384).
Ma è evidente che egli non può avere della schiavitù gli stessi concetti che gli antichi, presso i quali lo schiavo era sinonimo di res, di homo sine capite, come lo chiamava Varrone. Non invano, la predicazione cristiana aveva stabilito da tanti secoli il principio della fratellanza universale. Ma il nostro dottore, come S. Tommaso, aveva sotto gli occhi l'esempio degli aldiones o servi della gleba che in Francia al tempo dei Merovingi e dei Carolingi erano oltremodo cresciuti, e allude alla loro servitù in senso più mite, vigente nel Medio Evo, cui molti erano condannati per pena o per diritto di guerra. Tanto è vero che oltre la naturale e la giuridica, anche la servitus adducta et delectiva è menzionata (Ibid., II, 3 ps., c. 15, pp. 385-386), quella cioè che si contraeva per mercede o per affetto al padrone, che frequentemente si verificava in quei tempi e compensava il servo della diminuzione della libertà personale con la sicurezza di essere nutrito e vestito per tutta la vita, anche nella vecchiaia e nelle malattie. L'insistenza di Egidio nel difendere la naturalità e la legalità della servitù, ci fa supporre un segreto intento di polemizzare contro il principio dei giuristi romani che la schiavitù sia contro natura, perché gli uomini nascono uguali ed essa fu introdotta a beneficio della comunità per mezzo delle leggi (Inst. I, 2, 2: 3, 1-3: 1, 4: Dig. I, 5). A costoro rispondeva S. Tommaso nella Somma, che non le istituzioni dagli uomini stabilite per l'utilità comune, sono avverse alle leggi di natura, ma quelle il cui contrario è prescritto dal diritto naturale. Altrimenti anche il vestito che è stato adottato per difenderci dalle intemperie, meriterebbe la nostra condanna (Summa theol., II, 1, qu. 94, an. 5 ad tertium).
E la schiavitù non è certamente fondata sull'jus di natura (Ibid., II, qu. 64, 2: Homo est naturaliter liber et propter se ipsum existens), ma non è contro di essa né difforme dai dettami della retta ragione (Ibid., II, 2, qu. 57, 3 ad secundum). Il filosofo d'Aquino cerca un compromesso fra la concezione d'Aristotele e quella dei giuristi romani. Ma non si può disconoscere che il principio da lui propugnato dell'Uguaglianza naturale di tutti gli uomini dinanzi a Dio, stabilisca una caratteristica differenza fra la sua teoria sociale e quella di Egidio che in rapporto alla servitù si mette intieramente sul terreno della filosofia greca. Il terzo libro del De Regimine Principum tratta della natura dello stato in genere, quindi del governo degli stati in tempo di pace, ed infine della guerra e del modo di condurla. Aristotele poneva una netta distinzione tra l'organizzazione sociale e quella politica. Quest'ultima è proprio la forma peculiare della vita associata naturale all'uomo, come quella che essendo la più perfetta racchiude tutte le altre forme di società. S. Tommaso non coglie la sottile differenza fra comunità socievole e politica. Provata la naturalità della prima crede dimostrata anche quella della seconda, perché l'animal sociale è per lui equivalente all'animal politicum (THOM., De Regimine Principum, I, 1). Egidio Romano segue invece fedelmente il pensiero d'Aristotele. L'uomo è membro di due associazioni, la civile e la statale che sono indispensabili al normale svolgimento della sua vita materiale e morale. L'istituzione del linguaggio che rende possibile alle creature umane la comunicazione dei propri pensieri e quindi l'affratellamento vicendevole, prova la necessità delle due organizzazioni (EGIDIO ROMANO, De Regim. Princip., III, 1, ps. c. 4, 408-410). Ma esiste nell'uomo anche un impulso nataurale che lo spinge ad associarsi politicamente (Ibid., p. 140. Inest ergo hominibus impetus naturalis ad vivendum politice, et ad constituendam civitatem. Sed cum id, ad quod habemus impetum naturalem, sit secundum naturam, oportet civitatem esse quid naturale, vel esse aliquid secundum naturam).
