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Agostino
LIBRO TERZO
[A CARTAGINE: GLI STUDI]
1.1. Arrivai a Cartagine e mi trovai a bagno in una caldaia ribollente di amori colpevoli. Io non amavo ancora e amavo l'amore: e una più segreta povertà mi faceva odiare in me stesso proprio questo non esser povero abbastanza. Cercavo qualcosa da amare, amando l'amore, e odiavo la serenità di una via senza trappole. Avevo fame e rifiutavo il nutrimento interiore, cioè te, Dio mio: non era quello il cibo per cui mi consumavo, ma se non smaniavo per un cibo eterno non era perché ne fossi sazio: anzi più digiuno ne ero, e più nausea mi dava. Non era in buona salute l'anima, era come esulcerata e si gettava fuori, infelice, nel desiderio di farsi toccare e graffiare dai corpi: che nessuno amerebbe, se non avessero un'anima. Amare ed essere amato mi era più dolce se possedevo anche nel corpo la persona amata. E così inquinavo la sorgente dell'amicizia con i veleni della passione e offuscavo la sua chiarezza con l'inferno del sesso. Eppure, sgraziato e volgare com'ero, mi studiavo follemente, nella mia straripante vanità, d'essere raffinato ed elegante. Infine precipitai nell'amore, da cui volevo esser fatto prigioniero. Dio mio di compassione, di quanto fiele mi hai cosparso quella dolcezza! Tale è la tua bontà. Fui amato, giunsi a un segreto vincolo di intimità, e mi avvolgevo voluttuosamente in grovigli d'angoscia per cedere ai colpi delle fruste di fuoco: sì, gelosie e sospetti e paure e rabbie e litigi.
[Il teatro: una passione. Psicologia dello spettatore]
2.2. Mi affascinavano gli spettacoli teatrali, pieni di immagini delle mie angosce e di paglia per il mio fuoco. Come mai vuole piangere l'uomo in questi luoghi, davanti agli spettacoli di tragedie e morti che mai vorrebbe egli stesso soffrire? Pure, soffrire è proprio quello che lo spettatore vuole, e questa sofferenza gli è un piacere. Cos'è, se non la nostra povera follia? Meno si è immuni da quelle passioni, e più ci si commuove: anche se il proprio soffrire si chiama passione, e il soffrire per gli altri compassione. Ma infine che razza di compassione è se sono solo finzioni, effetti da teatro? Al punto che lo spettatore non è indotto a portare soccorso, ma viene solo invitato a una dolorosa immedesimazione, e apprezza tanto più l'attore tragico quanto più questa riesce. E se la recitazione di quelle disgrazie antiche o immaginarie non fa soffrire abbastanza lo spettatore, quello se ne va annoiato e protesta; se invece soffre, rimane attento e piange, e così si diverte.
2.3. Dunque amiamo le lacrime e il dolore. Senza dubbio ogni uomo desidera la gioia. E se a nessuno piace essere infelice, forse è il piacere della compassione, che non può esser senza qualche dolore, la sola ragione di amare il dolore? E anche questo è un rivolo di quella sorgente, l'amicizia. Ma dove va? Dove scorre? E perché sfocia in un fiume di pece bollente, nei gorghi di un piacere malinconico, in cui la stessa amicizia si muta e si stravolge, sviandosi e precipitando di propria iniziativa dalla sua limpida serenità? E allora bisogna rifiutare la compassione? Niente affatto. Si ami pure la sofferenza, talvolta. Ma guardati dall'impurità anima mia! Resta sotto la protezione del mio Dio, il Dio dei nostri padri glorificato e celebrato in ogni tempo, guardati dall'impurità. Non sono privo di compassione, ora: ma allora a teatro io godevo insieme con gli amanti stretti nei loro abbracci colpevoli anche se simulati soltanto per il gioco della scena, e in una sorta di compassione mi rattristavo delle loro separazioni; e in tutt'e due i modi mi divertivo. Oggi veramente provo maggior compassione di chi sguazza nelle gioie colpevoli che non di chi soffre duramente per la privazione di un piacere distruttivo e di una felicità grama. E questa è certo compassione più autentica, ma in questo caso non è un piacere rattristarsi. Anche se si approva per dovere di carità chi soffre per gli infelici, uno che abbia una compassione genuina preferirebbe che non ci fosse di che soffrire. Se esiste una benevolenza maligna - che è impossibile - allora anche chi prova vera e sincera compassione può desiderare che esistano degli infelici di cui avere compassione. La sofferenza dunque a volte la si può approvare: amarla, mai. Tu, Dio che ami le anime, senti per loro una compassione tanto più pura e incorruttibile della nostra, quanto sei invulnerabile al dolore. Ma chi può tanto?
