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Percorso : HOME > Opera Omnia > Dialoghi > De Ordineopera omnia di sant'agostino: DE ORDINE
Agostino vescovo
DE ORDINE
libro secondo
LA RAZIONALITÀ CHE DIPENDE DALL'UOMO
La razionalità nella vita (1, 1-8, 25)
a) Razionalità nella vita del saggio (1, 1 - 3, 10)
Riprende la disputa ed è presente la madre.
1. 1. La razionalità nella vita (1, 1-8, 25)
Dopo pochi giorni tornò Alipio. S'era levato un sole splendente. La serenità del cielo e la mite temperatura, quale poteva darsi d'inverno in quei luoghi, ci invitò a scendere nel prato. Lo facevamo spesso per abitudine. C'era anche mia madre. Ne avevo già notato, a causa della lunga convivenza e di una continua attenzione, le belle doti e l'anima ardente per le cose di Dio. Ma durante una disputa importante che ebbi con i miei commensali nel mio genetliaco e che ho raccolto in un opuscolo mi si manifestò la sua intelligenza in maniera tale da farmi ritenere che non ve n'era altra più idonea al vero filosofare. E poiché non aveva preoccupazioni avevo fatto in maniera che non mancasse al nostro colloquio. D'altronde ne sei già stato informato nel primo libro di quest'opera.
La legge razionale è da Dio ...
1. 2. Seduti che fummo nel luogo suddetto, più comodamente che potemmo, mi rivolsi ai due giovanetti: "Mi sono adirato con voi che avete trattato argomenti importanti con fanciullesca immaturità. Tuttavia mi pare che col favore divino il fatto non è avvenuto casualmente. Col discorso di rimprovero alla vostra leggerezza è stato impiegato del tempo sicché sembra quasi che un argomento tanto importante sia stato differito proprio per il ritorno di Alipio. Gli ho già esposto la discussione avuta e i risultati da noi conseguiti. Quindi, o Licenzio, sei pronto a difendere la causa che hai cominciato a patrocinare con la tua definizione? Per quanto mi pare di ricordare, hai detto che razionalità è il principio secondo cui Dio muove l'universo". "Son pronto secondo le mie forze", rispose. "In qual maniera, chiesi, Dio muove l'universo? Anche egli si muove secondo razionalità ovvero secondo razionalità muove tutti gli altri esseri fuor di se stesso?". "Dove si ha pienezza di bene, rispose, non c'è legge. V'è infatti somma eguaglianza che non esige affatto ordinamento razionale". "Non neghi, chiesi, che in Dio c'è pienezza di bene?". "No", rispose. "Ne consegue, incalzai, che né Dio né i suoi attributi rientrano nella legge razionale". Lo ammise. "E riterresti forse, soggiunsi, che la totalità del bene sia da considerarsi un nulla?". "Anzi, rispose, essa soltanto è fuori del divenire". "Quale senso ha allora, chiesi, che l'universo è mosso al fine e che nulla v'è che sia fuori dell'ordinamento?". "Ma si dà, rispose, anche il male e per esso avviene che l'ordinamento includa anche il bene. Il bene come tale non soggiace a legge, ma insieme il bene e il male. Quando diciamo l'universo, non intendiamo soltanto il bene. Ne consegue che l'universo intiero che Dio dirige al fine è diretto al fine mediante legge razionale".
... quindi l'uomo è nella razionalità se è con Dio.
1. 3. Gli chiesi: "Ritieni che gli esseri diretti e mossi al fine sono soggetti ovvero non soggetti a divenire?". "Ritengo, rispose, che gli esseri generati in questo mondo sono soggetti a divenire". "Il resto no?" chiesi. Gli esseri che sono con Dio non sono nel divenire, mi rispose; tutto il resto, penso, è soggetto a divenire". "Allora, obiettai, ritieni che gli esseri che sono con Dio non son soggetti a divenire e ammetti che il resto diviene. Così stai affermando che tutti gli esseri soggetti a divenire non sono con Dio". "Ripeti, mi pregò, lo stesso concetto in forma più comprensibile". Ebbi l'impressione che esprimesse il suo desiderio non perché mosso dall'esigenza di capire ma di prender tempo per trovare la risposta. "Hai detto, ripetei, che gli esseri con Dio non sono soggetti a divenire e che il resto diviene. Dunque gli esseri che divengono non sarebbero tali se fossero con Dio. E poiché affermi che gli esseri con Dio non sono soggetti a divenire, ne consegue che gli esseri che divengono sono fuori di Dio". Dopo queste parole continuò a tacere. Alfine disse: "Ritengo che, se in questo mondo si diano esseri non soggetti a divenire, essi sono con Dio". "Non m'interessa, risposi. Vuoi ritenere, a mio avviso, che alcuni esseri di questo mondo non sono soggetti a divenire. Ne consegue che non tutti gli esseri di questo mondo sono con Dio". "Lo ammetto, non tutti", rispose. Dunque v'è qualche cosa fuori di Dio", obiettai. "No", protestò. Dunque tutto è con Dio". Un po' perplesso replicò: "Scusa, non ho inteso dir questo poiché nulla è fuori di Dio". "Dunque, obiettai, il cielo visibile è fuori di Dio dal momento che nessuno dubita del suo muoversi". "Il cielo, rispose, non è fuori di Dio". "Dunque qualche cosa soggetto al divenire è con Dio". "Non posso spiegare, protestò, il mio pensiero come vorrei. Chiedo tuttavia che comprendiate, con la maggiore intelligenza possibile, i concetti che intendo esprimervi senza soffermarvi sulle parole. Opino che nulla è fuori di Dio e nello stesso tempo ritengo che non soggiace a cambiamento ciò che è con Dio. Non posso affermare che il cielo è fuori di Dio non solo perché ritengo che nulla è fuori di Dio, ma anche perché sono d'avviso che il cielo ha una parte fuori del divenire che forse è Dio stesso, o per lo meno è con Dio, sebbene non ho dubbi nell'ammettere i giri e i movimenti del cielo".
Essere con Dio e conoscere Dio.
2. 4. "Definisci allora, gli dissi, per favore che cosa significa essere con Dio e che cosa non essere fuori di Dio. Se il nostro dissenso dipende dalle parole, sarà facilmente superato, purché possiamo comprendere il tuo concetto". "Son contrario a far definizioni", mi disse. "Che fare allora?" replicai. "Definisci tu, te ne prego, mi disse. È più facile per me rilevare nella definizione di un altro motivi che non approvo anziché chiarire il mio concetto con una buona definizione". "Farò come vuoi, dissi. Ritieni che è con Dio tutto ciò che è da lui mosso e diretto al fine?". "Non intendevo dir questo, mi rispose, quando affermavo che gli esseri non soggetti a divenire sono con Dio". "E adesso dimmi, soggiunsi, se ti va a genio questa definizione: è con Dio ogni essere che lo conosce". "D'accordo", mi rispose. "E allora, replicai, non ritieni che il filosofo conosce Dio?". "Si", ammise. "Quando allora i filosofi si muovono non solo entro una casa o una città, ma viaggiano per terra o per mare in regioni molto estese, in qual senso è vero che l'essere con Dio non si muove?". "Mi fai ridere, motteggiò, quasi avessi detto che sono con Dio le azioni del filosofo. È con Dio soltanto il contenuto del suo pensiero". "Allora il filosofo, soggiunsi, non conosce il suo libro, il mantello, la tunica, la suppellettile, se la possiede, e altre cose del genere che anche gli indotti conoscono bene?". "Ma io ritengo che la conoscenza della tunica e del mantello non è con Dio".
L'interiorità e l'essere con Dio del filosofo-saggio.
2. 5. "In definitiva, spiegai, tu vuoi dire che non ogni pensiero del filosofo è con Dio, ma che oggetto del pensiero del filosofo è tutto ciò che del filosofo è con Dio". "Giusto, rispose; infatti tutto ciò che conosce col senso non è con Dio, ma soltanto ciò che si rappresenta col pensiero. Forse sarò audace nel mio dire, ma lo dirò egualmente. Con voi quali giudici o contribuirò ad accertare il tema o imparerò. Ritengo che l'individuo il quale conosce soltanto i sensibili non solo non è con Dio, ma neanche con la propria interiorità". Mi accorsi che Trigezio aveva un'espressione, dalla quale mostrava di voler dire non saprei che cosa, ma era trattenuto dal timore d'entrare, per così dire, in casa d'altri. Lo autorizzai, poiché Licenzio aveva finito di parlare, a manifestare il proprio pensiero. "Sarei d'opinione, disse, che non si ha conoscenza dell'oggetto sensibile. Altro è avere sensazione e altro avere conoscenza. Pertanto se abbiamo conoscenza di un oggetto, penso che è contenuto del solo pensiero e che soltanto da esso può essere rappresentato. Ne consegue che se è con Dio l'oggetto che il filosofo conosce mediante pensiero, tutto ciò che il filosofo conosce possa essere con Dio". Licenzio approvò ed aggiunse un altro motivo che per nessuna ragione potrei riprovare. "Il filosofo, soggiunse, è con Dio poiché ha coscienza della propria interiorità. Risulta dal motivo da te espresso che l'essere il quale conosce Dio è con Dio, e dall'altro motivo accertato da noi due risulta che è con Dio l'oggetto di cui il filosofo ha pensiero. Per la parte poi della sua natura per cui soggiace al sensibile non so nulla e non saprei proprio che cosa pensare. Ritengo comunque che non va presa in considerazione quando parliamo del filosofo".
Senso, pensiero e memoria nel filosofo.
2. 6. "Tu dunque verresti a negare, intervenni io, che il filosofo non solo è composto di anima e di corpo, ma anche dell'anima con tutte le sue funzioni. Sarebbe infatti da pazzi negare che è dell'anima la parte per cui egli è capace di sensazione. Non l'udito e la vista sono soggetti senzienti, ma non saprei quale principio è soggetto senziente mediante la vista. E se non riferiamo la sensazione alla facoltà di pensare, rischiamo d'escluderla dall'anima. Rimarrebbe d'attribuirla al corpo, ma ritengo che non si dia affermazione più assurda". "L'anima del filosofo, intervenne Licenzio, resa pura per la presenza della virtù e unita a Dio, è anche degna di essere considerata come filosofante, e non v'è altro di lui che si è convinti di considerare filosofante. Ma il filosofo si è liberato, per così dire, come di spoglie e di scorie e si è ritirato nella propria interiorità. Ed esse sono soggette all'anima o, se sono da considerare parti integranti dell'anima, sono soggette e sottomesse a quella parte dell'anima che sola si può considerare come filosofante. Alla parte soggetta, a mio parere, appartiene anche la memoria. Difatti il filosofo se ne serve come di uno schiavo, le impartisce ordini e, considerandola sottomessa, le impone i limiti della legge. E quando essa si serve dei sensi per esigenze proprie e non per quelle del filosofo, non deve osare d'innalzarsi e inorgoglirsi contro chi ha il dominio né usare a caso e senza moderazione di quegli stessi poteri che le competono. Alla parte più bassa appartengono le cose che sono nel divenire. E la memoria appunto serve soltanto alle cose mutevoli, anzi fuggevoli. Il filosofo dunque si unisce a Dio e si sente felice in lui che è immutabile, di cui non si attende l'apparire, non si teme lo scomparire, che è sempre presente per il fatto stesso che è fuori del divenire. E il filosofo, quieto nella sua interiorità, amministra, per così dire, il peculio del suo schiavo affinché come servo moderato e diligente ne usi bene e lo conservi per l'opportunità".
La memoria come rimembranza nella missione del filosofo.