Soltanto un Dio o un bruto, ripete Egidio con Aristotele, vel bestia, vel quasi Deus, idest divinus, può esser concepito nella totale solitudine. E divino, dal punto di vista medioevale, è l'anacoreta che macera le sue carni nel deserto per conquistare il regno dei cieli (Ibid., III, 1 ps., c. 3). La famiglia che forma il primo momento della gerarchia morale dell'universo, si espande nel villaggio e nella città. Aristotele non può uscire dall'antico particolarismo della vita greca, e, sebbene testimone della fondazione dell'impero macedone, limita l'umanità ai confini e alle istituzioni della πολις. Più lontano si conduce Egidio che al disopra della civitas pone il Regnum, composto di molte civitates, ultima espressione dell'organismo statale, capace di fornire il benessere al singolo e alla comunità, e specialmente adatto, per i grandi mezzi di cui dispone, alla difesa esterna (Ibid., III, 1 ps., c. 5, p. 412. Cum ergo regnum sit quasi quaedem confederatio plurium civitatum eo quod uniantur sub uno rege, cuius est quamlibet partem regni defendere et ordinare civilem potentiam aliarum civitatum ad defensionem cuiuslibet civitatis regni: si contingat eam ab extraneis impugnari, propter faciliorem defensionem et tuitionem utile fuit ex pluribus communitatibus politicis constituere communitatem unam regni).
Ma non mostra di conoscere né l'impero bizantino, né quello germanico cristiano come erede della potenza di Roma, e non esprime in nessuna maniera l'idea d'una monarchia universale che è perfettamente sconosciuta anche a S. Tommaso. Anzi il dottore domenicano assegna alla città, ripetendo macchinalmente un concetto di Aristotele senza riflettere che non conveniva alle monarchie del suo tempo, quel tanto territorio che basti a produrle tutti i mezzi di sussistenza senza che sia costretta a battere le vie terrestri e marittime del commercio (THOMAS, De Regimine Principum, II, 3. Oportet autem ut locus construendae urbi selectus non solum talis sit qui salubritate habitatores conservet, sed ubertate ad victum sufficiat ... Dignior enim est civitas, si abundantiam rerum habeat ex territorio proprio quam si per mercatores abundet).
Con più profondo pensiero la civitas del filosofo agostiniano risponde al concetto di un organismo politico che sia in grado di procacciarsi, mediante lo sviluppo della propria industria e lo scambio delle merci, i mezzi per vivere e prosperare (EGIDIO ROMANO, De Regim. Princip., III, 1, ps. c. 5, p. 411. Non sic intelligendum est, quod semper oporteat civitatem ex propriis possessionibus habere omnia quae requiruntur ad vitam: sed sufficit civitatem sic esse sitam, quod per mercationes, et ponderis portativam, et per humanam industriam faciliter habere possit sufficientia vitae).
Il principio di completa autonomia si ammette soltanto nell'amministrazione dei beni della corona, necessari al mantenimento della corte e alla vita sfarzosa del sovrano (Ibid., II, 3 ps., c. 12, pp. 379-380). E perciò il passo di Aristotele, nel primo della Politica, che la città sia la forma più alta delle organizzazioni statali, non deve intendersi in senso assoluto, ma in relazione al vicus e alla domus (Ibid., III, 1 ps., c. 1, pp. 401-403).
Passeranno alcuni anni, e nello scritto egidiano sulla politica ecclesiastica, non soltanto il regnum, ma anche e sopratutto l'imperium avrà il suo posto tradizionale nella gerarchia dei poteri civili. Lo scrittore agostiniano ritorna, nella prima parte del terzo libro, sul concetto della proprietà privata che egli fondava, come abbiamo detto, sul diritto di natura. Ora aggiunge, in perfetto accordo con S. Tommaso, che essa è necessaria alla vita politica, e dichiara inattuabili, confutandole con gli stessi argomenti di Aristotele, le teorie socialistiche e comunistiche di Platone, Falea e Ippodamo (Ibid., cc. 7-20, pp. 416-450). In un altro trattato scritto precedentemente egli aveva forse mostrato d'inclinare alla generale uguaglianza dei beni, ma ora dice che la contraddizione fra le sue antiche idee e le nuove è soltanto apparente e che in seguito scioglierà la difficoltà (Ibid., c. 18, p. 443. Meminimus tamen, nos edidisse quendam tractatum, De Differentia Ethice Rhetoricae et Politicae, ubi dicta superficialiter considerata contradicere videntur his quae nunc diximus. Sed illa controversia infra tolletur).