2. 4. Ma io allora amavo quella pena, infelice, e cercavo di che procurarmela: e in quelle angosce estranee e immaginarie, da commediante, più lacrime riusciva a strapparmi l'attore e più mi piaceva la sua recitazione, e tanto più fortemente subivo il suo potere di seduzione. Non c'è da meravigliarsene, perché la povera pecora che ero, smarrita lontano dal tuo gregge e insofferente della tua sorveglianza, era deturpata da una volgarissima scabbia. E perciò questo amore della pena - non per farmene penetrare molto in profondità, perché certo non avrei amato patire io stesso quello che amavo negli spettacoli - ma quasi per farmene sfiorare l'epidermide, da quelle pene immaginarie e teatrali che erano. Ma come quando ci si gratta la scabbia, le conseguenze erano infiammazioni, gonfiori e infezioni disgustose. Ma era vita quella vita, Dio mio?
[Vita studentesca. Il piacere delle trasgressioni]
3.5. Ma alta su di me, lontana, fedele, volteggiava la tua misericordia. In che malvagie cose mi sono disperso. Ho ceduto a una curiosità sacrilega, fino a farmi trascinare, dimentico di te verso le cose più basse e infide, e a un insidioso culto dei demoni, ai quali offrivo le mie peggiori azioni in sacrificio. Ma intanto tu continuavi a fustigarmi! Perfino in mezzo alla folla delle tue cerimonie, fra le pareti della tua chiesa ho osato desiderare il frutto della morte, e darmi da fare per ottenerlo. E allora tu mi hai staffilato duramente, ed era ancora nulla in confronto alla mia colpa, o tu grandiosa misericordia mia, mio Dio, rifugio che mi scampi alla gente nefasta e devastante fra cui vagavo carico di boria, e sempre più lontano per le mie vie che amavo invece delle tue: mia fuggitiva libertà, che amavo.
3. 6. Anche gli studi cosiddetti liberali avevano il loro sbocco nei fori litigiosi dove avrei dovuto eccellere: e dove la gloria è proporzionale all'abilità negli imbrogli. Tale è la cecità degli uomini, che perfino della cecità si gloriano. Ormai ero fra i primi alla scuola di retorica e ne andavo superbo: gonfio di vento ero, benché di gran lunga più tranquillo - Signore, tu lo sai - e del tutto estraneo alle gazzarre dei "perturbatori" - già, questo soprannome sinistro e diabolico è come una patente di snobismo - fra i quali vivevo. Serbavo dunque un certo pudore nell'impudenza, perché io non ero come loro: stavo con loro a volte, e mi divertiva la loro amicizia, ma evitavo sempre con orrore di partecipare alle loro imprese, cioè alle gazzarre prepotenti con cui aggredivano la timidezza dei nuovi arrivati e li spaventavano a furia di scherzi gratuiti, giusto per sfogare la loro maligna allegria. Niente è più simile alle azioni dei demoni. Non ci sarebbe stato nomignolo più adatto di "perturbatori", perturbati com'erano essi stessi per primi e pervertiti da quegli spiriti beffardi: vittime delle loro seduzioni e dei loro raggiri, per il solo fatto di prender tanto gusto alle beffe e ai raggiri.