2. 7. Prestai attenzione all'esposizione di Licenzio con meraviglia perché mi ricordai di avere, tempo addietro, esposto brevemente gli stessi concetti alla sua presenza. Dissi ridendo: "O Licenzio, ringrazia questo tuo schiavo perché se non ti avesse rifornito del suo peculio, ora forse non avresti nulla da darci. Infatti se la memoria appartiene a quella parte che si lascia dirigere come serva da retta ragione, adesso proprio da essa, credimi, sei stato aiutato a dire quel che hai detto. Dunque prima di tornare all'ordine, non ti pare che la memoria è indispensabile al filosofo anche per le discipline liberali e professionali?". "Perché, rispose, gli sarebbe indispensabile la memoria se ha in atto e tiene presenti tutte le sue idee? Non chiamiamo in aiuto la memoria neanche nella sensazione per l'oggetto che è davanti ai nostri occhi. Ora il filosofo ha tutto davanti agli occhi interiori della mente, ha cioè visione sempre in atto e immutabile di Dio, nel quale risiede la totalità dell'intelligibile. Come dunque, scusa, gli è indispensabile la memoria? A me è stata necessaria per ritenere le parole udite da te perché non sono ancora padrone di un tale servo, ma ora sono io a servirla, ora m'impegno a non servirla e oso talora quasi affermare la mia piena autonomia. Talvolta riesco anche a dominarla ed essa mi obbedisce e mi fa spesso credere che l'ho vinta. Ma di nuovo in altre circostanze si ribella ed io giaccio vinto sotto i suoi piedi. E per questo desidero che tu, quando indaghiamo sul filosofo, non mi chiami in causa". "Me neanche, risposi. Ma il filosofo può trascurare i suoi amici ovvero, mentre è in questo corpo, in cui tiene legato con la legge della ragione questo suo servo, può trascurare il dovere di aiutare quanti gli è possibile e soprattutto d'insegnare a filosofare? È l'opera appunto che massimamente da lui ci si aspetta. E quando la compie, per insegnar bene e non apparire un incapace, dispone volta per volta dei pensieri da esporre e trattare con ordine. E se non li affida alla memoria, è ineluttabile che vadano perduti. Quindi o affermi che non spettano al filosofo i doveri d'umanità o dovrai ammettere che alcune nozioni dovranno essere ritenute nella memoria del filosofo. E forse affida al servo parte dei suoi pensamenti, non per una sua esigenza ma perché gli sono indispensabili per i suoi alunni. E quegli sottomesso, anche a causa dell'autorità ottimamente esercitata dal padrone, custodirà, se non altro per indurre gli ignoranti al filosofare, ciò che comunque il padrone gli ordinerà di tenere in serbo". "Il filosofo, contestò Licenzio, non gli affiderà nulla perché è sempre fisso in Dio tanto nella solitudine che nel colloquio con gli altri uomini. Ma lo schiavo ormai bene istruito tiene in serbo qualche elemento da suggerire al padrone che disputa e per render gradito il proprio dovere a lui, giusto padrone, poiché si accorge che vive in virtù del suo potere. Tuttavia non compie tale funzione con procedimento razionale proprio, ma in forza delle disposizioni di una legge e ragione sovrana". "Per adesso, conclusi, non ribatto i tuoi ragionamenti perché si deve continuare l'argomento iniziato. In altra occasione, quando Dio ci concederà un momento propizio, esamineremo i termini di tale problema. Non è infatti un problema di poco conto da trattarsi in così brevi parole.
È in Dio il non pensato? Impossibilità di concettualizzare l'ignoranza.
L'ignoranza è il non pensiero.
3. 8. È stato definito che significa essere con Dio. Da me è stato detto che è con Dio l'essere che ne ha conoscenza. Voi avete aggiunto che vi è anche l'oggetto della conoscenza del filosofo. Ed in proposito mi pare assurda l'affermazione con cui, senza avvedervene, avete posto in Dio anche l'ignoranza. Difatti se in Dio sono i contenuti del pensiero del filosofo e questi non può sfuggire all'ignoranza se non la conosce, ne consegue che in Dio v'è un simile limite. Ed è bestemmia a dirlo". Preoccupati della conclusione se ne stettero un po' in silenzio. Poi Trigezio disse: "Partecipi al dialogo anche quegli del cui arrivo a questa disputa noi, come penso, ci siamo rallegrati". "Dio mi aiuti, disse Alipio. Il mio lungo silenzio doveva aspettarsi un simile risultato. Ma ormai la tregua è rotta. Comunque ora mi sforzerò di rispondere in qualche maniera a questa domanda dopo essermi assicurato in precedenza almeno per il futuro e dopo avere ottenuto da voi che da me esigiate soltanto questa risposta". "Non conviene, o Alipio, gli dissi, alla tua benevolenza e cortesia rifiutare la tua parola in questa nostra discussione anche perché è richiesta. Ma ora comincia e dì ciò che hai stabilito. Il resto seguirà nei termini preordinati dalla legge razionale". "Per giustizia, rispose, dalla legge razionale mi sarei aspettato un trattamento migliore. Al contrario avete deciso che frattanto io vi sostituisca nell'esporla. Salvo errore, hai affermato con questa tua dimostrazione che costoro abbiano associata a Dio l'ignoranza con l'affermazione che tutti i contenuti del pensiero del filosofo sono con Dio. Per ora passo sopra all'interpretazione da darsi a tale affermazione. Piuttosto considera alquanto la tua dimostrazione. Hai detto: Nell'ipotesi che con Dio sia l'oggetto del pensiero del filosofo e che questi non possa sfuggire all'ignoranza se non la conosce. Al contrario è evidente che non si può onorare del nome di filosofante l'individuo prima che abbia superato l'ignoranza. È stato inoltre detto che l'oggetto della conoscenza del filosofo è con Dio. Dunque, quando uno ha coscienza d'ignoranza al fine di superarla, ancora non è filosofo. Quando sarà divenuto filosofo, l'ignoranza non deve essere annoverata fra i contenuti del suo pensiero. E poiché il già pensato dal filosofo è congiunto a Dio, giustamente la privazione di scienza non viene attribuita a Dio".
9. - "O Alipio, gli dissi, hai risposto con acutezza come al solito, ma alla stregua di chi s'è cacciato nelle difficoltà altrui. Penso tuttavia che ancora non disdegni di essere come me fra gli ignoranti. E allora perché non trovare un filosofo che, insegnando e disputando, con umanità ci liberi da tanto male? Non gli chiederò altro dapprima, come suppongo, se non che mi mostri l'entità, la natura e le proprietà dell'ignoranza. Su di te non mi pronuncerei tanto facilmente. In quanto a me, essa mi trattiene tanto e da tanto, quanto e da quanto io non riesco a capire. Tu interpellerai quel filosofo ed egli dirà: "Perché vi potessi insegnare, dovevate venire da me quando ero ancora ignorante. Ora dovete essere maestri di voi stessi perché non so più che cos'è ignoranza". Se udissi tali parole, non mi periterei d'avvertire simile individuo a farsi nostro compagno e a cercare insieme un altro maestro. Anche se non so chiaramente che cos'è ignoranza, comprendo che tale risposta è indice della massima ignoranza. Ma forse si vergognerà tanto di abbandonarci quanto di seguirci. Allora comincerà ad esporre e accumulerà in abbondanza i mali dell'ignoranza. E noi preoccupati per noi stessi, o ascolteremo attentamente un individuo che non sa quel che dice, o crederemo che egli ha scienza di qualche cosa che non è oggetto del suo pensiero, o infine, secondo la dimostrazione dei tuoi patrocinati, che l'ignoranza è congiunta a Dio. Nessuna delle prime due affermazioni può essere sostenuta. Rimane l'ultima che a voi non piace". "Non mi sono mai accorto, rispose, che sei invidioso. Se infatti, secondo l'uso, avessi ricevuto da costoro, che tu definisci patrocinati, il dovuto onorario, sarei costretto a renderlo subito poiché tu insisti eccessivamente nel ribattermi. Quindi si contentino del fatto che discutendo con te ho accordato loro parecchio tempo a riflettere. Se poi vogliono ascoltare il consiglio del loro avvocato sconfitto senza sua colpa, si arrendano a te anche su questo argomento, e siano più cauti negli altri".
9. 10. "Non trascurerò, risposi, il non so che Trigezio, durante la tua arringa, mostrava di voler dire perfino agitandosi. Cercherò di ascoltarli pazientemente, come avevo cominciato, mentre senza difensore sosterranno la propria causa. Te ne chiedo licenza poiché tu, che da poco hai preso parte alla discussione, non ne sei informato". Licenzio era completamente distratto. Intervenne allora Trigezio: "Prendetevela come volete e fatevi pure gioco della mia ignoranza. Ritengo che non si deve considerar pensiero l'atto con cui si pensa l'ignoranza. Essa è appunto la sola o per lo meno la più grande responsabile del non pensare". "Non m'è facile, io risposi, rifiutarmi di prendere in considerazione codesta affermazione. Mi convince la tesi di Alipio sull'impossibilità che un individuo possa insegnare le proprietà d'un concetto che non è oggetto del suo pensiero. Infatti quel qualcosa che non è oggetto del suo pensiero è negazione del suo pensare. Anche Alipio, tenendo presente il motivo, non ha osato esporre la tesi da te sostenuta sebbene gli fosse nota dai libri dei filosofi. Prendo l'esempio dal senso poiché è strumento dell'anima ed in essa, unico soggetto, ha una certa analogia col pensiero. Dico dunque che è impossibile vedere le tenebre. Ora il pensare è per l'intelligenza ciò che il vedere per la vista. Ma è impossibile vedere le tenebre anche se si hanno gli occhi aperti, sani e limpidi. Quindi non è assurdo dire che l'ignoranza non si può pensare poiché non v'è altro che noi possiamo denominare tenebre dell'intelligenza. Ed ora non mi preoccupa più la possibilità d'evitare l'ignoranza anche se non è oggetto di pensiero. Per quanto riguarda la vista, evitiamo le tenebre per il fatto stesso che vogliamo vedere. Allo stesso modo chi vorrà evitare l'ignoranza non si sforzi di farla oggetto di pensiero, ma si dolga che, per causa sua, non pensa ciò che può pensare e si renda cosciente che essa gli è presente non perché la pensa di più, ma perché pensa di meno.
b) La vita dell'insipiente e altri irrazionali ricondotti a razionalità (4, 11 - 5, 17)
Anche la vita dell'insipiente rientra nella razionalità.
4. 11. Ma torniamo alla razionalità con la speranza che Licenzio torni in mezzo a noi. Vi chiedo adesso se ritenete che le azioni dell'insipiente siano compiute secondo una legge razionale. Ma badate che la domanda è insidiosa. Se risponderete affermativamente e cioè che le azioni dello stolto son compiute secondo razionalità, a che serve la definizione che razionalità è il principio per cui Dio dirige tutti gli esseri? Se poi non c'è razionalità nelle azioni dello stolto, vi sarà qualche cosa che non rientra nella legge razionale. Voi non ammettete né l'una né l'altra tesi. State attenti, vi prego, a non irrazionalizzare tutto nel tentativo di difendere la razionalità". Intervenne ancora Trigezio. L'altro era tuttora distratto. "È facile, disse, rispondere al tuo dilemma, ma per il momento mi manca la similitudine con cui noto che la mia teoria dovrebbe essere chiaramente esposta. Dirò egualmente il mio pensiero. Tu in seguito completerai come hai fatto dianzi. L'analogia delle tenebre ci ha chiarito non poco quanto era stato da me esposto in forma confusa. La vita degli insipienti non è resa coerente e razionalizzata da loro stessi. Tuttavia dalla divina provvidenza viene fatta rientrare nell'inderogabile ragione sufficiente e, per così dire, mediante disposizione di determinate situazioni dovute a una legge ineffabile ed eterna, in nessuna maniera le si permette di essere dove non deve essere. Avviene così che chi unilateralmente la considera isolata, come respinto da una visione orrida, ne ha ribrezzo. Ma se, alzando gli occhi e facendoli spaziare, ha uno sguardo d'insieme dell'universo, troverà tutto razionale, distribuito e ordinato al dovuto posto".
Altri irrazionali della vita.
