Percorso : HOME > Opera Omnia > Confessioni > Italiano

le confessioni di sant'agostino

 Sant'Agostino scrive le sue opere

Agostino

 

 

LIBRO SESTO

 

 

[A TRENT'ANNI]

1.1. Speranza mia venuta dalla giovinezza, dov'eri allora, dove eri nascosta? Non eri stato tu a farmi come sono, distinto dai quadrupedi, più sapiente degli uccelli del cielo? E camminavo nel buio sopra il viscido e ti cercavo fuori di me e non trovavo il Dio del mio cuore, ed ero sceso fino in fondo al mare e non avevo più fiducia e disperavo di trovare il vero. Già mi aveva raggiunto, forte di devozione, mia madre che mi seguiva per terra e per mare, in te sicura anche in mezzo ai pericoli. Lei che in ogni frangente avventuroso confortava i marinai, invece di riceverne conforto, come succede ai viaggiatori inesperti ancora dell'abisso quando li prende la paura: e prometteva loro che sarebbero approdati sani e salvi, perché tu stesso glielo avevi promesso mandandole una visione. E mi trovò nel mezzo del pericolo estremo, che disperavo fosse possibile la ricerca della verità: e tuttavia quando le accennai al fatto che non ero più manicheo, ma neppure cristiano cattolico, non esultò come di una bellissima sorpresa: già si sentiva tranquilla, per quella parte della mia condizione infelice, dato che mi piangeva come un morto in attesa di resurrezione, e mi offriva a te sul catafalco del suo pensiero, perché dicessi al figlio della vedova: Giovane, dico a te, alzati - ed egli tornasse a vivere e prendesse a parlare e tu lo rendessi a sua madre. Non si lasciò dunque sconvolgere da una gioia violenta alla notizia che già in così buona parte era accaduto ciò che ogni giorno ti implorava di far accadere: non avevo ancora conseguito la verità, ma ero ormai stato sottratto alla menzogna. Anzi poiché era certa che anche il resto lo avresti concesso, tu che tutto avevi promesso, mi rispose tranquillissima che riponeva piena fiducia nel Cristo e credeva che prima di andarsene da questa vita mi avrebbe visto cattolico credente. E questo fu ciò che disse a me: a te, fonte di accorate dolcezze, offrì tanto più fitte lacrime e preghiere, perché affrettassi il tuo aiuto e illuminassi la mia oscurità. E con maggior passione correva in chiesa e pendeva dalle labbra di Ambrogio, questa fonte d'acqua che zampilla verso la vita eterna. Amava quell'uomo come un angelo di Dio, da quando aveva saputo che era stato lui a guidarmi nel frattempo almeno fino a quella perplessità oscillante attraverso la quale - ne era certa - sarei passato dalla malattia alla salute, superando, per dirla coi medici, il rischio più grave di un accesso critico.

 