[La scoperta della filosofia]
4.7. Erano questi i compagni di un'età ancora oscillante, che trascorsi studiando i libri d'arte oratoria: in cui aspiravo a emergere, col fine fatuo e deplorevole di godermi i fasti della vanità umana. E già, secondo il consueto ordine degli studi, mi era venuto in mano un libro di un certo Cicerone, la cui lingua è oggetto di universale ammirazione: cosa che non si può dire del suo spirito. Ma quel suo libro contiene un'esortazione alla filosofia: Ortensio, è intitolato. Ed è proprio quel libro che ha mutato il mio modo di sentire: ha convogliato verso di te, mio signore, tutte le mie suppliche e mi ha fatto nascere altre ambizioni, altri progetti. Erano all'improvviso senza alcun valore, tutte quelle speranze della mia vanità: e nel mio cuore divampò un'incredibile passione per l'immortalità della sapienza. Cominciava il risveglio che mi avrebbe ricondotto a te. Quel libro io non lo usai per affinare il mio linguaggio, cioè per l'acquisto cui parevano destinati i soldi di mia madre: avevo diciott'anni, e mio padre era morto due anni prima. Non lo usai per affinare il mio linguaggio: perché era ciò che diceva ad avermi persuaso, e non come lo diceva.
4. 8. Che incendio, mio Dio, che incendio questo in cui mi struggevo di levarmi in volo per ritornare a te, via dalle cose terrene, e non sapevo cosa volevi far di me! Sta presso di te la Sapienza. Ma l'amore della sapienza ha il nome greco di filosofia, e per quel nome mi accendevo, leggendo. Si può sedurre, con la filosofia: c'è gente che usa il suo grande nome affascinante e nobile per imbellettare e mascherare i propri errori, e quasi tutti quelli di questa razza, contemporanei o precedenti all'autore, sono segnalati e bollati in quel libro. Là si mostra salutare il consiglio donato dal tuo spirito per bocca del tuo buon servo devoto: Badate che nessuno vi inganni con la filosofia e la vana seduzione conforme alla tradizione umana, conforme agli elementi di questo mondo e non conforme a Cristo, perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità. A quel tempo, lo sai, lume del mio cuore, ancora non conoscevo queste parole dell'Apostolo: ma in quella esortazione bastava ad avvincermi l'invito, che il discorso mi faceva, ad amare non questa o quella setta ma la sapienza stessa, dovunque fosse: e a cercarla, conseguirla, possederla e stringerla a sé con forza. Quel discorso mi accendeva e mi faceva ardere, e in tanto fuoco una cosa sola mi raffreddava, che non vi comparisse il nome di Cristo, perché questo nome - secondo la tua bontà, Signore - questo nome del mio Salvatore, tuo figlio, il mio cuore ancora intatto l'aveva fiduciosamente succhiato col latte materno e lo conservava nel profondo. E senza questo nome qualunque opera, per quanto dotta e raffinata e veridica, non mi conquistava del tutto.
[Primo approccio alla Bibbia ...]
5.9. Così decisi di mettermi a leggere le Sacre Scritture, per vedere com'erano. E cosa mi trovo davanti? Qualcosa di oscuro ai superbi ma non più accessibile ai piccoli, basso all'approccio e sublime a procedere e velato di misteri: e io non ero il tipo da riuscire a passarci, magari chinando la testa, per quel suo ingresso. Perché quello che sto dicendo non ha niente a che fare con l'impressione che quel modo di scrivere mi fece allora, quando mi misi a occuparmene: ma mi sembrò semplicemente indegna del confronto con la dignità ciceroniana. La mia tronfiaggine rifuggiva dalla sua misura, e tutto il mio acume non riusciva a penetrare al suo interno. E invece era fatta per crescere coi piccoli, ma io disdegnavo di farmi piccolo, ed ero gonfio di boria a furia di darmi delle arie.