Invece non ne parla più. Ma lo Scholz ha creduto trovare la soluzione di questa contraddizione nel capo 33 della seconda parte, in cui è condannato del pari il pauperismo e il soverchio accentramento delle ricchezze in mano di pochi (RICHARD SCHOLZ, Die publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII in Kirchenrechtliche Abhandlungen her von Ulrich Stultz. Stuttgart, Enke 1903, pag. 69). Nella teoria della miglior forma di governo, Egidio si discosta ancora una volta da Tommaso. Ambedue i maestri sostengono che la monarchia è la preferibile delle costituzioni statali, ma l'uno, l'agostiniano, pur riconoscendo di aver contro di sè l'autorità di Aristotele (De Regimine Principum, III, 2 ps.c. 5, p. 462), inclina per il sistema ereditario (Ibid., p. 461. Quia ut plurimum homines habent corruptum appetitum, consideratis gestis et conditionibus hominum, quas experimentaliter videmus, videtur esse censendum magis espedire, regno vel civitati, ut dominus praeficiatur per haereditatem, quam per electionem), l'altro, il dottore di Aquino, non cela le sue simpatie per quello elettivo (Summa theol., I, 2, qu. 105, art. 1). Egidio però crede erroneamente di non essere in contrasto con lo Stagirita nel dare la preferenza all'autocrazia (De Regimine Principum, III, 2 ps. c. 4. Non enim intelligendum est, simpliciter fuisse de intentione Philosophi, dominium plurium esse commendabilius dominio unius, dum tamen utrumque sit rectum, cum ipse pluries dicat in eisdem politicis, regnum esse dignissimum principatum: inter principatus enim rectos, principatus unius, qui dicitur regnum, est optimus: inter perversos vero principatus, principatus unius, qui communi nomine tyrannis nuncupatur est pessimus), e gli sfugge il vero pensiero del filosofo greco che accetta la forma di un'aristocrazia καταρετήν, secondo virtù, cioè aperta alle feconde possibilità del sistema democratico (Polit., IV, 7, 1293, b. 1).
Contro la degenerazione della monarchia in governo dispotico che è il peggior dei mali e può condurre a rovina il reame meglio ordinato, il nostro scrittore ammonisce severamente. Con la guida di Aristotele egli delinea i due ritratti del monarca virtuoso e di quello tiranno (De Regimine Principum, III, 2 ps. c. 6 e c. 12). Dall'Aquinate è ispirato il suo confronto tra il regno di Dio sulla natura e quello del sovrano sul popolo, conchiuso col dire che, essendo la politica, come l'arte, un'imitazione, il Re deve uniformare il suo al governo divino (THOM., De Regimine Principum, I, 12. Hoc igitur officium Rex se suscepisse cognoscat, ut sit in regno sicut in corpore anima, et sicut Deus in mundo. EGID. ROM., De Regimine Principum, III, 2 ps. c. 8. Nam si natura tota administratur per ipsum Deum, qui est Princeps summus, et Rex regum, quo rectissime regitur universa tota natura: quare a regimine, quod videmus in naturabilibus, derivari debet regimen regum: est enim ars imitatrix naturae).