2.2. Una volta portò della farinata, del pane e del vino per la commemorazione funebre dei santi, come aveva l'abitudine di fare in Africa. Si trovò di fronte al divieto del custode: alla notizia che era stato il vescovo a imporlo, lo accettò con tanta devozione e obbedienza che io stesso restai meravigliato dalla prontezza con cui ripudiò la propria consuetudine piuttosto di contestare quella proibizione. Certo il suo spirito non si lasciava offuscare dal gusto del bere fino a indurla a odiare il vero per amor del vino, come accade a molti uomini e donne che a sentire un inno alla sobrietà si fanno prendere dalla nausea come gli ubriachi davanti a una bevanda annacquata. Mia madre, quando portava il paniere con le vivande rituali da assaggiare e offrire, non brindava che con un bicchierino di vino diluito a misura del suo palato davvero sobrio, tanto per cortesia; e se erano molti i defunti da commemorare a quel modo, lei si portava in giro e levava sempre quell'unico bicchiere, ormai non solo annacquatissimo ma anche affatto tiepido, e a piccoli sorsi se lo divideva con gli altri astanti: perché era pietà questa, non piacere. Così quando seppe che quel predicatore famoso, quel maestro di fede aveva ordinato di evitare quei riti anche a quelli che li avrebbero eseguiti con sobrietà, per non dare ai bevitori occasione di ubriacarsi solennemente, e per l'estrema somiglianza che quella sorta di parentali avevano con le cerimonie dei gentili, mia madre fu ben lieta di astenersene. In luogo di un canestro pieno di frutti della terra aveva imparato a portare alle commemorazioni dei martiri un cuore pieno di desideri più puri, e dava ai poveri quanto poteva, così che là venisse celebrata la comunione del corpo del Signore: perché fu a imitazione della sua passione che si immolarono e ottennero la loro corona i martiri. Eppure io credo, mio Signore e Dio - e la mia convinzione è davanti ai tuoi occhi - che forse non sarebbe stato così facile a mia madre rinunciare a questa sua consuetudine se a proibirla fosse stato un altro, uno meno caro al suo cuore di Ambrogio. E Ambrogio lo amava soprattutto per amor mio, della mia salute: e lui amava lei per il suo religiosissimo modo di vivere, che la induceva a tante buone opere e all'ardore di spirito con cui frequentava la chiesa: tanto che spesso, vedendomi, nel bel mezzo di un sermone non si peritava di congratularsi con me per avere una madre come quella: non sapendo quale figlio lei aveva in me, che dubitavo di tutto questo ed ero assai scarsamente convinto si potesse trovare la via della vita.

 

[La figura di Ambrogio]

3.3. Ancora non gemevo implorando il tuo aiuto, avevo la mente intenta alla ricerca e inquieta per le dispute. Lo stesso Ambrogio lo ritenevo un uomo fortunato in questo mondo, dato il prestigio di cui godeva presso le più alte istanze del potere: la sua unica tribolazione mi pareva fosse il celibato che osservava. Quale speranza si portasse dentro, che lotte dovesse sostenere contro le tentazioni stesse della sua eccellenza o che conforti avesse nelle situazioni avverse, e come la segreta bocca del suo cuore, poi, assaporasse le delizie del tuo pane, io tutto questo non solo non lo conoscevo per esperienza, ma non ero neppure in grado di supporlo. Neppure lui sapeva delle mie tempeste né del burrone sopra il quale mi trovavo in bilico. Non gli potevo chiedere quello che volevo e come volevo, date le caterve di gente affannata che con tutte le loro magagne mi bloccavano l'accesso alle sue orecchie e alla sua bocca, e al cui servizio egli viveva. E il pochissimo tempo che non passava con loro lo impiegava a ricrearsi il fisico con il minimo indispensabile, o la mente con la lettura. Leggeva scorrendo le pagine con gli occhi, il cuore intento a penetrare il senso, mentre voce e lingua riposavano. Spesso eravamo presenti (a nessuno era proibito entrare e non c'era l'uso di farsi annunciare) e lo vedevamo leggere in silenzio, mai in altro modo: e restavamo magari seduti a lungo, muti - chi avrebbe osato disturbare una persona così concentrata? - e poi ce ne andavamo, pensando che egli disponeva di quel poco tempo per dare alla mente un po' di riposo e vacanza dallo strepito degli affari altrui: certo non avrebbe gradito d'essere nuovamente distratto; e forse tentava di evitare d'esser costretto da un uditore attento e curioso a spiegare qualche passo oscuro che stava leggendo o a discutere qualche questione un po' difficile, così che questa perdita di tempo gli avrebbe impedito di scorrere tutti i volumi che desiderava. Benché anche per conservare la voce, che facilmente gli si abbassava, poteva esser più conveniente leggere in silenzio. Insomma qualunque fosse la sua intenzione in questo comportamento, non poteva che essere buona, dato l'uomo.