4. 12. "Quante grandezze, dissi, quante meraviglie Dio e la stessa, non saprei quale, occulta legge razionale dell'universo mi manifesta per vostro mezzo! Sono indotto ormai a credervi sempre di più. Esprimete infatti certi pensieri ed io non saprei proprio come possiate esprimerli senza intuizione né come possiate averne intuizione, tanto, come suppongo, sono veri e sublimi. Tu richiedevi, mi pare, una similitudine in prova di codesta tua teoria. Me ne vengono in mente molte che mi convincono ad accettarla. Che cosa v'è di più cupo di un carnefice? Che cosa di più truce ed efferato della sua mentalità? Tuttavia ha un posto indispensabile fra le leggi e rientra nell'ordinamento di uno Stato ben governato. E sebbene nel proprio animo faccia del male, è tuttavia la pena dei malfattori per ordinamento a lui estraneo. Che cosa di più sconcio, di più vuoto di dignità, di più colmo d'oscenità delle meretrici, dei ruffiani e simile genia? Eppure togli via le meretrici dalla vita umana e guasterai tutto col malcostume. Mettile al posto delle donne oneste e disonorerai tutto con la colpa e la vergogna. E così tale genia di persone, a causa dei propri costumi, è la più laida nella vita, per disposizione di legge la più bassa di condizione. Non avviene che se consideri a parte certi organi nel corpo degli animali, ti rifiuti quasi di guardarli? Tuttavia la legge naturale ha disposto che non manchino perché sono necessari, ma non ha permesso che apparissero di troppo perché non soli belli a vedersi. E queste parti deformi, occupando il posto competente, hanno lasciato il migliore alle parti più degne. Quale fenomeno più bello, quale spettacolo più conveniente alla vita in campagna fu per noi di quello della zuffa e della lotta dei galli? Ne abbiamo parlato nel primo libro. E che cosa abbiamo osservato di più avvilito della difformità del vinto? Ma per suo mezzo s'era ottenuta la perfetta armonia della zuffa stessa.
Significato dell'irrazionale nel discorso.
4. 13. Così sono tutte le cose, a mio avviso. Bisogna saperle osservare. I poeti hanno usato solecismi e barbarismi e hanno preferito, cambiando i nomi, denominarli figure e trasformazioni anziché evitarli come difetti evidenti. Tuttavia levali dalla poesia e noi risentiremmo della mancanza di suggestive eleganze. Imbastiscine in abbondanza in un solo discorso ed io avrò in uggia l'intera composizione perché immatura, frivola e affettata. Trasportali nella prosa forense e chi non le ordinerà di fuggire e di rifugiarsi in teatro? La legge razionale, che ne regola e modera l'uso, non ne permette né la ridondanza in sé né l'impiego in qualsiasi discorso. Un certo linguaggio dimesso e vicino al trasandato, avvicendandosi, pone in evidenza le espressioni sublimi e i passi leggiadri. Se è soltanto dimesso, lo butti via perché trascurato. Se manca, le parti belle non sono poste in evidenza, non signoreggiano, per così dire, nei rispettivi posti e competenze, si contrastano a vicenda col proprio splendore e rendono l'insieme disarmonico.
5. All'armonia si è debitori in un altro punto. Chi non teme, chi non detesta i paralogismi e sofismi che per eccesso o per difetto inducono all'errore? Ma, durante le dispute, collocati nei posti convenienti e propri hanno tanta validità che, non so come, l'inganno stesso ne assume leggiadria. Ed anche qui è l'ordine che si fa ammirare.
Dall'insipienza si emerge con le discipline ...
5. 14. Nella musica poi, nella geometria, nell'astronomia, nelle leggi aritmetiche l'armonia è sovrana. E se qualcuno ne vuol vedere, per così dire, la sorgente e il recesso o li trova in esse o, mediante esse, senza errore v'è condotto. Tale cultura, se si usa nella giusta misura, poiché anche qui il troppo si deve evitare, nutrisce un gregario, anzi un condottiero del filosofare. Ed egli potrà elevarsi liberamente e giungere alla misura ideale, al di là della quale non può, non deve, non desidera ricercare altro. E a molti farà da guida. Quindi, anche se è preso dalle preoccupazioni della vita, le disprezza e dà ad ogni cosa il giusto posto e non lo turba affatto se uno desidera aver figli e non li ha, mentre un altro è preoccupato dalla eccessiva fecondità della moglie; se manca di denaro chi è pronto a dare con liberalità, mentre l'usuraio lo sotterra e vi dorme sopra macilento e cupo; se il libertinaggio dissipa e scialacqua ingenti patrimoni, mentre il povero riesce appena ad ottenere una moneta dopo aver supplicato tutto il giorno; se la fama esalta un individuo indegno, mentre gli onesti costumi si perdono nella massa.
... ovvero mediante la fede.
5. 15. Questi e altri fatti nella vita umana spingono spesso gli uomini a credere empiamente che noi non siamo governati dalla legge della divina provvidenza. Al contrario gli uomini religiosi, onesti e veramente intelligenti non possono convincersi che noi siamo abbandonati dal sommo Dio. Tuttavia turbati dalla foschia, per così dire, e dalla disarmonia del mondo, non riescono a intuirne l'armonia, ma nel tentativo di scoprirne l'occulta ragione sufficiente, lamentano spesso anche con carmi i propri errori. Ma chi potrebbe dare una risposta a coloro che chiedessero perché gli italiani invochino inverni sereni (Virgilio, Georg. 1, 100) mentre la nostra povera Getulia è in continua siccità? E come nel nostro pensiero si potrà ricercare una pur vaga ragione di un tale ordine di cose? Io, se posso dare un consiglio ai miei secondo il mio pensiero e il mio sentimento, ritengo che essi devono essere formati alla pienezza del sapere. Altrimenti è assolutamente impossibile che si abbia vera intelligenza del problema. Eppure potrebbe essere più luminoso del giorno. Ma se sono piuttosto pigri o presi dagli affari o duri ad apprendere, si accaparrino la difesa della fede affinché colui che non permette la rovina di chi esprime bene la fede nella pratica religiosa, mediante questo legame, li tragga a sé e li liberi da questi mali temibili e oscuri.
Ragione e fede in ordine a Dio ...
5. 16. Duplice è la via che seguiamo quando ci pone nel dubbio l'oscurità dell'oggetto: la ragione e la fede. La filosofia garantisce la ragione ma ne libera pochi assai. Tuttavia essa non solo non li induce a disdegnare le verità rivelate, ma è sola a farcene formulare, nei limiti consentiti, il puro pensiero. E la vera e genuina filosofia ha l'esclusiva funzione d'insegnare l'esistenza d'un Principio radicato nel mondo, l'immensità dell'intelligenza che in lui esiste e il valore che da lui emana alla nostra salvezza senza che egli si ponga nel divenire. E le verità rivelate aggiungono che egli è un solo Dio onnipotente ed insieme tripotente, Padre e Figlio e Spirito Santo. Esse mediante la fede sincera liberano dall'errore tutti gli uomini senza confondersi con le verità razionali, come alcuni dicono, ma anche senza dissidio, come molti vorrebbero. Grande è poi il mistero che un Dio così alto ha voluto rivestire e portare per noi la forma sensibile della natura umana. Ed esso, quanto più appare umiliante, tanto più è conveniente alla sua bontà e profondamente lontano dall'orgoglio di certi uomini d'ingegno.
... e all'anima.
5. 17. E si ha, a vostro avviso, grande ragione d'indagare i problemi dell'origine dell'anima, della sua unione col corpo, dei gradi che la separano da Dio, delle funzioni che esercita nel composto umano, delle proprietà che cesseranno con la morte, delle prove della sua immortalità? Se ne ha una grande e vera ragione. Ne parleremo in seguito se ci sarà tempo. Per il momento sappiate, è mio desiderio, che se qualcuno, senza criterio e senza metodo garantito da scienza, osa irrompere nello studio di tali argomenti, diviene non studioso ma curioso, non dotto ma credulone, non critico ma incredulo. E per questo mi meraviglio da dove derivino i concetti con cui voi dianzi avete risposto tanto bene e con tanta proprietà alle mie domande. Sono costretto comunque a darvene atto. Ma vediamo fin dove può giungere questa vostra nascosta capacità d'intuizione. Ed ormai ci si faccia sentire anche la voce di Licenzio. Preso da qualche pensiero, non saprei quale, è stato estraneo a questo discorso sicché penso che, come i nostri amici assenti, dovrà leggere le nostre parole. Ma torna a noi, o Licenzio, e procura di prestare tutta l'attenzione; dico a te. Tu infatti hai approvato la mia definizione con la quale si stabilì che cosa significa essere con Dio. E mi hai voluto insegnare, per quanto riesco a capirne, che la mente del filosofo rimane immobile in lui.
c) Sintesi: i due contrari nella legge razionale eterna come giustizia e provvidenza (6, 18-8, 25)
Il filosofo fra soggezione alla sensibilità e dominio razionale.
6. 18. È assurdo affermare che finché il sapiente vive fra gli uomini non soggiace al suo corpo. Ma mi rende dubbioso la possibilità che, mentre il suo corpo si sposta da un luogo a un altro, la mente rimane immobile. Allora si potrebbe anche affermare che, muovendosi la nave, non si muovono gli uomini che stanno a bordo sebbene dobbiamo ammettere che essa è da loro dominata e guidata. Ed anche se la muovessero e guidassero alla meta col solo pensiero, tuttavia coloro che sono a bordo non possono non esser mossi col muoversi della nave". "Lo spirito, obiettò Licenzio, non è nel corpo in condizioni tali che il corpo lo domini". "Ma io non dico questo, risposi; anche chi cavalca è sopra il cavallo senza che il cavallo lo domini, tuttavia, sebbene diriga il cavallo alla meta voluta, è indispensabile che si muova col muoversi del cavallo". "Ma può sedere immobile", ribatté. "Ci costringi, dissi, a definire che cosa sia l'essere mosso. Se ti è possibile, desidero che tu stesso lo faccia". "Ti prego, mi rispose, continui la tua munificenza perché continua la mia petizione. E non domandar più se sono disposto a definire. Se lo potrò fare, lo farò spontaneamente". Dopo queste parole, il giovane servitore della casa, cui avevamo affidato l'incarico, venne da noi e ci avvertì che era ora di pranzo. Dissi: "Questo giovine servitore non c'induce a definire che cos'è il muoversi, ma a chiarircelo attraverso la vista. Andiamo dunque e passiamo da questo luogo a un altro luogo. Salvo errore il muoversi è proprio questo". Essi sorrisero e ce ne andammo.
Il filosofo-saggio eticamente è nella razionalità.
6. 19. Appena rifocillati ci sedemmo al luogo solito nelle terme poiché il cielo s'era coperto di nubi. Cominciai: "Ammetti dunque, o Licenzio, che il movimento non è altro che il passaggio da un luogo ad un altro?". "Si", mi rispose. "Ammetti, ripresi, che non ci si può trovare in un luogo in cui non ci si trovava senza essersi mosso". "Non capisco", disse. "Ammetti, spiegai, che se un oggetto precedentemente era in un luogo e adesso è in un altro, è stato mosso?". Fece cenno d'assenso. "Dunque, soggiunsi, il corpo vivo del sapiente potrebbe essere ora qui con noi e lo spirito esserne lontano?". "Certamente", rispose. "Anche se, replicai, parlasse con noi e ci insegnasse?". "Anche se, rispose, ci insegnasse a filosofare, non direi che è con noi, ma con la propria interiorità". "Non col corpo dunque?" chiesi. "No", mi rispose. "Ma non ammetti, gli obiettai, che il corpo privo dello spirito è morto? Io ho parlato d'un corpo vivo". "Non so spiegarmelo, rispose. Comprendo che il corpo dell'uomo non può esser vivo se in esso non esiste lo spirito. D'altra parte non posso affermare che lo spirito del filosofo non è con Dio dovunque ne sia il corpo". "Ed io, gli dissi, farò in maniera che te lo spieghi. Poiché Dio, secondo probabilità, è in ogni luogo, dovunque il sapiente vada, trova Dio con cui essere. Ci si rende possibile quindi affermare che egli passa da un luogo a un altro, che è un divenire, e che mantiene l'essere con Dio". "Ammetto, rispose, il passaggio da un luogo a un altro per il suo corpo, ma lo nego per quella coscienza cui corrisponde l'appellativo di filosofante".