Ma Tommaso concede al popolo la facoltà di sbarazzarsi di un cattivo principe per mezzo della rivoluzione (Summa theol., II, 2, qu. 42, art. 2 ad tertium. Dicendum quod regimen tyrannicum non est iustum: quia non ordinatur ad bonum commune, sed ad bonum privatum regentis, ut patet per Phil., in 3 Polit., (cap. 5), et in 8 Etic. (cap. 10): et ideo perturbatio huius regiminis non habet rationem seditionis: nisi forte quando sic inordinate perducatur tyranni regimen, quod moltitudo subjecta maius detrimentum patitur ex perturbatione consequenti, quam ex tyranni regimine: magis autem tyrannus seditiosus est, qui in populo sibi subjecto discordias et seditiones nutrit, ut totius dominari possit), ed Egidio neanche sfiora quest'argomento per non offendere la suscettibilità del principe cui indirizzava il trattato. Al quale egli rivolge anche il consiglio di favorire le lettere e le scienze (De Regimine Principum, III, 2 ps. c. 8), necessarie al perfezionamento intellettuale della società. Sebbene questa idea sia contenuta nella Politica di Aristotele (Polit., VIII, c. 11, 1314a 14) possiamo supporre che il filosofo agostiniano, baccelliere allora dell'università parigina, abbia rivolto questa esortazione indipendentemente dallo Stagirita, traendo suggerimento dalla propria esperienza. Egli insiste anche sulla necessità della scelta di saggi consiglieri che siano di aiuto al Re nel disbrigo degli affari (III, 2 ps. c. 18). Compito principale del consiglio della corona è provvedere all'economia e alle finanze dello stato e di aver cura dell'esercito (III, 2 ps. c. 19). Sotto l'influsso aristotelico, con una sensibilità politica ammirevole per quei tempi, Egidio solleva questi problemi importantissimi che Tommaso neanche menziona. Principe e consiglieri hanno anche il dovere d'impedire i pericoli e gli errori di una legislazione arbitraria e quindi di procurare al regno la forza legale di leggi giuste e sagge. Una teoria del diritto è qui svolta che si discosta da quella di Aristotele ma si avvicina a quella dell'Aquinate.
Il quale com'è noto, cercò di armonizzare due nozioni del diritto naturale non del tutto conformi che dividevano le scuote dei giuristi del suo tempo. Mentre la prima riconosceva l'ius naturale, restringendolo agli uomini e ignorava completamente l'ius gentium, la seconda distingueva fra il diritto di natura e quello delle genti. I sostenitori dell'una vantavano l'autorità di alcuni filosofi, principalmente di Aristotele, quelli dell'altra si appoggiavano alla dottrina dei cultori del diritto canonico che a loro volta l'avevano attinta da Ulpiano (Cfr. ADRIANO BERNAREGGI. La filosofia del diritto internazionale in S. Tommaso, pag. 197 nel volume "S. Tommaso d'Aquino" pubblicato nel sesto centenario della canonizzazione a cura dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Milano, Società Editrice Vita e Pensiero, 1923).
Trovare un termine discretivo che potesse servire a differenziare l'ius gentium da quello naturale aristotelico non era impresa facile. Ma S. Tommaso nella Somma teologica, derivando dalla legge di natura il diritto delle genti come conclusione dalla sua premessa, fissò nell'ius naturale le origini dell'jus gentium (Summa theol., II, 2, qu. 57, art. 3. Ius sive iustum naturale est, quod ex sui natura est adaequatum vel commensuratum alteri. Hoc autem potest contingere dupliciter: uno modo secundum absolutam sui considerationem...alio modo... secundum aliquid quod ex ipso sequitur... Absolute apprehendere aliquid non solum convenit homini sed etiam aliis animalibus. Et ideo jus naturale secundum primum modum commune est nobis et aliis animalibus. A jure autem naturali sic dicto recedit ius gentium... quia illud omnibus animalibus, hoc solum hominibus inter se oommune est. Considerare autem aliquid comparando ad id quod ex ipso sequitur est proprium rationis et ideo hoc idem est naturale homini secundum rationem naturalem quae hoc dictat. E nella 1.a 2.ae, qu. 95, art. 4. S. Tommaso svolge lo stesso concetto, derivando l'jus gentium dalla legge naturale "sicut conclusiones ex principiis". Cfr. ADRIANO BERNAREGGI, loc. cit., pag. 199).