 

[La lezione di Ambrogio: lo spirito e la lettera]

- 4. Certo è che non avevo grandi occasioni di interrogare a mio talento quel tuo santo oracolo, nel suo intimo - a meno di non fare domande assai brevi. Ma quelle mie tempeste lo volevano veramente libero e disponibile per potersi riversare su di lui, e tale non lo trovavano mai. E ogni domenica l'ascoltavo spiegare bene la parola della verità in mezzo al popolo, e sempre più mi confermavo nella convinzione che tutti i grovigli di malizia e calunnie stretti intorno ai libri divini da quei nostri ingannatori potevano esser sciolti. Infine appresi che la creazione dell'uomo a tua immagine non è intesa dai tuoi figli spirituali, che tu hai rigenerato per mezzo della grazia dalla madre cattolica, nel senso che essi credano te delimitato dalla forma del corpo umano: anche se non avevo la minima idea, neppure oscura come in un enigma, di cosa fosse una sostanza spirituale. Questo mi riempì di gioia e di vergogna per aver abbaiato tanti anni non contro la fede cattolica, ma contro le fantasticherie di un pensiero inchiodato alla carne. Certo io ero stato temerario ed empio, perché avevo fatto asserzioni e accuse là dove avrei dovuto invece fare domande e studi. Perché tu, altissimo e vicinissimo, mistero ed evidenza assoluti, che non hai membra più piccole e più grandi, ma sei ovunque tutto e non sei in nessun luogo, non certo per aver tu questa forma corporea hai fatto l'uomo a tua immagine e somiglianza: l'hai fatto, ed eccolo lì da capo a piedi nello spazio.

 

4.5. Siccome ignoravo il modo in cui bisognava intendere questa tua immagine, avrei dovuto, bussando, porre questo problema di quale fosse il modo giusto di credere, non sbattere la porta con disprezzo contro la credenza che immaginavo io. Tanto più mi rodeva, dunque, l'angoscioso bisogno di qualcosa che potessi ritenere certo, quanto più mi vergognavo di essermi fatto per tanto tempo illudere e ingannare da una promessa di certezze e di aver commesso l'errore puerile di spacciare per certe, con tanto entusiasmo, tutte quelle dottrine incerte. Che fossero positivamente false mi si chiarì solo più tardi. Era però certo almeno che erano incerte e che io le avevo una volta ritenute certe, al tempo delle mie cieche requisitorie contro la tua chiesa cattolica, e per quanto ignorassi i suoi insegnamenti veri certo non insegnava ciò di cui la rimproveravano le mie gravi accuse. Mi sentivo confuso e prossimo a una svolta: e anche pieno di gioia, Dio mio, che l'unica Chiesa, il corpo del tuo unigenito, in cui da bambino mi fu inculcato il nome di Cristo, non prendeva gusto a delle sciocchezze infantili, e non era un articolo della sua sana dottrina che tu, creatore dell'universo, fossi confinato in uno spazio, alto e largo quanto si voglia, e tuttavia limitato tutt'intorno dalla figura del corpo umano.

 