[L'incontro col manicheismo]
6.10. Fu così che mi trovai in mezzo a persone pazze d'orgoglio, eccessivamente attaccate alla carne e alla chiacchiera, che in bocca avevano i lacci del diavolo e il vischio di una rimasticatura di sillabe: mozziconi del tuo nome, e di quelli del signore Gesù Cristo e del Paracleto nostro consolatore, lo Spirito Santo. Li avevano sempre sulle labbra, questi nomi: ma non erano che strepito e vento. Del resto avevano il cuore vuoto - di verità. "Verità, verità" ripetevano, e ne facevano un gran parlare con me, e in loro non ce n'era un'ombra. E ne facevano tante di asserzioni false: e non soltanto su di te, che veramente sei la verità, ma anche sugli elementi di questo mondo, creatura tua: e figuriamoci che su questo punto sono dovuto passare oltre i filosofi che ne parlavano in modo veridico, per amor tuo, padre mio e bene sommo, bellezza di ogni cosa bella. O verità, verità, come si struggevano per te fin da allora le viscere della mia mente, mentre quelli mi rintronavano continuamente e in tutte le maniere col suono del tuo nome e il peso enorme dei loro numerosi libri! E quelli erano i vassoi in cui al posto di te si offriva alla mia fame il sole e la luna, opere tue: belle, sì, ma pur sempre tue creature, ben diverse da te e anche dalle prime cose. Perché prima di questi corpi per quanto luminosi e celesti vengono le tue creature spirituali. E io neppure di quelle, ma di te sola avevo fame e sete, verità in cui non c'è mutamento né passa l'ombra delle stagioni. E invece mi ammannivano su quei vassoi splendidi fantasmi, così che tanto valeva amare questo sole che almeno per questi occhi è vero, piuttosto che quelle fantasie di una mente incline a farsi illudere dagli occhi. Eppure le prendevo per te e le bevevo: non avidamente però, perché in bocca poi non era quello il tuo sapore - infatti con quelle vacue invenzioni tu non avevi nulla a che fare - e non me ne sentivo nutrito, ma sempre più affamato. Il cibo dei sogni è quanto di più simile a quello degli uomini desti: ma i dormienti non ne sono nutriti, perché dormono. Ma quei sogni non erano neppure affatto simili a te che mi parli ora: perché erano fantasmi di corpi, corpi immaginari, meno certi di questi veri corpi che vediamo con occhi di carne, celesti o terreni. Li vediamo e come noi li vedono le bestie e gli uccelli, e sono più certi di quando li immaginiamo. E questi corpi immaginati a loro volta sono più certi di quelli più grandi, infiniti, che immaginiamo per analogia, e che non sono più niente del tutto. Come quelle vuotaggini appunto di cui allora mi nutrivo, senza nutrirmi affatto. Ma tu, amore mio, cui m'abbandono per essere forte, tu non sei questi corpi che vediamo, e sia pure in cielo, e nemmeno sei quelli che lassù non vediamo: perché ne sei l'autore e neppure li annoveri fra le tue opere più alte. E allora quanto più lontano sei da quelle mie immaginazioni, fantasmi di corpi che non esistono affatto! Sono più certe di loro le immagini fantastiche dei corpi che esistono, e più certi di queste i corpi stessi: ma non sono te. Ma neppure sei l'anima, che è la vita dei corpi - e indubbiamente vale più dei corpi, la loro vita. Tu sei la vita delle anime, vita delle vite, che vivi di te stessa e non ti muti, tu vita di questa anima.
[Il Dio dell'intimo e le favole]
6. 11. Dov'eri allora, e quanto eri lontano? E io vagavo lontano da te, respinto perfino dalle ghiande dei porci, che di ghiande nutrivo. Già: quanto erano meglio le favole dei letterati e dei poeti di quelle trappole! I versi e la poesia e il volo di Medea servono certo più dei cinque elementi variamente cucinati per i cinque antri delle tenebre, che non hanno nemmeno un'ombra di esistenza e uccidono chi ci crede. Perché da versi e poesia io traggo anche un vero nutrimento: ma se cantavo il volo di Medea non pretendevo di asserirlo, e se lo udivo cantare non ci credevo: invece credetti a quelle fantasie. E guai a me! Quanti gradini ho disceso verso il fondo dell'inferno, affannato e riarso dalla carestia del vero, al tempo in cui, Dio mio - io lo confesso a te che allora fosti indulgente, quando non ti confessavo ancora - ti cercavo con gli occhi della carne. Non con l'intelligenza della mente, per cui tu m'hai voluto superiore alle bestie. Ma tu m'eri più interno del mio intimo stesso, e superiore al sommo di me stesso. Su quella via incontrai la donna sfrontata e sprovveduta, l'allegoria di Salomone che siede alla porta di casa e va dicendo: il pane nascosto è più buono, più dolce è l'acqua rubata. Costei mi sedusse, perché mi trovò allo scoperto, insediato nell'occhio della carne, a ruminare quello che attraverso di lui avevo divorato.