Da questa concezione prende le mosse Egidio per svolgere con chiarezza e acume la sua teoria, risalendo nella storia del diritto sino agli antichi. Aristotele divise l'ius in scriptum, e non scriptum, commune e proprium, natumle e legale o positivum, i giuristi romani in naturale, gentium e civile. Facendo tesoro di queste classificazioni, il nostro dottore distingue l'ius naturale, jus animale, gentium e civile (De Regimine Principum, III, 2 ps. c. 24. Possumus autem tam de lege quam de iusto quinque distinctiones facere, quarum duae tangantur 1, Reth. tertia ponitur 5. Ethic. quarta traditur a Iuristis, quintam nos ipsi superaddere possumus. Distinguitur enim jus, quia quoddam est scriptum et quoddam non scriptum: quoddam est commune, quoddam proprium: quoddam est naturale, quoddam legale sive positivum. Has autem tres distinctiones juris Phil. tradidit: sed iuristae quarto modo jus distinxerunt, dicentes quod est quoddam jus naturale, quoddam jus gentium, et quoddam civile. Illo ergo modo quo iuristae separant jus naturale a jure gentium, possumus separare nos jus naturale a jure animalium: et dare quintam distinctionem juris, dicendo quod quadruplex est jus, videlicet naturale, animalium, gentium et civile), e due leggi, la naturalis, cui applica la definizione aristotelica del giusto, id ad quod hominem natura inclinat, e la positiva che ha l'origine dal pactum o institutio hominum, derivando ambedue le leggi dal duplex iustum naturale e legale che egli trovava nell'Etica Nicomachea (Ibid. Distinctiones quas fecimus de jure sive de iusto, facere possumus de ipsa lege. Ut ergo haec omnia melius patefiant et ut has diversitates ad concordiam reducamus, sciendum quod duplex est lex naturalis et positiva. Dicuntur iusta naturalia, quae sunt adaeguata et proportionata, ex natura sua, vel dicuntur iusta naturaliter quae dictat esse talia ratio naturalis, vel ad quae habemus naturalem impetum et inclinationem. Iusta vero positiva dicuntur, quae non ex natura sua, sed ex pacto hominum vel ex institutione iusta iudicantur).
L'ius naturale che abbraccia la somma di tutte le relazioni del diritto poggianti sugli istinti naturali, conserva il suo nome se questi ultimi sono comuni a tutti gli esseri viventi, ma si appella jus gentium se le inclinazioni sono limitate alla natura dell'uomo (Ibid. c. 25. Si igitur ea sunt de jure naturali, ad quae habemus naturalem impetum et inclinationem: huiusmodi naturalis impetus vel sequitur naturam nostram, ut sumus homines, et ut differimus ab animalibus aliis, et tale jus appellatur jus gentium. Si vero inclinatio illa sequatur naturam nostram, ut convenimus cum animalibus aliis, sic dicitur esse jus naturale). E al disopra di questi diritti vi è ancora un terzo speciale jus naturale che riguarda gl'istinti che noi abbiamo comuni non soltanto con gli altri animali, ma con tutti gli esseri, quali sarebbero la tendenza al bene, la repugnanza al male e molti altri (Ibid. Sed si ut convenit cum omnibus entibus, sic habet esse jus illud, quod per antonomasiam dicitur esse naturale. Appetere enim esse et bonum, et fugere non esse et malum, quod naturaliter appetimus, prout natura nostra convenit cum omnibus entibus, sic est de jure naturali: a quo caeterae aliae regulae, et caeterae leges, sive sint naturales sive civiles, summunt originem, et in eo fundantur; nam in omnibus attenditur vel consecutio boni vel fuga mali).
Anche da questa sommaria esposizione si può comprendere la profonda cultura giuridica del filosofo agostiniano. Da nessun autore medioevale è così nettamente separato come da lui l'jus gentium come parte del diritto naturale dal diritto positivo e civile. Egidio vuole anche nuovamente discutere la questione aperta da Aristotele se la comunità sia meglio governata da un eccellente signore oppure da una buona legge. Il filosofo antico l'aveva risoluta nel senso favorevole alla legge, ma il nostro scrittore distingue fra la lex naturalis e quella emanata dagli uomini: soltanto la prima può essere l'autorità decisiva, l'altra, anche se giusta, ha sempre meno valore del giudizio di un virtuoso monarca (Ibid. c. 29. Si loquamur de lege naturali patet hanc principaliorem esse in regendo, quam sit ipset Rex: eo quod nullus sit rectus Rex nisi in quantum innititur illa lege ... Sed si loquamur de lege positiva melius est regi optimo Rege quam optima lege).