L'insipiente è nella razionalità per necessità metafisica.
7. 20. "Per adesso, dissi, accetto. Il problema molto oscuro e da trattarsi a lungo e con molta diligenza potrebbe in questo momento impedire il risultato propostoci. È stato già stabilito che cosa significa essere con Dio. Esaminiamo ora, se riusciamo a comprenderlo, che cosa significa essere senza Dio. Suppongo tuttavia che sia già evidente. Infatti sei d'opinione, come penso, che siano senza Dio coloro che non sono con Dio". "Se non mi mancassero le parole, rispose, esprimerci pensieri che forse non dovresti riprovare. Ma ti chiedo di sopportare la mia immaturità e di cogliere i concetti con vivace intuizione da pari tuo. Ritengo che costoro non sono con Dio, ma che Dio li rende partecipi di sé. Non posso quindi dire che sono senza Dio coloro che Dio rende di sé partecipi. Tuttavia non dico che sono con Dio perché essi non partecipano di Dio. E già in una precedente discussione, quella assai piacevole che avemmo nel tuo genetliaco, decidemmo che avere Dio in sé significa goderlo. Ma ho timore, lo confesso, dell'antitesi del non essere senza Dio e del non essere con Dio".
Le distrazioni di Licenzio.
7. 21. "Non aver timore, dissi. Se si va d'accordo sul concetto, non teniamo conto della terminologia. Ritorniamo quindi alfine alla definizione di razionalità. Hai detto che razionalità è il principio secondo cui Dio muove il mondo al fine. Ora, come opino, Dio muove tutto al fine e per questo hai ritenuto che niente può esistere fuori dell'ordinamento". "È sempre quella la mia opinione, rispose. Ed ora so che mi chiederai se Dio governa anche le cose che, come dobbiamo ammettere, non sono ben governate". "Ottimamente, dissi. Hai proprio visto il mio pensiero. Ma come hai intuito la mia domanda, ti prego d'intuire la risposta conveniente". Ed egli scuotendo la testa e le spalle, disse: "Siamo al difficile". Per caso mia madre era sopraggiunta proprio durante la mia domanda. Ed egli, dopo un po' di silenzio, chiese che gli venisse riproposta. Non s'era accorto affatto che la risposta era già stata data da Trigezio. Gli dissi: "Che cosa e perché dovrei riproporre? Dicono gli scrittori: Non fare il già fatto (Terenzio, Phormio, 419). Ti prego piuttosto che ti prenda pensiero di leggere se non hai potuto udire. Ho permesso volentieri l'assenza del tuo pensiero dalla nostra disputa e ho sopportato che così ti comportassi per non impedire i pensieri che, concentrato in te e distratto per noi, tu rimuginavi per tuo conto. Frattanto abbiamo continuato la discussione che il nostro stilo non ti permette di perdere.
Licenzio non comprende che la giustizia come misura di distribuzione è sempre stata in Dio ...
7. 22. Ora propongo l'indagine su un argomento che non abbiamo ancora provato a sottoporre a un'attenta analisi. Al principio, quando non saprei quale ordine ci ha proposto il problema dell'ordine, tu hai detto, per quanto ricordo, che la giustizia divina è l'attributo con cui egli distingue i buoni dai malvagi e distribuisce a ciascuno il suo. È, per quanto ne penso io, la più evidente definizione della giustizia. Ora vorrei che tu risponda se vi fu un tempo in cui Dio non sia stato giusto". "Sempre", rispose. "Se dunque Dio è stato sempre giusto, sempre sono esistiti il bene e il male". "A mio avviso, intervenne mia madre, è una conseguenza ineluttabile. Non s'è dato infatti atto della divina giustizia finché non è esistito il male. E non si può ritenere che sia giusto se non distribuisce ai buoni e ai malvagi quanto loro spetta". Le obiettò Licenzio: "Pensi dunque debba dirsi che sempre v'è stato il male". "Non intendo dir questo", si scusò lei. "Dunque, intervenni, nell'ipotesi che Dio sia giusto perché giudica fra buoni e malvagi, dovremmo forse dire che quando non v'era il male, non sia stato giusto?". Tutti tacquero. Ma mi accorsi che Trigezio voleva rispondere. Glielo permisi. Disse: "Dio era certamente giusto. Aveva potere di distinguere fra il bene e il male, se fossero esistiti, e in questo suo potere era giusto. Noi infatti diciamo che Cicerone con prudenza svelò la congiura di Catilina, con temperanza non si lasciò corrompere da doni per risparmiare i malvagi, con giustizia li fece condannare a morte mediante decreto del senato, con fortezza sopportò le frecce dei nemici e, come egli stesso ha detto, il peso dell'invidia (Cicerone, In Cat. 1, 9, 23). Ma non intendiamo dire che in lui non vi fossero tali virtù se Catilina non avesse preparato tanta rovina allo Stato. La virtù va considerata in se stessa e non tanto in una sua eventuale manifestazione, sia nell'uomo e a più forte ragione in Dio, se ci è permesso, data la limitatezza dei concetti e delle parole, congiungere i due termini. Infatti per farci comprendere che è stato sempre giusto, Dio non differì a distribuire a ciascuno il suo quando si verificò il male da distinguersi dal bene. Non dovette infatti apprendere la giustizia ma usarla giacché sempre l'ha avuta".
... ma il male non ha origine dal razionale ed è quindi irrazionale e irreale.
7. 23. Licenzio e mia madre, afferrata l'evidenza, approvarono. "Che ne dici, o Licenzio? dissi io. Dov'è andata a finire la tua insistente affermazione che niente avviene fuori dell'ordine? Il fatto dell'origine del male non è derivato dall'ordinamento di Dio, ma essendosi verificato è stato incluso nell'ordinamento divino". Egli si meravigliò e mal sopportò che la sua buona causa gli fosse tolta di mano così all'improvviso. "Ma io dico, ribatté, che l'ordinamento è cominciato dal momento in cui è cominciato ad esistere il male". "Dunque, gli risposi, l'inizio dell'esistenza del male non fu prodotto da una ragione sufficiente, ma dopo che il male ebbe inizio, cominciò ad esisterne la ragione sufficiente. [La ragione sufficiente fu sempre in Dio. Inoltre quel nulla che si denomina il male o è sempre esistito o si suppone che sia cominciato nel tempo. In tale ipotesi, poiché la ragione sufficiente è bene e deriva dal bene, non v'è mai stato né vi sarà nel futuro un essere che sia senza ragione sufficiente. M'era venuto in mente non saprei quale altro pensiero più opportuno, ma m'è sfuggito a causa della solita smemoratezza. E penso che è avvenuto con ragione sufficiente a norma del merito, della dignità e della disciplina della mia vita"]. "Non so, disse Licenzio, come mi sia potuta sfuggire la teoria che ora rifiuto. Non avrei dovuto dire che la ragione sufficiente ha avuto inizio dopo l'origine del male, ma che la ragione sufficiente come la giustizia, di cui ha parlato Trigezio, fu sempre in Dio ma non fu applicata se non dopo l'origine del male". "E ci ricaschi, gli obiettai. Il principio che non vuoi accettare rimane inconcusso. Infatti sia che la ragione fu in Dio sia che cominciò ad essere da quel momento del tempo in cui ebbe origine il male, il male ha avuto comunque origine fuori della legge razionale. Se lo concedi, devi ammettere che qualche cosa può avvenire fuori della ragione sufficiente, e questo indebolisce e invalida la tua tesi. Se non lo concedi, si prospetta l'opinione che il male abbia avuto origine dalla provvidenza di Dio e dovrai ammettere che Dio è autore del male. Non mi sovviene bestemmia più esecranda". Spiegai e dilucidai più volte il concetto poiché non capiva o fingeva di non capire. Ma egli non aggiunse altro e se ne stette zitto. Intervenne mia madre: "Io penso che nulla può avvenire fuori dell'ordinamento divino. Il male stesso, in quanto all'origine, l'ha avuta fuori dell'ordinamento divino, ma la giustizia divina non ha lasciato che rimanesse fuori dell'ordinamento e l'ha ricondotto e costretto a rientrare nella legge che gli è competente".
La razionalità induce ad acquisizione di scienza.
7. 24. A questo punto osservai che tutti, con molto ardore e secondo le proprie capacità, si proponevano problemi su Dio, ma senza rispettare l'ordine di cui stavamo trattando. Eppure soltanto mediante esso si giunge alla conoscenza di quella ineffabile maestà. "Vi prego, dissi, di non essere confusionari e disordinati se, come osservo, amate molto l'ordine. L'ineffabile ragione delle cose promette di farci comprendere che nulla avviene fuori della legge razionale. Se ascoltassimo un insegnante elementare che tenta d'insegnare le sillabe a un fanciullo a cui nessuno ha insegnato le lettere, penseremmo che non solo si deve schernire come stolto, ma anche legare perché matto furioso. E l'unico motivo, come penso, sarebbe che non rispetta la norma dell'insegnamento. Ma gli ignoranti fanno delle cose biasimate e schernite dai dotti; gli imbecilli poi ne fanno di tali che non possono sfuggire neanche alla condanna degli ignoranti. In proposito non c'è dubbio. Tuttavia anche tali fatti, che riconosciamo come irrazionali, non sono fuori della ragione sufficiente. Un'altissima disciplina promette di far comprendere tale verità agli spiriti coscienti di sé e che amano soltanto Dio e lo spirito, e in maniera che le addizioni numerali non potrebbero essere più certe. La massa non ne ha neppure un vago indizio.
Educazione morale e civile dei giovani.
8. 25. Questa disciplina è la stessa legge di Dio che in lui rimane immutabile e inderogabile. Essa tuttavia è, per così dire, trascritta nelle anime filosofanti in maniera che esse sanno di vivere tanto meglio e tanto più dignitosamente quanto più perfettamente la meditano con l'intelligenza e quanto più diligentemente l'osservano nella vita. Questa disciplina propone quindi a coloro che vi si applicano un duplice procedimento da seguire, quello della pratica e quello della cultura. I giovanetti che vi si applicano devono vivere in maniera da astenersi dalla libidine, dalle lusinghe del ventre e della gola, dall'esagerata cura e ornamento della persona, dalle frivole occupazioni nei giuochi, dal torpore dell'accidia e della pigrizia, dall'emulazione, maldicenza e invidia, dall'ambizione agli onori e ai poteri e perfino dal desiderio smoderato della fama. Siano convinti che l'amore al denaro è sicuro veleno di ogni loro nobile aspirazione. Non agiscano né da codardi né da temerari. Nei confronti delle colpe dei soggetti cerchino di superare l'ira o la frenino in maniera da poterla considerare superata. Non portino odio ad alcuno. Trovino rimedio ad ogni vizio. Si guardino, nell'usare la sanzione, da ogni eccesso e, nel perdonare, da ogni difetto. Non puniscano se non giova al meglio, non siano indulgenti se può volgere al peggio. Considerino come famigliari coloro su cui è dato loro il potere. Considerino di essere a loro servizio in maniera di vergognarsi di aver potere su di loro ed usino il potere in maniera d'aver piacere di servirli. Nei torti ricevuti da estranei non siano molesti a chi non li riconosce. Evitino con molta circospezione gli odi, li tollerino con molta liberalità, li facciano cessare quanto prima è possibile. In ogni rapporto e relazione con le persone basta tener presente il detto popolare: Non facciano ad altri ciò che non vogliono sopportare. Non entrino nell'amministrazione dello Stato se non hanno raggiunto la piena formazione e si adoperino per raggiungerla nell'età in cui possono esser senatori o meglio in gioventù. E se qualcuno ha avuto una vocazione tardiva, non s'illuda che questi consigli non lo riguardano poiché li osserverà più facilmente in età avanzata. In ogni genere di vita, luogo e tempo abbiano degli amici o si adoperino per averli. Rendano omaggio ai degni anche se non lo sollecitano. Non si preoccupino dei superbi e non lo siano. Vivano nei limiti della possibilità e convenienza. Onorino, meditino e cerchino Dio fondati sulla fede, la speranza e la carità. Procurino la serenità e un effettivo svolgimento del proprio impegno e di quello degli amici e, per sé e per quanti possono, coscienza tranquilla e vita serena.