7.12. Ignaro dell'Altro, che solo è vero, ero quasi capziosamente indotto ad approvare i miei stolti ingannatori, quando mi interrogavano sull'origine del male e se Dio fosse delimitato da una forma corporea e avesse capelli e unghie, e se si dovessero stimare giuste persone che avevano molte mogli contemporaneamente e ammazzavano altri uomini e facevano sacrifici animali. Io che ignoravo tutto questo ne restavo scosso: e mi sembrava di avvicinarmi alla verità proprio mentre me ne allontanavo, perché non sapevo che il male non è che privazione di bene fino al nulla assoluto. E come avrei potuto vederlo, se i miei occhi non vedevano oltre i corpi e la mia mente oltre i fantasmi? Non sapevo che Dio è spirito, e non ha lunghezza e larghezza di corpo e non ha massa: perché la parte di una massa è minore del tutto, e se la massa è infinita, la parte delimitata entro un certo spazio è minore del tutto illimitato, e non è tutta intera dappertutto come lo spirito, come Dio. E che cosa sia in noi che ci fa essere, e come dice giustamente la Scrittura, a immagine di Dio, lo ignoravo del tutto.
[La Legge e le leggi]
7. 13. Neppure conoscevo la giustizia vera, interiore, che non giudica in base alle consuetudini, ma secondo la legge rettissima di Dio onnipotente, da cui ricevono forma gli usi dei paesi e dei giorni, che a questi appunto sono relativi, mentre quella è la stessa sempre e dovunque e non varia nello spazio e nel tempo. In base a quella legge sono giusti Abramo e Isacco e Giacobbe e Mosè e Davide e tutti quelli lodati per bocca di Dio; ma gli ignoranti li giudicano ingiusti perché giudicano in base alla giornata umana e la totalità delle usanze del genere umano la misurano con la parte che è toccata a loro. Come se uno che ignora a quali parti del corpo si adattino i vari pezzi di un'armatura volesse ficcarsi in testa un gambale e calzare l'elmo ai piedi, e poi si lamentasse che non vanno bene. Come se in un pomeriggio dichiarato festivo uno si irritasse di non avere il permesso di girare con la sua mercanzia, solo perché di mattina l'aveva; o se uno vedendo in una stessa casa un servo che mette le mani dove al coppiere è proibito di metterle, o vede fare dietro le stalle cose vietate davanti alla mensa, si indignasse perché nella stessa abitazione e nella stessa famiglia non si danno a tutti e in ogni luogo le stesse funzioni. Così si comportano costoro, indignandosi quando vengono a sapere che a quel tempo era lecito ai giusti qualcosa che oggi non lo è, e che Dio ha imposto a quelli una condotta, a questi un'altra, per ragioni determinate dalle circostanze: mentre gli uni e gli altri servono la medesima giustizia. Come in uno stesso uomo, in uno stesso giorno, in una stessa casa a ciascun membro si addice una diversa funzione; e un comportamento che era lecito fino a una certa ora non è più consentito scaduta quella, e un'azione è consentita o addirittura comandata in un angolo, e nell'angolo vicino è vietata e punita. Forse che la giustizia è varia e mutevole per questo? Ma i tempi cui essa presiede non vanno di pari passo: altrimenti non sarebbero diversi tempi. E gli uomini hanno vita breve sopra la terra, e non riescono a vedere i nessi fra le loro ragioni, di cui hanno esperienza, e quelle di epoche passate e di altri popoli, perché non le hanno vissute. Eppure in un corpo, in un giorno, in una casa possono facilmente vedere che ogni membro, ogni momento, ogni locale o persona hanno quello che loro conviene: ma in questo caso sono pronti a sottomettersi, mentre nell'altro restano urtati.