- 6. Un altro motivo di gioia era che i libri della Legge e dei Profeti non mi venivano più proposti alla lettura in quella visuale che me li aveva fatti parere assurdi, quando li attaccavo per le concezioni che falsamente attribuivo ai tuoi santi: in realtà non era affatto quello il loro modo di pensare. Ero ben contento di sentire Ambrogio raccomandare così spesso e colla massima sollecitudine nel corso dei suoi pubblici sermoni, come una regola, la massima che la lettera uccide, lo spirito invece vivifica. E quando, rimuovendo il loro velo mistico, dava un'interpretazione spirituale a certi passi che presi alla lettera sembravano insegnamenti perversi, faceva asserzioni che riuscivano a non ferirmi, benché ancora ignorassi se erano vere. Trattenevo il mio cuore da ogni assenso per paura del precipizio, eppure restando così sospeso mi sentivo morire anche di più. Già: volevo aver sulle cose invisibili una certezza pari a quella che due più due fa quattro. Non ero infatti così pazzo da credere che neppure questo si potesse afferrare, ma volevo afferrare allo stesso modo tutte le altre verità: sia quelle concernenti cose tangibili ma non attualmente sotto i miei occhi, sia quelle relative alle cose dello spirito, di cui non ero capace di farmi un'idea se non in termini materiali. E avrei potuto esser guarito dalla fede, così che lo sguardo dell'intelligenza potesse dirigersi più puro verso la tua verità che dura eterna senza venire meno: ma, come spesso succede a chi ha avuto esperienza di un cattivo medico, che ha paura di affidarsi anche a uno buono, così quel mio male dell'anima era tale che da una parte non poteva esser guarito che dal credere, dall'altra per paura di prestar fede al falso ricusava di farsi curare e resisteva alle tue mani. A te che pure hai preparato i rimedi della fede e li hai sparsi sulle malattie del mondo, dotandoli di tanto potere.

 

[Meditazioni sulla natura del credere]

5.7. Da quel momento però cominciai a rendermi conto che una preferenza per l'insegnamento cattolico mi avrebbe imposto di credere a cose non dimostrate (sia che una dimostrazione ci fosse ma non apparisse convincente, sia che non ci fosse del tutto) in misura minore e con rischio d'errore trascurabile in confronto all'insegnamento manicheo. Il quale prima si prendeva gioco della credulità con temerarie promesse di conoscenza, e poi imponeva di credere a tante fantasie favolose ed assurde, dato che non poteva dimostrarle. A poco a poco, mio Signore, mentre con mano dolcissima e pietosa lavoravi e riordinavi questo cuore, mi inducevi a considerare che erano innumerevoli i fatti a cui credevo senza vederli e senza esser presente mentre accadevano: tanti avvenimenti della storia umana, tante notizie di luoghi e paesi mai visti, tante cose sentite dire dagli amici, dai medici, da questa o quella persona, che bisogna credere se non si vuole rinunciare del tutto ad agire in questa vita. Infine pensavo alla fede incrollabile che avevo nell'identità dei miei genitori, che pure non conoscevo se non per aver creduto a ciò che m'avevano detto. Mi persuadesti che colpevoli e inattendibili non erano quelli che prestavano fede ai tuoi libri, la cui autorità hai stabilito in quasi tutto il mondo, ma quelli che non credendovi venivano a dirmi: "Come fai a sapere che quei libri sono stati trasmessi al genere umano dallo spirito dell'unico Dio vero e assolutamente veritiero?" Proprio questo bisognava soprattutto credere, e nessuna battaglia di calunnie e dispute menate attraverso i tanti libri che avevo letto dai filosofi in conflitto fra loro poté impedirmi anche solo per un attimo di credere alla tua esistenza, qualunque cosa tu fossi, o che a te appartenesse il governo delle cose umane.

 

- 8. Ma era una fede, questa, robusta a volte, a volte assai più esile. E tuttavia in un modo o nell'altro ci credevo, che tu esistessi e ti prendessi cura di noi, anche se ignoravo tanto il concetto che bisognava farsi della tua sostanza quanto la via che conduceva o riconduceva a te. E appunto in considerazione di questo nostro tentennare senza la forza di scoprire la verità con la chiara ragione, e del conseguente bisogno che abbiamo dell'autorità dei sacri testi, io avevo cominciato a credere che mai tu avresti conferito un'autorità così grande su tutta la terra a quelle scritture, se non avessi voluto che proprio per loro mezzo si credesse a te e attraverso di loro ti si cercasse. E ormai l'assurdità da cui una volta mi sentivo ferito, dopo aver ascoltato tante plausibili interpretazioni di quei testi, me la spiegavo con la profondità dei sacri simboli. Tanto più degna di venerazione e di sacrosanta fiducia mi pareva la loro autorità: era una lettura alla portata di tutti, che allo stesso tempo custodiva per un'intelligenza più profonda tutta la dignità del suo mistero: si offriva a tutti con parole chiarissime e nei registri più bassi dello stile e metteva alla prova l'attenzione di quelli che non sono leggeri di cuore, accoglieva tutti nel suo democratico abbraccio e solo a pochi concedeva accesso fino a te per angusti spiragli. E ancora meno sarebbero stati se la scrittura non avesse raggiunto un così alto prestigio d'autorità da attrarre le folle nel suo grembo, umile e sacro. Andavo così riflettendo e tu m'eri vicino, sospiravo e mi prestavi ascolto, beccheggiavo e tu mi guidavi, andavo per le larghe vie del mondo e non m'abbandonavi.