Razionalità come cultura (9, 26-15, 43)
a) Teoria di autorità e ragione (9, 26-11, 34)
Concetto di autorità e ragione.
9. 26. Ora devo esporre come devono essere istruiti coloro che si dedicano agli studi e hanno iniziato a vivere come è stato detto. All'apprendimento siamo condotti necessariamente da un duplice principio: l'autorità e la ragione. In ordine di tempo viene prima l'autorità, idealmente la ragione. Una cosa infatti è il principio che si suppone come stimolo all'attività ed altra ciò che si valuta come fine. L'autorità dei dotti è ritenuta più efficace per una massa ancora non istruita e la ragione più conveniente per le persone colte. Ma la persona colta non è stata sempre tale e chi non è istruito non sa in quali condizioni si deve presentare agli insegnanti e con quale metodo di vita può apprendere. Ne consegue che soltanto l'autorità può aprire la porta a tutti coloro che aspirano ad apprendere la morale, la fisica e la metafisica. Chi è entrato segue senza incertezze le regole della vita razionale. Reso da esse idoneo all'apprendimento, imparerà alfine di quanta razionalità fossero dotate le nozioni che ha conseguito prima del procedimento razionale, che cos'è la stessa ragione che egli ormai con costanza e capacità segue e intende dopo la culla dell'autorità, che cos'è il puro pensiero in cui esiste l'universale, che è anzi lo stesso universale, e che cos'è il trascendente principio degli universali. Pochi in questa vita possono giungere a una conoscenza di tal genere e nessuno, anche dopo questa vita, può superarla. Vi sono poi coloro che, contenti della sola autorità, danno atto con fermezza ai buoni costumi e agli onesti desideri, ma trascurano o non possono essere istruiti nelle discipline liberali e nobili. Non saprei come considerare felici costoro, poiché sono ancora nella vita terrena. Tuttavia credo fermamente che, dopo la loro morte, raggiungeranno la redenzione più o meno facilmente secondo che son vissuti più o meno bene.
Autorità magisteriale divina e umana.
9. 27. Il potere d'insegnare si divide in divino e umano. Soltanto quello divino è vero, certo e sommamente autorevole. In tale settore bisogna temere il mirabile potere di manifestarsi degli spiriti dell'aria. Essi, mediante magici segni nel mondo sensibile e con responsi, di solito facilmente ingannano le anime o curiose del loro destino terreno o desiderose di caduchi poteri o paurose di vani presagi. Si deve considerare divino l'insegnamento che non solo supera ogni umana facoltà nel produrre segni sensibili, ma influendo direttamente anche sull'uomo, gli mostra fino a qual punto si è abbassato per lui. Ordina inoltre a coloro, cui appaiono i suddetti segni straordinari, di non attenersi ai sensi, ma di ricorrere all'intelligenza. Fa loro comprendere nello stesso tempo la grandezza del proprio potere sul mondo, il fine per cui l'ha creato e il dominio che su di esso esercita. È necessario che faccia apparire nell'opera il proprio potere, nell'abbassarsi la propria clemenza, nel modo d'insegnare la propria essenza. Le stesse verità sono insegnate in forma più ineffabile ma con maggiore certezza nelle Sacre Scritture cui siamo iniziati. Con esse la vita dei buoni raggiunge la sicurezza non mediante discutibili opinioni ma con l'autorità dei dogmi. L'insegnamento umano spesso è ingannevole. Appare tuttavia meritamente eccellente in quegli uomini i quali, per quanto può comprendere l'intendimento degli indotti, danno molte garanzie della loro dottrina e non vivono diversamente da come insegnano. E supponiamo che vi si aggiungano anche alcuni doni di fortuna e che essi appaiano nell'usarli grandi e più grandi nel disprezzarli. Allora è assai difficile che si possa biasimare chi crede alle norme di vita che impartiscono".
Il fondamento autorevole dell'insegnamento di Agostino.
10. 28. A questo punto intervenne Alipio: "È stato da te presentato davanti ai nostri occhi, in maniera esauriente e concisa ad un tempo, un nobile sistema di vita. E sebbene, secondo i tuoi consigli, continuamente ad esso aspiriamo, oggi tuttavia ci hai reso più desiderosi e fervorosi. Desidererei anche che non solo noi ma tutti gli uomini lo conoscano ed accettino, se è così attuabile nella pratica come è nobile nella teoria. In verità non so perché, e mi auguro che così non sia per noi, lo spirito umano, quando si sente esporre tali norme, le riconosce altissime, eterne e assolutamente vere, ma in quanto a farne oggetto del volere si comporta diversamente. Ritengo quindi che possono seguire un tal sistema di vita o uomini vicini a Dio o per lo meno non senza un particolare aiuto divino". Gli risposi: "Queste norme che a te, o Alipio, come sempre, assai piacciono, sebbene in questo momento sono state da me esposte, tuttavia non sono state da me inventate. E tu lo sai bene. Di esse sono pieni i libri di uomini eccellenti e assai vicini a Dio. E ho pensato di doverlo ammettere non per te ma per questi giovani affinché, nell'udire tali norme, non abbiano motivo per disprezzare la mia autorità. Non desidero affatto che mi credano se non in quanto dimostro e adduco ragioni. E penso che hai proferito quelle parole per stimolarli data l'importanza del problema. Difatti la pratica di tali norme per te non è difficile. Le hai accettate con tanto entusiasmo e le hai seguite con tale generosità della tua ammirevole indole che se io ti sono stato maestro nell'insegnamento, tu lo sei stato per me con l'esempio. Non ho motivo alcuno o per lo meno un pretesto per mentire. Non penso infatti di renderti più interessato allo studio con un falso elogio. D'altra parte i presenti ci conoscono entrambi e sarà destinatario di questo discorso un individuo, al quale né io né tu siamo sconosciuti.
Continuità della tradizione classica al tempo di Agostino.
10. 29. Per quanto ho potuto comprendere, se hai espresso bene il tuo pensiero, tu ritieni che gli uomini eccellenti e degni per nobiltà dei costumi sono in minor numero di quanto ritengo io. Molti tuttavia ti sono sconosciuti e di molti che ti sono noti ti è nascosta la dignità morale. Essa è nello spirito che non può apparire al senso. E il saggio, nell'intento di stabilire il dialogo con individui viziosi, propone tesi che potrebbero sembrare opinioni e propositi personali. Compie molte azioni non di propria scelta, ma o per evitare l'odio degli uomini o per non apparire stravagante. Noi, sentendone parlare o direttamente osservando, difficilmente possiamo supporre che le cose potrebbero star diversamente di come l'immediata esperienza ci attesta. Quindi di molti pensiamo che non siano tali quali essi stessi o i loro intimi li hanno descritti. Vorrei che te ne persuadessi dall'esempio di alcune degnissime personalità fra i nostri amici che noi soli conosciamo. L'errore si fonda su questo non trascurabile motivo che non pochi si convertono all'improvviso alla vita saggia e ammirevole e sono giudicati per quel che erano prima finché non si manifestano con qualche opera illustre. Ma non andiamo lontano. Qualsiasi persona, che prima conosceva questi giovanetti, non potrebbe credere che essi con tanto interesse compiono indagini su problemi importanti e all'improvviso in tale età fanno tanta lotta contro i piaceri. Rimuoviamo quindi dalla mente un tale pregiudizio anche perché l'aiuto divino che tu piamente, come conveniva, hai posto a conclusione del tuo discorso, esercita su tutti gli uomini la propria clemenza molto più largamente di quanto alcuni possono credere. Ma riprendiamo le fila del nostro discorso. E poiché abbastanza è stato detto dell'autorità, esaminiamo che cosa significa ragione.
Concetto di ragione.
11. 30. La ragione è l'atto della mente che ha il potere d'operare le analisi e le sintesi dei concetti. L'uomo può difficilmente valersi della sua guida per conoscere Dio e l'anima individuale e cosmica. Unico motivo è che è difficile per l'individuo condizionato dal mondo della sensibilità rientrare nel proprio Io. E poiché gli uomini s'impegnano di trattare il tutto col pensiero, pur attraverso gli oggetti sensibili, ne ignorano, salvo pochissimi, l'essenza e le proprietà. Sembra strano ma è così. Basta per il momento quanto ho detto poiché se volessi ora esporvi un sì grande argomento come deve essere compreso, sarei sciocco e pretenzioso ad un tempo perché presumerei di averne una conoscenza certa. Tuttavia, se c'è possibile, esaminiamo la ragione, come la discussione iniziata esige, nei limiti con cui essa ha potuto manifestarsi all'indagine nelle nozioni che riteniamo d'avere finora accertate.
L'essere ragionevole e l'essere razionale.
11. 31. E prima di tutto esaminiamo in qual senso viene usato di solito il termine di ragione. Ci deve soprattutto spingere all'indagine il motivo che l'uomo stesso fu dai filosofi classici definito: L'uomo è un animale ragionevole mortale (Aristotile, Top. 132b2; Sesto Emp., Pyrr. Hyp. 2, 25; Cicerone, Lucullus 7, 21). Vediamo che nella definizione, posto il genere il quale è determinato in animale, sono aggiunte due differenze. E con queste, come penso, si doveva ammonire l'uomo dove deve ritornare e da dove deve fuggire. Infatti come l'allontanamento dell'anima ha raggiunto la soggezione alla morte, così il ritorno deve essere verso la ragione. In una parola, in quanto ragionevole si differenzia dalle bestie, in quanto mortale dai valori. Se non conserverà il primo, diverrà bestia, se non si allontanerà dall'altro, non diverrà valore. E poiché gli uomini dotti sogliono con acume e perspicacia determinare la distinzione che esiste fra ragionevole e razionale, la distinzione non può essere trascurata ai sensi dei risultati che intendiamo raggiungere. Essi hanno detto che ragionevole è l'essere che usa la ragione o la può usare e che razionale è un prodotto della ragione nell'ordine dell'azione e del linguaggio. Possiamo quindi denominare razionali queste terme e il nostro discorso e ragionevoli il loro costruttore e noi che stiamo parlando. Quindi la ragione si produce dall'anima ragionevole nell'ordine dell'azione e del linguaggio.
Vista e udito come strumenti della ragione in quanto arte.