7. 14. Io stesso allora ignoravo tutto questo e non me ne rendevo conto, e benché l'avessi dappertutto sotto gli occhi non lo vedevo. E componevo poesie e non mi permettevo di collocare un piede qualunque in una qualunque posizione: ma a seconda della forma metrica dovevo adoperare piedi diversi in diverse sedi, e anche nel corpo dello stesso verso non potevo collocare lo stesso piede in qualunque posizione; eppure l'arte che seguivo nel comporre non era distribuita in pezzi diversi da caso a caso, ma li contemplava tutti simultaneamente. Però non vedevo che quella giustizia al cui servizio erano uomini di Dio, uomini dabbene, contemplava anch'essa simulta-neamente - e da una posizione molto più elevata e sublime - tutte le sue prescrizioni: e senza variazioni in alcuna delle sue parti impartiva comportamenti appropriati alle varie epoche; non tutti in una volta, ma a ciascuna i suoi. E nella mia cecità criticavo i nostri padri devoti, che non soltanto si adeguavano alle necessità del presente secondo la legge e l'ispirazione divina, ma preannunziavano gli eventi futuri, secondo le rivelazioni di Dio.
[I generi di infrazioni]
8.15. C'è forse un tempo o un luogo in cui sia ingiusto amare Dio con tutto il cuore e tutta l'anima e tutta la mente, e amare il prossimo come se stessi? Così le azioni contro natura, com'erano quelle dei sodomiti, dovunque e sempre vanno odiate e punite. E se anche tutti i popoli le praticassero, sarebbero imputati dello stesso reato dalla legge divina, che non ha fatto gli uomini come sono perché facessero di se stessi un uso simile. Si viola l'accordo che deve sussistere fra noi e Dio quando si inquina la natura di cui egli è l'autore con passioni che la sovvertono. Quanto poi alle azioni contro le usanze degli uomini, queste vanno evitate dove le usanze le proibiscano, affinché il patto che la legge o la consuetudine stabilisce fra gli abitanti di una città o di una nazione non sia violato dall'arbitrio di un cittadino, o di uno straniero. Perché ogni parte che non s'accorda col suo intero è brutta. Ma se è Dio a imporre un comportamento contrario a qualunque usanza o patto, anche se in quel luogo non s'era mai visto, bisogna adottarlo, e se lo si era tralasciato, instaurarlo, e stabilirlo se non era stabilito. Infatti è lecito a un re nel suo regno emettere un decreto che non era mai stato emesso prima né dai suoi predecessori né da lui, e obbedirvi non è rompere gli accordi di una società civile, anzi lo è disobbedirvi: perché il patto su cui si regge in generale una società umana è l'obbedienza al suo re. Dunque a maggior ragione bisognerà sottomettersi senza esitare ai decreti del Dio che regna sull'universo creato. Come nella gerarchia delle società umane il potere maggiore impone obbedienza al minore, così Dio la impone a tutti.
8. 16. Lo stesso dicasi per i crimini riconducibili alla volontà di offendere con parole o con azioni o con entrambi, quale che ne sia il movente: quello di vendicarsi, come avviene fra nemici, o di impadronirsi di un bene altrui, come fa il bandito da strada, o di evitare un danno, come accade a chi incute paura, o il movente dell'invidia, che l'infelice prova nei confronti del più felice, e chi ha avuto successo in qualche cosa prova verso un temuto o mal tollerato concorrente; o anche il semplice gusto del male altrui, tipico di chi assiste agli spettacoli dei gladiatori o anche di chi si diverte a schernire il suo prossimo o a prendersene gioco. Sono questi i capi dell'ingiustizia che rampollano dalle passioni del potere, del vedere e del godere - da una o due di esse o da tutt'e tre insieme - e con loro si vive male, stonando sulle tre e sulle sette corde della tua arpa, il decalogo, Dio altissimo e dolcissimo. Ma quali vizi possono offendere te, che non sei intaccabile? E che delitti si possono compiere contro di te, cui nessuno può nuocere? Ma tu vendichi appunto il male che gli uomini fanno a se stessi, perché anche quando peccano contro di te agiscono spietatamente contro le proprie anime: e la lo-ro iniquità mente a se stessa, intaccando e sovver-tendo la loro natura, da te creata e ordinata, o usando senza misura del lecito o bruciando dalla voglia dell'illecito per farne un uso che è contro natura. Colpevoli sono al tuo cospetto anche quelli che con la mente e il linguaggio si rivoltano contro di te e tentano di sfuggire al tuo pungolo scalciando, o quelli che infrangono le barriere della società umana per godersi sfrontatamente i loro accordi o i loro tradimenti privati, senza altra legge che i propri gusti o disgusti. E tutto questo avviene quando si abbandona te, fonte di vita, unico e vero autore e principe dell'universo: e nel proprio orgoglio solitario ci si apparta ad amarne uno solo, ma falso. Così è con la devozione degli umili che si ritorna a te, e tu ci liberi dall'abitudine al male e sei indulgente verso i peccati che si confessano e ascolti i lamenti di chi giace in ceppi e ci sciogli dai nodi con cui noi stessi ci siamo legati, purché non leviamo più contro di te le corna di una falsa libertà, nella nostra avidità di possedere di più e nel rischio di perdere tutto, per amare il nostro bene particolare più di te, che sei il bene universale.