Inoltre tutte le leggi, positive e naturali, devono essere completate e perfezionate da quella divina ed evangelica (Ibid. c. 30), di cui naturalmente depositaria ed interprete è la Chiesa, potenza spirituale. E così l'intiero ordinamento degli interessi terreni e temporali della umana società deve tendere a Dio penetrandosi dello spirito cristiano. Negli ultimi cinque capitoli della seconda parte del terzo libro Egidio riepiloga le sue vedute sull'ideale di uno stato. Il modello di organizzazione politica che egli vuole indicare all'erede del trono di Francia, è pur sempre medioevale. Ma qua e là affiorano idee, come abbiamo veduto, che precorrono i tempi. Anche in questi capitoli egli esprime concezioni degne di rimarco. Come quando, sotto l'influsso aristotelico, pronunzia la richiesta di una restrizione nella libertà di alienazione delle eredità per impedire l'accentramento delle ricchezze, motivando la sua proposta dal fatto che più felice è lo stato quando più numerosa è la classe delle persone moderatamente agiate, cui il Re deve largire preferibilmente i suoi favori (Ibid. c. 33). Nell'ultima parte del terzo libro Egidio tratta diffusamente del governo della civitas in tempo di guerra ed espone ampiamente il modo di armare gli eserciti, fortificare le città, condurre le operazioni militari. Ma la sua dottrina intorno a questi soggetti è appresa dalla lettura degli scritti di Vegezio e non ha per noi grande interesse. La base dottrinale del De Regimine Principum è, come abbiamo veduto, aristotelico-tomista. Pochi anni avanti la pubblicazione di questo trattato, Tommaso di Aquino aveva scritto anch'egli un'opera con lo stesso titolo che non protrasse, secondo il giudizio quasi unanime degli storici moderni, oltre il capo quarto del secondo libro. Il completamento dell'opera è attribuito al suo discepolo Bartolomeo da Lucca. Egidio Romano che aveva seguito a Parigi i corsi di lezioni dell'Aquinate non poteva ignorare questo lavoro del suo maestro. E perciò crediamo opportuno insistere ancora sul raffronto dei due trattati, dei quali mostrammo già le concordanze e le divergenze. E' certo per noi che mentre l'agostiniano attingeva nei primi libri dell'opera tomistica, il continuatore di S. Tommaso abbia conosciuto e a sua volta adoperato i trattati politici del nostro filosofo. Non ci sembra infatti casuale che, mentre nei primi due libri del "De Regimine" pubblicato con il nome dell'Aquinate, l'argomento svolto riguardi il governo della civitas, nel terzo si cambi bruscamente il piano del lavoro e si tratti della monarchia universale spirituale che fu presa a soggetto da Egidio nel "De Potesate Ecclesiastica". Ancora più visibile è l'influsso egidiano nel 4° libro dove si prosegue l'esposizione delle diverse specie dei Regimina del 3° libro, si definisce il Regimen Politicum e si combattono, a somiglianza di quanto ha fatto il dottore eremitano, le teorie politiche e sociali di Socrate, Platone e Ippodamo.
Una differenza fra i due scrittori l'abbiamo trovata nel modo di valutare le forme di governo. Mentre nelle parti principali dell'opera tomistica si rileva una certa predilezione per le libere istituzioni politiche, nel trattato di Egidio è chiaramente manifestata la preferenza per le monarchie ereditarie e per i governi aristocratici. Forse il fatto si può spiegare pensando ai diversi paesi nei quali i due scrittori componevano i loro trattati. S. Tommaso scriveva probabilmente in Italia, terra dei liberi stati retti a repubblica che furono per tutto il Medio Evo il centro della storia europea; l'altro, Egidio, sebbene italiano, trasferitosi sin dall'infanzia a Parigi, si era imbevuto delle idee dominanti in quella nazione governata da un Re assoluto, agitata dal miraggio imperialistico di un'egemonia sull'Europa. Molti anni dopo il grande filosofo tornava a trattare di politica nel "De Potestate ecclesiastica", ma le sue idee erano intieramente cambiate. Pochi esempi ci offre la storia di così radicale mutamento d'indirizzo intellettuale. La base aristotelico-tomista fu totalmente abbandonata ed Egidio s'ispirò alle concezioni agostiniane e gregoriane. Ma prima di passare all'analisi della seconda opera dell'insigne agostiniano, dobbiamo dare uno sguardo, sia pur fugace, al pensiero politico del suo tempo, quale l'hanno a noi tramandato i trattatisti dell'epoca.