 

[L'allegro bevitore]

6.9. Aspiravo al successo, ai soldi, al matrimonio, e tu te ne ridevi. Per queste mie passioni soffrivo tutto l'amaro delle contrarietà, ed era tuo favore questo, tanto più grande quanto era minore la dolcezza che mi lasciavi assaporare in cose diverse da te. Guarda il mio cuore, Signore, se al tuo volere devo queste memorie e queste confessioni. Si stringa a te quest'anima, che hai liberato dal tenacissimo vischio della morte. Com'era infelice! E il tuo pungolo acuiva il senso della sua ferita, perché lasciasse tutto e si rivolgesse a te che sei sopra ogni cosa e senza cui tutto sarebbe nulla, si rivolgesse a te e fosse guarita. Quanto ero infelice e cosa hai fatto tu per farmela sentire tutta, la mia infelicità. Come quel giorno in cui mi preparavo a un discorso in lode dell'imperatore: avrei detto un mucchio di bugie e sarei stato applaudito da gente che lo sapeva. Col cuore affannato e febbricitante di pensieri nefasti passavo per un certo vicolo di Milano, quando notai un pezzente che credo fosse già gonfio di vino, tanto era allegro e in vena di scherzare. Trassi un profondo sospiro e agli amici che mi accompagnavano presi a dire dei molti dispiaceri che la nostra follia ci procurava: perché tutti i nostri sforzi - quelli che ora mi angustiavano ad esempio, mentre sotto la sferza delle mie ambizioni trascinavo il carico della mia infelicità, e trascinandolo lo ingrossavo - non miravano ad altro che ad arrivare a quella spensierata contentezza dove quel pezzente ci aveva già preceduto, mentre forse noi non ci saremmo arrivati mai. Quello che lui s'era già guadagnato con pochi spiccioli avuti in elemosina, io lo inseguivo per vie scoscese e torte, a gran fatica: era questa, la soddisfazione di una felicità terrena. Non era vera gioia la sua: ma io con quelle mie ambizioni ne cercavo una assai più falsa. E lui comunque era contento, io pieno d'ansia; lui era spensierato, io tesissimo. E se qualcuno mi avesse domandato se preferivo l'euforia o la paura, avrei risposto: "L'euforia"; se poi mi avessero chiesto come avrei preferito essere, come lui o come me allora, avrei scelto me stesso, con tutte le mie ansie e le paure. Scelta perversa, che non faceva onore al vero. Non dovevo preferirmi a lui perché avevo maggiore cultura, dato che non ne traevo motivo di gioia, ma solo un mezzo per cercar di piacere alla gente: e per di più non per indurla a imparare, ma soltanto per piacere. Perciò anche tu col bastone della tua disciplina mi spaccavi le ossa.