9.17. Ma accanto a vizi, infrazioni e torti di tanti generi ci sono i peccati di chi progredisce verso la perfezione, che col metro di questa vengono biasimati dai buoni giudici, ma anche apprezzati nella speranza del raccolto, come l'erba in vista del grano. E ci sono azioni che somigliano a vizi e a infrazioni e tuttavia non sono peccati, perché non offendono né te, Signore Dio nostro, né il consorzio civile. Ad esempio l'accumulazione di beni d'uso corrente, quando è dubbio che si tratti di avidità di possesso, o la punizione ordinata dall'autorità con intento correttivo, quando è dubbio che si tratti del piacere di infliggere una sofferenza. E così molte azioni che agli uomini sembrano riprovevoli trovano approvazione ai tuoi occhi, e molte che gli uomini lodano sono condannate dalla tua testimonianza. Perché spesso l'apparenza dell'azione è diversa dall'intenzione dell'agente e diversa l'opportunità dell'attimo, che ci resta segreta. Ma accade che tu all'improvviso dia un ordine inconsueto e inatteso, rovesciando un divieto che avevi imposto in altri tempi, e mettiamo pure che al momento tu mantenga segreta la ragione di quest'ordine, e mettiamo pure che esso sia contro il patto che ha riunito un gruppo di uomini in una società. Bene: chi avrebbe un dubbio che bisogna obbedire, quando giusta è solo quella società umana che serve te! Ma beati quelli che sanno che da te viene l'ordine. Perché tutte le azioni di chi serve te si compiono per rivelare ciò che il presente richiede, o per preannunziare il futuro.
[Il fico e le scintille divine]
10.18. Ignaro di tutto questo io ridevo di quei santi servi e profeti tuoi. E con che risultato, se non quello di farti ridere di me, che a poco a poco mi lasciavo infarcire di sciocchezze fino al punto di credere che il fico piange quando lo si coglie, e anche la pianta sua madre: lacrime di latte. Però se un santo lo mangiasse, quel fico - una volta commesso il delitto di coglierlo, da un altro, non da lui, s'intende - e lo digerisse ben bene, fra i gemiti dell'orazione farebbe venire su fiati e rutti d'angeli, o addirittura particelle di Dio: le quali particelle sarebbero rimaste imprigionate in quel frutto, se non ne fossero state liberate dai denti e dallo stomaco dell'eletto. E arrivai al punto di credere, infelice, che bisognasse esser più pietosi coi frutti della terra che con gli uomini, per i quali essi nascono. Se uno che moriva di fame ma non era manicheo avesse chiesto aiuto, il boccone concesso mi sarebbe sembrato condannato alla pena capitale.