11. 32. Noto quindi due settori in cui possono apparire anche ai sensi il potere e la facoltà della ragione: le opere umane che si vedono e le parole che si odono. In entrambi la mente usa di due organi soggetti al meccanismo corporeo: di uno che è proprio della vista e di un altro che è proprio dell'udito. Quindi quando osserviamo un oggetto composto di parti raccordate fra di loro, giustamente diciamo che ci si presenta razionalmente. Allo stesso modo quando udiamo parole organicamente disposte, non esitiamo a dire che sono profferite razionalmente. Ma chiunque sarebbe schernito se dicesse: " Ha un odore razionale ", ovvero: "Ha un sapore razionale", ovvero: " Ha una morbidezza razionale". Si fa eccezione per gli oggetti che sono stati trattati dagli uomini per uno scopo in maniera che abbiano quell'odore, quel sapore o quel calore e così via. Ad esempio, qualcuno, comprendendo il motivo per cui è stato fatto, può dire che razionalmente odora un luogo, dal quale si fugano i serpenti con odori acri; ovvero può dire che la bevanda preparata dal medico è razionalmente amara o dolce o anche che il letto, fatto da lui riscaldare per l'ammalato, razionalmente è caldo e tiepido. Ma un individuo, entrando in un giardino e portando una rosa alle narici, non può vantarla: "Ma che fragranza razionale ha" neanche se il medico ha ordinato di sentirne l'odore. Nella fattispecie si dice che l'ordine è stato dato razionalmente, ma non che l'odore è razionale appunto perché esso è naturale. Allo stesso modo possiamo dire che una vivanda condita dal cuoco è razionalmente condita. Ma nel comune modo di parlare non si dice che ha un sapore razionale poiché non interviene una causa dal di fuori, ma si soddisfa ad un bisogno del momento. E se si esamina il vero motivo della dolcezza della pozione data dal medico all'ammalato, ne risulterebbe uno estraneo dovuto alla realtà delle cose, cioè al genere di malattia che non riguarda appunto il senso del gusto, ma in altro modo lo stato fisico. Supponiamo di chiedere a un tale che sta assaporando ghiottamente una vivanda il motivo della sua dolcezza e che egli risponda: "Perché mi piace", ovvero: "Perché ne ricevo piacere". Nessuno potrebbe dire che essa ha una dolcezza razionale a meno che il piacere sia riferito ad uno scopo e la vivanda gustata sia a tale scopo ammannita.
Vista e udito sensi estetici.
11. 33. Siamo in possesso, nei limiti della nostra indagine, di alcune orme della ragione nei sensi e per quanto riguarda la vista e l'udito nello stesso sentimento estetico che si ha. Gli altri sensi di solito non raggiungono razionalità in virtù della loro esteticità, ma per un motivo estraneo che è appunto un prodotto dell'animale ragionevole in vista del fine. Ciò che è di competenza della vista, in relazione alla quale si dice razionale la proporzione delle parti, si denomina bello. Ciò che è di competenza dell'udito, nell'atto che notiamo un razionale raccordo di suoni ovvero osserviamo che un canto ritmico è stato razionalmente composto, ormai con nome appropriato si denomina armonia. Tuttavia di solito non diciamo razionale l'effetto che si ha nelle cose belle per il diletto immediato e nell'armonia per le vibrazioni ritmiche e pure dell'arpa. Rimane quindi da ammettere che nell'esteticità di questi sensi è di pertinenza della ragione quell'effetto in cui si hanno proporzione e misura.
Proporzione e misura nelle arti visive e uditive.
11. 34. Allo scopo esaminiamo bene in questo edificio i particolari. Non possiamo non essere contrariati nel vedere una porta da un lato e l'altra posta vicino al centro, ma non proprio al centro della facciata. Infatti nelle strutture architettoniche, se non ve n'è necessità, la sproporzione delle masse sembra quasi contrariare la vista. Invece il fatto che tre finestre, una in mezzo e due ai lati, diffondono a spazi eguali luce nella stanza, se osserviamo bene, ci piace e attira a sé l'attenzione. Ed è cosa evidente che non deve essere esposta a voi con molte parole. Pertanto gli stessi architetti con termine tecnico definiscono ragione la proporzione e affermano che le masse disposte asimmetricamente non hanno una ragione. Il principio si estende largamente e si applica a quasi tutte le opere e le arti umane. Chi non comprende che nella poesia, in cui diciamo che si ha ragione spettante all'esteticità uditiva, la proporzione è operatrice di tutta l'armonia? Così, quando un mimo danza, per chi sa bene osservare, ogni gesto sta ad indicare una vicenda. E sebbene la mimica ritmica, mediante la proporzione, diletta direttamente la vista, tuttavia si deve dire che la pantomima è razionale perché, al di là del diletto sensibile, significa e manifesta chiaramente qualche cosa. Ma supponiamo che rappresenti, sia pure con armonici movimenti e atteggiamenti delle membra, Venere con le piume e Cupido col pallio. In tal caso non si può ritenere che contrari la vista, quanto piuttosto, mediante la vista, il sentimento al quale si propone la vicenda con tali segni. La vista sarebbe contrariata se il mimo non si muovesse armonicamente. Tale percezione appunto è funzione del senso ed in esso l'anima avverte l'effetto estetico per il fatto che è unita al corpo. Un conto è quindi il senso ed un altro è ciò che si avverte mediante il senso. Infatti il senso è dilettato dalla mimica ritmica, ma soltanto il sentimento, per la mediazione del senso, è dilettato dal contenuto estetico della mimica. Il fatto si avverte più facilmente nell'udito. Infatti ogni raccordo armonioso di suoni diletta e attira l'udito. Ma il contenuto, espresso adeguatamente dai suoni, sia pure per la mediazione dell'udito, si riferisce esclusivamente al sentimento. Così, quando udiamo i versi: Perché il sole invernale si affretta a tuffarsi nell'oceano e quale ostacolo ritarda le notti estive? (Virgilio, Georg. 2, 480-481), per un aspetto giudichiamo il ritmo e per un altro il pensiero. Non è il medesimo criterio per cui diciamo che è razionalmente ritmato e che è razionalmente espresso.
b) Le arti formali o della parola (12, 35 - 13, 38)
L'istruzione di primo grado e i mezzi espressivi.
12. 35. Si danno dunque tre settori in cui si manifesta la razionalità. Il primo è dell'etica, il secondo delle arti formali, il terzo dell'armonia. Il primo ci stimola a non compiere azioni irrazionalmente, il secondo a insegnare con metodo, il terzo a contemplare felicemente. Il primo riguarda i costumi, gli altri due le discipline di cui stiamo per trattare. Ora il potere razionale che è in noi, quel potere cioè che usa la ragione ed opera e scopre il razionale, per un certo vincolo naturale tende a far comunicare fra di loro gli individui che hanno in comune la ragione. D'altronde l'uomo non avrebbe potuto attuare rapporti validi col proprio simile se non mediante il colloquio e, per così dire, lo scambio di concetti e di pensieri. Allora la ragione scoprì che si dovevano imporre alle cose nomi, cioè suoni significativi, in maniera che gli uomini, i quali non possono intuire l'animo degli altri, per stringere vincoli sociali usassero del senso come mezzo di comunicazione. Ma non si potevano ascoltare le parole degli assenti, quindi la ragione scoprì i segni dell'alfabeto con la determinazione e distinzione di tutti i suoni vocalici e consonantici. Non poteva ottenere un tale risultato se la serie delle cose si poteva prolungare all'infinito senza un determinato limite. Data dunque l'impellente necessità fu avvertita l'utilità del numerare. Con la duplice invenzione sorse la professione degli insegnanti di lettere e di calcolo. Fu l'infanzia della grammatica che Varrone definisce esercizio alfabetico. Sul momento non ricordo bene come si dice in greco.
L'istruzione di secondo grado mediante grammatica e prosodia ...
12. 36. La ragione, gradualmente evolvendosi, avvertì che fra i suoni articolati, già determinati in lettere, alcuni, con varia apertura di bocca, uscivano semplici e spontanei dalle labbra senza contatto degli organi vocali; che altri, nonostante il contatto degli organi, avevano un proprio suono; che altri infine non potevano essere proferiti senza essere associati ai primi. Quindi denominò le lettere, nell'ordine con cui sono state elencate, in vocali, semivocali e consonanti. Quindi considerò le sillabe. Poi le parole furono distribuite in otto generi formali e furono determinate con competenza e perspicacia l'etimologia, la morfologia e la sintassi. Non dimenticandosi del ritmo e della durata, pose attenzione alla varia lunghezza delle parole e delle sillabe e scoprì che la durata può essere doppia o semplice e che per la sua funzione le sillabe si pronunciano lunghe o brevi. Considerò tali proprietà e le sistemò in regole fisse.
... e letteratura.
12. 37. Poteva con ciò la grammatica avere la sua completezza. Ma col nome stesso essa dichiara di attendere alle lettere e per questo in latino si denomina anche letteratura. Avvenne dunque che quanto di degno di ricordo si consegnò alle lettere divenisse di sua competenza. Così a questa disciplina si associò la storia che come concetto è unitaria, ma come argomento è senza limiti, molteplice, piena più di ricerche affannose che di pregio letterario e di verità. E fu compito ingrato non tanto degli storici quanto dei grammatici. Non si può infatti sopportare che si reputi analfabeta chi non ha sentito parlare del volo di Dedalo, creatore di finzione chi lo ha inventato, imbecille chi vi crede e sfrontato chi ne discutesse la credibilità. Per questo io son solito compatire i nostri amici quando considero che sono tacciati d'ignoranza se non rispondono come si chiamava la madre di Eurialo mentre essi non osano restituire a coloro che li interrogano la taccia di frivolezza, futilità e d'inabilità all'insegnamento.
Il terzo grado d 'istruzione mediante dialettica e retorica.
13. 38. La ragione dunque, dopo aver prodotto e ordinato la grammatica, avvertì di dover ricercare e configurare il potere con cui aveva creato la disciplina grammaticale. Difatti con le definizioni, le analisi e le sintesi non solo l'aveva attuata e organizzata, ma l'aveva anche garantita dall'errore. Non avrebbe potuto passare ad altre produzioni senza aver prima discriminato, configurato, espresso e manifestato i propri procedimenti e la propria tecnica nella disciplina delle discipline che denominano dialettica. Essa insegna ad insegnare, essa insegna ad apprendere. In essa la ragione stessa mostra con evidenza la propria natura, i propri intenti, i propri poteri. Essa ha scienza di avere scienza. Ed essa soltanto non ha solo la funzione ma anche la validità di creare scienza. Ma spesso gli ignoranti, per raggiungere la persuasione su problemi riguardanti il vero, l'utile e l'onesto, non seguono la verità raggiungibile da pochi spiriti eletti, ma piuttosto le proprie esperienze e disposizioni individuali. Si rese quindi indispensabile non solo istruirli secondo le loro capacità, ma spesso e soprattutto suscitare il loro interesse. La ragione chiamò retorica questa sua parte destinata a tale funzione. Essa, a causa della pienezza di ornamenti letterari da versare sul popolo perché si lasci guidare al proprio benessere, ha valore più tecnico che liberale. Fin qui è stata distribuita negli studi e discipline liberali quella parte del razionale che riguarda la parola.
c) Le arti reali ovvero del numero e dell'armonia (14, 39 - 15, 43)
L'armonia uditiva nei cori, auletica, citaristica
14. 39. Dopo ciò la ragione ha voluto elevarsi alla beatificante visione del mondo ideale. Ma per non precipitare dall'alto cercò gli scalini e si costruì lo stesso procedimento di ascensione nel dominio già acquisito. Desiderava la bellezza da potere intuire direttamente e immediatamente senza la mediazione degli occhi. Ne era impedita dai sensi. Quindi volse per un po' lo sguardo ad essi che, affermando di possedere la verità, la ritraevano con importuno strepito mentre si accingeva a passare avanti. Cominciò dall'udito poiché esso affermava che le parole gli appartengono. Per esse aveva già creato la grammatica, la dialettica e la retorica. Ma lei, nel suo grande potere di discriminare, si accorse subito della differenza esistente fra il suono e ciò di cui esso è segno. Comprese che è di competenza dell'udito soltanto il suono e che esso è triplice: quello della voce articolata, quello prodotto da strumenti a fiato e quello prodotto da strumenti a percussione. Al primo si assegnano i tragici, i comici, cori del genere e tutti coloro che comunque cantano con la voce umana; il secondo è attribuito ai flauti e strumenti del genere; nel terzo si includono le cetre, le lire, i cembali e ogni strumento che si rende sonoro con la percussione.