 

- 10. Via, lontano dall'anima chi dice: "Ciò che conta è il motivo della gioia. Quel pezzente la trovava nella sua sbornia, tu la cercavi nella gloria". Quale gloria, Signore? Quella che non è in te. E come quella non era vera gioia, così anche questa non era vera gloria e fuorviava ancor più la mia mente. E quel poveraccio la notte stessa avrebbe smaltito la sua sbronza, io dovevo dormire e levarmi con la mia, e poi ancora dormire e levarmi, vedi quanti giorni! Certo che conta il motivo della gioia, lo so, e la gioia che l'uomo di fede trova nella speranza è incomparabilmente al di sopra di quella vana esaltazione. Ma anche fra noi allora c'era una differenza: che lui era senza dubbio più felice. Non solo perché affogava nella sua allegria, mentre io mi facevo ulcerare dall'ansia, ma anche perché lui s'era guadagnato il suo vino in cambio di buoni auguri, io inseguivo la mia boria a furia di menzogne. Parlai a lungo su questo tono con gli amici, quel giorno, e spesso in seguito era in questi termini che percepivo la mia condizione: e stavo male, lo sentivo, e me ne affliggevo e così raddoppiavo il mio male, e se la fortuna mi sorrideva per un attimo, quasi mi dispiaceva coglierlo: perché io non facevo in tempo a stringerlo che era già volato via.

 

[Alipio: storia di un'amicizia]

7.11. Condividevo angoscia e lamenti con le persone con cui vivevo in amicizia, e soprattutto coi miei veramente intimi Alipio e Nebridio. Alipio, nato nella mia stessa cittadina - dove i suoi genitori erano fra i notabili - era più giovane di me. E infatti era venuto alla mia scuola quando avevo cominciato a insegnare a Tagaste, e poi a Cartagine, e mi amava molto, perché mi credeva uomo nobile e colto, e io amavo lui per la sua grandezza d'animo, che saltava agli occhi nonostante la giovane età. Ma la vorticosa vita di Cartagine, scintillante di spettacoli frivoli, lo aveva risucchiato in una folle passione per i giochi del circo. Ma al tempo in cui ne era infelicemente travolto, e io tenevo una pubblica scuola di retorica, ancora non frequentava le mie lezioni, a causa di una contesa che era sorta fra me e suo padre. Ero venuto a conoscenza della sua rovinosa passione per il circo, e ne ero molto angustiato, perché mi pareva che avrebbe compromesso, se non l'aveva già fatto, tutta la speranza che si riponeva in lui. Ma di avvertirlo o richiamarlo con qualche forma di disciplina non avevo modo: né per via d'amicizia e d'affetto, né in veste di maestro. Supponevo infatti che su di me la pensasse come suo padre, il che non era vero. Tanto che su questo punto mise da parte la volontà di suo padre e prese a salutarmi: veniva nella mia classe, ascoltava per un po' e se ne andava.

 

- 12. Intanto però a me era uscito di mente il proposito di comportarmi con lui in modo da impedirgli di dissipare il suo bel talento in una passione così cieca e impetuosa per degli spettacoli fatui. Ma tu, Signore, tu che governi il timone di ogni tua creatura, non dimenticavi che sarebbe stato fra i tuoi figli ministro del tuo sacro simbolo, e perché la sua correzione ti venisse attribuita senz'ombra di dubbio, la operasti attraverso di me, ma a mia insaputa. Un giorno me ne stavo nel solito posto con gli allievi davanti: lui arriva, saluta, si siede e si mette a seguire con attenzione l'argomento che trattavo. Avevo per mano un certo testo, e mentre lo spiegavo mi parve opportuno usare una similitudine tratta dai giochi del circo, per rendere più piacevole e più chiaro quello che era mia intenzione suggerire: con una pungente derisione di quelli che erano incappati nella rete di quella follia. E tu lo sai, Dio nostro, che in quel momento non pensavo affatto a guarire Alipio da quella sua malattia mortale. Ma lui riferì subito la cosa a se stesso e credette che io non l'avessi detta che per lui: e dove un altro se la sarebbe presa con me, quel leale ragazzo incassò per prendersela con se stesso e amarmi anche di più. Tu l'avevi già detto un tempo, e accolto nelle tue scritture: Rimprovera il sapiente, e ti amerà. Ma non ero stato io a rimproverarlo: tu, che ti servi di chiunque, consapevole o ignaro, in vista dell'ordine noto a te solo - e quell'ordine è giusto - hai fatto del mio cuore e della lingua carboni ardenti, con cui cauterizzare il marcio di quella intelligenza piena di speranze, e guarirla. Non canti le tue lodi chi trascura i tuoi gesti di pietà, che ti celebrano dal fondo delle mie ossa. È un fatto che Alipio, dopo quel discorso, si lanciò fuori dalla fossa così profonda in cui stava lietamente affondando, vinto da una strana voluttà d'accecamento; si scosse l'anima col vigore della rinuncia e ne schizzarono via tutte le sozzure del circo, dove non mise più piede. Poi vinse la riluttanza del padre ad avermi come suo maestro: quello cedette e concedette. E riprendendo a frequentarmi, fu con me irretito in quella superstizione, apprezzando nei manichei la continenza che ostentavano, e che lui credeva vera e genuina. E invece era vile seduzione, fatta per catturare le anime preziose non ancora capaci di saggiare la profondità del valore, e facilmente ingannate dalla sua superficie, dall'ombra e dalla contraffazione del valore.