[Il sogno di Monica. Una donna tenace]
11.19. E tu stendesti la tua mano dall'alto e strappasti l'anima mia a questa nebulosa profondità. Intanto mia madre che credeva in te piangeva per amor mio più di quanto una madre piangerebbe la morte fisica di suo figlio. Vedeva la mia morte grazie alla fede e allo spirito ricevuto da te, e tu le porgesti ascolto, Signore. L'hai ascoltata e non hai disprezzato i fiumi di lacrime di cui rigava il terreno sotto i suoi occhi in ogni luogo di preghiera: l'hai ascoltata. Perché da dove le venne il sogno con cui l'hai confortata nella decisione di vivere con me e dividere la mensa nella stessa casa? Dopo che inizialmente aveva rifiutato di farlo, non potendo tollerare i miei blasfemi errori. Si vide in piedi sopra un metro di legno, e le veniva incontro un giovane luminoso e lieto e le sorrideva, a lei che era afflitta e anzi sopraffatta dall'afflizione. E questi le chiese le ragioni della sua tristezza e delle sue lacrime quotidiane: più per darle un consiglio che per sapere, come spesso accade: e lei rispose che piangeva sulla mia rovina. Al che l'altro per tranquillizzarla la esortò a guardar bene: non vedeva che dove era lei ero anch'io? Ella allora guardò bene e mi vide accanto a sé, in piedi sulla stessa asta. Qual era l'origine di questo sogno, se non che il tuo orecchio era sul suo cuore, o bene onnipotente che ti prendi cura di ciascuno di noi come se avessi solo lui da curare, e di tutti come di ciascuno.
11. 20. E come si spiega anche questo, che avendomi raccontato il sogno, e tentando io di dedurne che era lei piuttosto ad apprestarsi a divenire quale io ero, e non doveva disperarsene, subito senza un attimo di esitazione "No," replicò "perché non mi ha detto: dove è lui sei anche tu, ma dove sei tu è anche lui". Ti confesso, Signore, quello che mi riaffiora alla memoria, e non ne ho mai fatto mistero: ancora più del sogno mi colpì questo tuo responso che mia madre mi diede a mente desta, quando, senza lasciarsi per nulla turbare da un'interpretazione falsa ma plausibile come la mia, vide tanto prontamente quello che era da vedere - e che io certo non avevo visto prima che lei me lo dicesse. Un sogno che con tanto anticipo annunciava a quella religiosa donna, a consolarla dell'angoscia presente, la gioia che tanto più tardi doveva toccarle. Ben nove anni passarono infatti: e io continuavo a rivoltarmi nel fango di un abisso e nel buio dei pensieri falsi, e spesso tentai di rialzarmi per ricadere più pesantemente. Intanto lei, che era una di quelle vedove caste, devote e sobrie che tu ami, sempre pronta alle lacrime e ai sospiri anche se ora aveva un po' di sollievo dalla speranza, non tralasciava mai durante le sue preghiere di invocare il tuo aiuto per me, e le sue preghiere giungevano al tuo cospetto: eppure ancora mi lasciavi avvolgere e rivoltare nella nebbia.
12.21. E un altro responso mi hai dato a quell'epoca, che ora torna alla memoria (molte cose tralascio nella fretta di arrivare a ciò che più mi preme confessarti, e molte altre non le ricordo). Un responso, dunque, dato attraverso un tuo sacerdote, un vescovo allevato nella chiesa ed esperto dei tuoi libri. Quando quella donna lo pregò - come era solita fare con tutte le persone che le parevano adatte allo scopo - perché si degnasse di parlare con me e di confutare i miei errori e di distogliermi dalle male dottrine per insegnarmi quelle giuste, quello rifiutò, e saggiamente, come capii più tardi. Rispose infatti che ero ancora sordo a ogni insegnamento, perché tutto gonfio della novità di quell'eresia, e con le mie sottigliezze avevo già messo in agitazione parecchi sprovveduti, come aveva saputo da lei. "Ma," disse, "lascialo stare dov'è. Prega soltanto il Signore per lui. Troverà da solo, leggendo, che errore sia quello e quanto grande la sua empietà". Poi le raccontò come anche lui da ragazzino fosse stato affidato ai Manichei da sua madre, che ne era rimasta affascinata, e disse che non solo aveva letto quasi tutti i loro libri, ma se li era anche trascritti, e mentre lo faceva gli si era reso evidente, senza che nessuno discutesse con lui e cercasse di convincerlo, che bisognava fuggirla, quella setta. E così aveva fatto. Ma lei nonostante queste parole non voleva rassegnarsi e insisteva, con implorazioni e lacrime sempre più abbondanti, perché mi vedesse e parlasse con me: e quello, che ormai non ne poteva più, concluse: "Lasciami in pace e continua a vivere così, non è possibile che il figlio di tante lacrime perisca". Parole che ella, nelle nostre conversazioni, ricordava spesso di aver accolto come se fossero risuonate dal cielo.