Nella poesia
14. 40. Si accorgeva inoltre che questo mezzo sensibile non aveva valore se i suoni non venivano regolati dalla durata e da una proporzionata varietà di acuti e di gravi. Riconobbe allora che le basi erano quei valori che in grammatica, mentre valutava attentamente le sillabe, aveva definito piedi e accenti. Le fu facile notare dalle parole stesse che le sillabe brevi e le lunghe sono diffuse in un discorso pressappoco in quantità rispettivamente eguale. Si propose allora di disporre e unire i piedi in determinate strutture. Seguendo, in questa prima operazione, l'udito, articolò le strutture mediante commi e cola. Così li denominano. E affinché la sequenza dei piedi non si prolungasse al di là di quanto il suo criterio esigeva, stabilì una misura per il ritorno. E da esso appunto diede nome al verso. Denominò poi ritmi le strutture che non avevano misura mediante un limite ben definito, ma che comunque si svolgevano secondo una regola in determinate disposizioni di piedi. In latino non s'è potuto definirle altrimenti che prosa numerosa. Così diede vita ai poeti. E poiché in essi scorgeva non solo l'attenzione ai suoni, ma anche alla forma e ai contenuti, li onorò molto e diede loro il potere di costruire secondo il loro genio la favola poetica. E poiché essi traevano origine dalla prima disciplina formale, permise che i grammatici fossero i loro giudici.
Nella musica come idea.
14. 41. In questo quarto scalino si accorgeva che tanto nella prosa ritmica come nei versi si ha il dominio dei numeri, e che essi sono una dimensione dell'universo. Ne considerò attentamente la natura. Trovò che hanno valore ideale e universale soprattutto perché con la loro mediazione aveva dato sistematicità a tutte le discipline suddette. E già cominciava a sopportare malvolentieri che la loro intelligibilità e purità fossero offuscate dal dato sensibile della parola. Ciò che la mente intuisce è sempre presente e perennemente immutabile ed anche i numeri appartengono a quest'ordine. Il suono al contrario è un dato sensibile, defluisce nel passato e si fissa nella memoria. Quindi, poiché ormai la ragione favoriva i poeti, con un mito razionale si favoleggiò che le Muse fossero figlie di Giove e di Memoria. (Ci dobbiamo proprio chiedere quale somiglianza ci sia fra generanti e generati?). L'altra disciplina pertanto, in quanto partecipe di senso e d'intelligenza, ebbe il nome di musica.
L'armonia visiva nello spazio (geometria) e nello spazio tempo (astronomia)...
15. 42. Passò quindi nel dominio degli occhi e percorse la terra e il cielo. Avvertì che per lei non aveva valore se non l'armonia e nell'armonia le figure, nelle figure le misure e nelle misure i numeri. E rifletté in se stessa se questa linea o questo cerchio o qualsiasi altra forma o figura sensibile è simile a quella che è oggetto dell'intelligenza. Trovò che sono molto più imperfetti e che non si può assolutamente paragonare l'oggetto visibile con l'oggetto dell'intuizione della mente. Analizzò e sistemò tutte queste nozioni, le raccolse in una scienza e la definì geometria. L'attraeva assai il movimento del cielo e la stimolava a considerarlo attentamente. Comprese che anche qui, attraverso le successioni uniformi dei tempi, il corso fisso e definito degli astri e le distanze esattamente stabilite, valeva l'esclusivo dominio della misura e dei numeri. E riducendo anche queste nozioni a sintesi mediante definizioni e analisi generò l'astronomia che è valida dimostrazione per gli spiriti religiosi e causa d'affanno per i superstiziosi.
... e nel numero puro (aritmologia).
15. 43. Nelle discipline elencate le si presentavano tutte nozioni riducibili al numero. Ed esse tuttavia apparivano di più alto valore in quelle misure che ella intuiva nella loro pura intelligibilità pensando e meditando in se stessa. Nelle cose sensibili al contrario ne ravvisava piuttosto un'ombra o un'orma. A questo punto si esaltò ed ebbe una grande presunzione. Osò dimostrare l'immortalità dell'anima. Esaminò tutto diligentemente, avvertì il proprio stragrande potere e che esso si confondeva con la legge aritmetica. La colpì un pensiero meraviglioso. Cominciò a ritener probabile che lei stessa fosse numero, quello ideale per cui l'universo è nel numero e, se non lo era, che esso fosse in quel mondo ideale che voleva raggiungere. Lo afferrò con tutte le forze in quanto esso poteva svelarle l'interezza della verità. È lo stesso di cui ha parlato Alipio nella indagine sugli accademici ed è come il Proteo fra le mani. I fenomeni che ci rappresentiamo nel succedersi dei numeri, nel loro fluire dal metempirico numero ideale, trascinano con sé la serie delle rappresentazioni e spesso fanno svanire il numero nell'atto stesso che viene afferrato.
Sapere e filosofare (16, 44-20, 54)
a) Scienza come unità delle discipline (16, 44-17, 46)
Scienza proveniente dalle discipline.
16. 44. Chi non si arresta ai fenomeni e sistema in unità scientifica tutte le nozioni diffusamente e variamente formulate in tante discipline è degno del nome di uomo colto. Egli ormai può criticamente indagare sul mondo intelligibile che deve accettare non soltanto per fede, ma intuire, spiegare ed averne certezza. Ma v'è chi è schiavo del sensibile e anela alle cose caduche ovvero chi le fugge e vive nella temperanza, ma non ha scienza della quiddità del non essere, della materia informe, della sostanza inorganica, del corpo e di ciò che è inorganico nel corpo, dello spazio del tempo e dell'essere nello spazio e nel tempo, del moto locale del divenire, del divenire fuori tempo, della durata, dell'essere fuori dello spazio e d'ogni sua parte e dell'essere fuori del tempo e nell'eternità, del non essere nello spazio e del non essere fuori dello spazio, del non essere nel tempo e del non essere fuori del tempo. Chi dunque non ha scienza di queste nozioni e vorrà indagare e disputare non dico di Dio, di cui si ha meglio scienza con scienza negativa, ma della propria anima, cadrà in ogni errore possibile. Avrà conoscenza di tali oggetti chi comprenderà i numeri puri e intelligibili. E lì comprenderà certamente chi, e per capacità di mente e per maturità di pensiero e per libertà spirituale e per costante applicazione nello studio, avrà seguito, per quanto è richiesto, il suddetto metodo d'apprendimento del sapere. E poiché tutte le discipline liberali si apprendono parte per la vita pratica e parte per l'attività teoretica e speculativa, è assai difficile averne il possesso. Si eccettua il caso di chi, fin dall'infanzia, essendo di pronto ingegno, vi si sia applicato con tenacia e perseveranza.
Scienza, saggezza e moderazione.
17. 45. Ma per quanto se ne richiede alla nostra indagine ti prego, o madre, non ti spaventi questa immensa selva di nozioni. Se ne sceglieranno soltanto alcune assai limitate nel numero, assai efficienti allo scopo, ma piuttosto difficili per molti a comprendersi. Ma la tua mente si rinnova di giorno in giorno. Mi accorgo inoltre che il tuo spirito, o per maturità o per l'ammirevole moderazione, tenendosi lontano da ogni banalità e distaccandosi dalla passione, s'è levato a grande dignità interiore. Per te quindi saranno tanto facili quanto sono difficili per gli ingegni torpidi e per coloro che vivono nella passione. Mentirei se dicessi che tu raggiungerai un modo di parlare privo di difetti di forma e d'espressione. Io ho dovuto apprendere tali nozioni per esigenza di professione. Eppure gli italiani ancora mi scherniscono per la pronuncia di molte parole e per ricambio sono da me rimproverati sempre per questioni di pronuncia. Un conto è aver garanzie dalla cultura e un conto è averle dall'appartenenza ad una nazione. Un uomo dotto, se mi segue attentamente, potrà scoprire nel mio modo di dire quelli che chiamano solecismi. Ma c'è stato un individuo il quale con dimostrazione eruditissima m'ha convinto che perfino Cicerone ha commesso simili peccati di forma. È stata poi rilevata in lui ai nostri giorni tale abbondanza di barbarismi da far sembrare barbaro perfino il discorso con cui fu salvata Roma. Ma tu, disprezzati questi problemi come puerili ovvero come non di tua competenza, conosci così bene la forza e la natura quasi divina dell'arte dell'esprimersi che ne hai ritenuto lo spirito e ne hai lasciato il corpo agli eruditi.
Scienza che dispone al filosofare.
17. 46. Direi altrettanto delle altre arti. Ma se tu le disprezzi per quanto posso osare come figlio e per quanto lo permetti, ti raccomando di conservare con fermezza e prudenza la tua fede che hai attinto dalle sacre Scritture e di rimanere con perseveranza e vigilanza nella vita e costumi attuali. Sono oscuri e tuttavia d'ordine intelligibile i seguenti problemi. Come si concilia che Dio non opera il male, sia onnipotente e avvengano tanti mali? A quale fine ha creato il mondo, egli che non aveva bisogno? Il male è sempre esistito o ha avuto inizio nel tempo? Nell'ipotesi che sempre sia esistito, è dipeso dalla legge divina? In tal caso anche il mondo sensibile è sempre esistito perché il male dipendesse dalla disposizione divina? Nell'ipotesi che il mondo abbia avuto inizio e prima che lo avesse, come il male era frenato dalla potenza divina? E che bisogno v'era di creare il mondo in cui, per pena delle anime, rientrasse il male che la potenza divina frenava? Se poi vi fu un tempo in cui il male non rientrava nel governo di Dio, a parte che è stolto, per non dire empio, affermare che in Dio sia sorta una nuova disposizione, quale improvviso mutamento avvenne che fino a quel momento era stato escluso dall'essere eterno? Se poi affermiamo che il male non fu subordinato a Dio e gli si oppose, come alcuni affermano, ogni uomo di scienza ci schernirà e chi non è di scienza si sdegnerà. Come infatti questa inconcepibile idea del male poté ribellarsi a Dio? Se rispondono che non lo poté, non vi fu ragione della creazione del mondo. Se affermano che lo poté, è imperdonabile errore ritenere Dio violabile almeno nel senso da non concedergli di provvedersi con la propria potenza contro la violazione dal proprio essere. Essi infatti affermano che l'anima è una particella dell'essere divino posta in questo mondo a scontare una pena. Sarebbe poi da empi e misconoscenti ammettere che il mondo non è stato prodotto, perché ne conseguirebbe che Dio non l'ha creato. Quindi circa tali problemi o s'indaga sulla base della suddetta formazione culturale o non si deve indagare affatto.
b) Il filosofare che giustifica per riduzione all'unità (18, 47 - 19, 51)
Il filosofare mediante la ragione matematica tende all'uno ...
18. 47. E poiché non si pensi che abbiamo svolto largamente l'argomento, ripeterò più chiaramente e brevemente che alla conoscenza di simili oggetti non si può aspirare senza il duplice fondamento scientifico della vera dialettica e della validità della matematica. Se qualcuno pensa che questo è troppo, conosca bene o la sola matematica o la sola dialettica. Se anche questo non sembra un limite, sappia soltanto che cos'è l'unità numerica e quale la sua validità non ancora nella sovrana struttura universale e ragione ideale dell'universo, ma nei dati immediati della nostra quotidiana esperienza conoscitiva e pratica. Il pensiero filosofico implica questa iniziale formazione al sapere e lo studioso in essa non troverà altro che la definizione dell'uno, ma posto in un ordine superiore e intelligibile. E duplice è il problema della filosofia, l'uno riguardante l'anima, l'altro Dio. Il primo c'induce a conoscere noi stessi, l'altro il principio del nostro essere. L'uno è per noi più dilettevole, l'altro più prezioso. Quello ci rende degni della felicità, questo felici. Il primo spetta a coloro che ancora apprendono, questo a coloro che hanno appreso. Questo è il procedimento razionale del filosofare. Con esso l'uomo si rende idoneo a comprendere il principio razionale dell'universo, cioè a distinguere due mondi e lo stesso creatore dell'universo. Di lui nella mente non v'è altra scienza che avere scienza dell'impossibilità di averne scienza.
... mediante la forza dialettica del pensiero.
18. 48. La mente applicatasi al filosofare, conservando tale procedimento, dapprima prende coscienza di sé. E la mente già formata al sapere ritiene che la ragione o è sua o è lei stessa, che nella ragione nulla v'è di più valido e funzionale del procedimento matematico o che la ragione stessa è procedimento matematico. Quindi dirà a se stessa: Io per un mio potere interiore e occulto posso operare analisi ovvero sintesi sugli oggetti da apprendere e questo mio potere si chiama ragione. E la sintesi si deve operare sull'oggetto che si presenta come uno e non lo è, ovvero non è tanto uno come si manifesta. Così, perché operare la sintesi su un oggetto se non perché diventi uno quanto è possibile? Quindi tanto nelle analisi come nelle sintesi voglio l'uno, tendo all'uno. Ma quando opero l'analisi, lo voglio nella sua distinzione e quando opero la sintesi, lo voglio nella sua totalità. Con la prima operazione si eliminano le note non pertinenti, con la seconda si aggiungono quelle pertinenti perché si abbia l'uno nella sua interezza. Tutte le parti e tutte le proprietà della pietra, perché sia pietra, si sono composte nell'uno. E l'albero ci sarebbe se non fosse uno? E le membra di qualsiasi animale e le viscere e tutte le parti che lo compongono? Se rimanessero separate, non vi sarebbe l'animale. E gli amici non aspirano ad essere uno? E quanto più sono uno, tanto più sono amici. I cittadini costituiscono un solo Stato. Ad esso è dannoso il dissenso. E che cos'è il dissentire se non il non sentimento dell'unità? Di molti soldati si compone un solo esercito. Ed ogni moltitudine tanto meno facilmente viene dispersa quanto maggiormente aderisce all'unità. Ed appunto lo strumento che congiunge nell'uno è stato chiamato cuneo, come a dire "insieme nell'uno". E l'amore nei suoi vari aspetti? Chi ama vuol divenire una sola cosa con l'oggetto amato e, se gli è dato, con esso unificarsi. La passione stessa genera un forte godimento perché i corpi che si amano si uniscono. E il dolore perché ci contraria? Perché tende a dissociare ciò che era uno. Quindi è spiacevole e svantaggioso farsi uno con un oggetto da cui si può esser separati.
Pensiero-ragione che trascende la natura ...
19. 49. Da molti elementi sparsi disordinatamente e poi radunati secondo una struttura unitaria io costruisco una casa. Io valgo di più perché la faccio ed essa è fatta. E valgo di più appunto perché faccio. Non v'è dubbio che proprio per tale motivo valgo più della casa. Ma non per lo stesso motivo valgo di più della rondine e dell'ape poiché la prima tanto ingegnosamente costruisce i nidi e la seconda i favi. Valgo di più perché sono un animale dotato di ragione. Ma se la ragione consiste nelle misure razionalmente disposte, forse che la costruzione degli uccelli non è misurata proporzionatamente e convenientemente? Anzi ha esattezza matematica. Quindi valgo di più non perché eseguisco opere matematicamente esatte ma perché conosco l'esattezza matematica. Ma allora? Gli uccelli possono realizzare cose matematicamente esatte pur non avendone scienza? Lo possono certamente. Da dove l'hanno appreso? Da quello stesso principio per cui anche noi adattiamo in determinate proporzioni la lingua ai denti e al palato perché ne escano lettere e parole. Non pensiamo tuttavia nel parlare con quale movimento della bocca lo facciamo. Inoltre chi ha una bella voce, anche se non conosce la musica, per dote naturale ritiene nel cantare il ritmo e la melodia conservate nella memoria. E che cosa vi è di più aritmeticamente esatto? L'uomo ignorante non ne ha scienza, ma li eseguisce per dono di natura. Quando dunque vale di più e deve essere anteposto alle bestie? Quando sa quel che fa. Ma soltanto il fatto che sono animale dotato di ragione mi antepone alla bestia.
... ed è quindi indefettibile
19. 50. Com'è dunque possibile che la ragione sia immortale ed io per definizione un essere insieme ragionevole e mortale? Forse la ragione non è immortale? Ma che il rapporto fra uno e due è il medesimo che fra due e quattro è un principio razionale assolutamente vero. E questo principio non fu più vero ieri che oggi e non sarà maggiormente vero domani o fra un anno. E anche se il mondo venisse a mancare, è impossibile che tale principio razionale cessi. Esso è sempre identico a sé; al contrario il mondo sensibile ieri non ha avuto e domani non avrà ciò che ha oggi. Oggi stesso, nell'intervallo di un'ora, non ha avuto il sole nel medesimo punto dello spazio. E poiché nel mondo non v'è nulla d'immutabile, non v'è, anche in un piccolo intervallo di tempo, qualche cosa che non soggiaccia al divenire. Quindi se il pensiero è immortale ed io che sto facendo analisi e sintesi sono pensiero, la parte per cui sono considerato mortale non è il mio Io. Allo stesso modo se l'anima non è il medesimo che il pensiero e tuttavia io uso il pensiero e mediante il pensiero valgo di più, dobbiamo elevarci dalla parte peggiore alla migliore, dal mortale all'immortale. L'anima istruita riflette e medita su questi e molti altri problemi. Non voglio esporli per non oltrepassare, mentre v'insegno il principio razionale, la misura che è generatrice del principio razionale. Gradualmente l'anima si lascia guidare non solo dalla fede ma anche da una valida ragione alla nobiltà dei costumi e della vita. E se ella avrà vera visione del valore e dell'esattezza delle proporzioni numeriche, le sembrerà assai indegno e motivo di pianto che in virtù del suo sapere un verso procede bene e la cetra è in accordo col canto mentre la sua vita ed ella stessa, che è anima, procede fuori sentiero e, a causa del dominio della passione e il turpe frastuono dei vizi, è in disaccordo con se stessa.
e induce alla contemplazione dell'armonia sovrana.
19. 51. E quando avrà attuato in sé l'unità, l'ordine, l'armonia e la bellezza, potrà aver visione di Dio e della sorgente stessa da cui deriva ogni vero e dello stesso Generatore di verità. O grande Dio, come saranno quegli occhi! Quanto sani, quanto belli, quanto penetranti, quanto intenti, quanto sereni, quanto beatificati! E che cosa vedono? Che cosa, prego? Che cosa possiamo ritenere, giudicare o esprimere? Ci si presentano le parole del nostro comune linguaggio, ma esse sono rese profane perché adatte soltanto ad esprimere cose banali. Non posso dir di più se non che si promette la visione dell'armonia, dalla cui partecipazione il mondo sensibile è bello, al cui paragone è deforme. C'è chi può vederla. E la vedrà chi bene vive, chi bene prega, chi bene attende al filosofare. E non lo potrà turbare il fatto che qualcuno, desideroso di aver figli, non li ha, che un altro li esponga perché ne ha in abbondanza, che un altro, mentre stanno per nascere, non vorrebbe averli, ma una volta nati li ama. Comprenderà non essere assurdo che nulla avviene che non sia in Dio, da cui ogni cosa ha la sua necessaria ragion d'essere e che Dio tuttavia non si prega invano. Infine in che maniera le difficoltà, i pericoli, le sofferenze o le lusinghe della fortuna possono turbare quell'uomo? Dobbiamo infatti attentamente considerare la funzione di tempo e di spazio in questo mondo sensibile. Se è nell'armonia ciò che è posto in una porzione di spazio e di tempo, si deve comprendere che molto più valore ha il tutto in cui rientra quella porzione. Al contrario se è disarmonico ciò che è posto in una porzione, deve esser chiaro all'uomo di scienza che appare disarmonico soltanto perché non si ha la visione del tutto, cui quella porzione mirabilmente si adatta e che nel mondo intelligibile qualsiasi parte è bella e perfetta come il tutto. Questi concetti saranno esposti più largamente se i vostri studi cominceranno a tenere e, con matura perseveranza, conserveranno o il procedimento da me indicato o forse un altro più breve e adatto, comunque un razionale procedimento. Così esorto e spero.
c) Conclusione e congedo (20, 52-54)
Esorta la madre alla fede, Alipio allo studio.
20. 52. Ma affinché lo possiamo, ci si deve impegnare seriamente alla dignità morale. Diversamente Dio non potrà esaudirci. Esaudisce invece largamente chi vive bene. Preghiamo dunque non perché ci siano date ricchezze, onori e simili beni caduchi, incerti, malgrado qualsiasi sforzo, ma quelli che ci rendono buoni e felici. A te, soprattutto, o madre, affidiamo il ruolo che i nostri desideri si adempiano nella fede. Io credo senza incertezze e affermo che per le tue preghiere Dio mi ha concesso l'intenzione di non preporre, non volere, non pensare, non amare altro che il raggiungimento della verità. E continuo a credere che per le tue richieste conseguiremo un bene tanto grande cui abbiamo per i tuoi meriti aspirato. E perché dovrei esortare e consigliare te, o Alipio? Comunque non hai ecceduto perché di certe cose si può giustamente dire che sempre poco e mai troppo si amano".
Agostino e le dottrine esoteriche di Pitagora nel complimento finale dell'uditore anziano.
20. 53. Mi rispose: "La dottrina di uomini assai colti e insigni ci sembrava, per l'altezza del pensiero, inaccessibile. Ma tu hai ottenuto che su di essa, mediante la quotidiana meditazione e l'autorità che ti riconosciamo, non rimangano incertezze. Possiamo anzi, se fosse necessario, affermarlo con giuramento. Non è stata oggi sotto i nostri occhi dischiusa la veneranda e quasi divina dottrina che a diritto è stata ritenuta e riconosciuta di Pitagora? Hai infatti brevemente e chiaramente indicato le norme di vita e non tanto i sentieri quanto anche i terreni senza traccia e il fluido mare del sapere e perfino, ed era questo un valore custodito con disciplina esoterica dal grande filosofo, il luogo, le caratteristiche e gli eletti del santuario di verità. E sebbene noi abbiamo motivo di supporre e di credere che hai verità ancora più esoteriche, pensiamo che mancheremmo di delicatezza se volessimo chiedere ancora qualche cosa".
La risposta al complimento ed esortazione per i non eletti al filosofare.
20. 54. Risposi: "Accetto volentieri quanto hai detto. Non mi danno infatti piacere o mi confortano le tue parole che non sono vere ma l'animo sincero nelle parole. Ed è proprio bene che abbiamo stabilito d'inviare questi scritti al nostro amico che è solito dire apertamente molte bugie sul mio conto. Se per caso altri li leggeranno, non temo che si sdegnino contro di te. Chi infatti non perdona con magnanimità ad un errore di valutazione fatto da una persona che ama? Hai ricordato Pitagora. Non so per quale occulta disposizione divina, come credo, ti sia venuto in mente. M'era sfuggito del tutto un motivo molto importante che io nell'insigne filosofo approvo completamente e che, come sai, inculco quasi ogni giorno. Do per ipotesi che si debba credere agli scritti degli storici. Ma a Varrone chi non crederebbe? Pitagora dunque, secondo costui, comunicava per ultimo la teoria sull'amministrazione dello Stato ai suoi uditori ormai istruiti, perfetti, saggi e felici. Vi vedeva infatti tante tempeste da voler abbandonare ad esse soltanto un uomo che nel governo potesse evitare quasi per divino istinto gli scogli e, se gli fossero mancate tutte le difese, divenisse egli stesso scoglio alle onde. Soltanto del saggio in definitiva si può dire con verità: Egli ha resistito come un incrollabile scoglio nel mare (Virgilio, Aen. 7, 586) e i concetti che seguono, espressi in questo senso da versi assai belli".
Qui si pose fine alla discussione. Sciogliemmo la seduta con piena soddisfazione ed entusiasmo di tutti. Era stato già portato il lume della notte.