 

[Una passione oscura]

8.13. Senza per questo abbandonare, è vero, la via del mondo, di cui i genitori gli avevano magnificato l'incanto, mi aveva preceduto a Roma per studiare diritto, e là in circostanze incredibili fu ripreso da una incredibile passione per gli spettacoli gladiatori. Lui rifiutava di andarci e li aveva in odio, quando un giorno incontrò dei suoi amici e condiscepoli, forse di ritorno da un pranzo, e quelli, nonostante le sue vigorose proteste e i tentativi di resistere a quella cameratesca violenza, lo trascinarono in teatro: erano giorni di giochi crudeli, mortali. Diceva: "Sì, trascinate pure il mio corpo e mettetelo lì: potete forse rivolgere la mia mente e gli occhi a quegli spettacoli? Ci sarò senza esserci, l'avrò vinta su di voi e di quelli". Non per questo rinunciarono a tirarselo dietro, forse desiderosi di metterlo alla prova. Una volta arrivati si sistemarono nei posti che riuscirono a trovare: ovunque imperversava già il piacere della ferocia. Serrò le porte degli occhi e proibì all'anima di uscire in mezzo a tanto male. Magari si fosse turato anche le orecchie! A un certo punto del combattimento, l'immane boato della folla ruppe le sue difese: vinto dalla curiosità e come fosse stato pronto, qualunque cosa fosse accaduta, a disdegnare quello spettacolo e ad averne ragione, aprì gli occhi. E soffrì nell'anima una ferita più grave di quella inferta al corpo del gladiatore che aveva voluto vedere; e cadde, più infelice di lui che con la sua caduta aveva scatenato quell'urlo. Il quale gli era penetrato per le orecchie e gli spalancò gli occhi, per aprire un varco al colpo che avrebbe ferito e abbattuto quell'animo ancora più temerario che forte, e tanto più debole quanto più s'era fidato di sé, quando la fiducia doveva riporla in te. Veduto che ebbe quel sangue, già ne aveva bevuta la ferocia e non se ne distolse: tenne lo sguardo fisso e assorbiva il furore e non sapeva, e prendeva gusto a quel combattimento atroce e s'ubriacava di un piacere crudele. E già non era più quello che era stato entrando, ma uno della folla alla quale s'era unito, vero complice di quelli che l'avevano prima trascinato. Che altro dire? Guardò, gridò, prese fuoco e si portò via con sé quella pazzia che lo avrebbe pungolato a tornarci con quelli che prima lo avevano trascinato, anzi di più, davanti a loro, trascinandone altri a sua volta. E tuttavia lo hai strappato di là con tutta la forza e la tenerezza della tua mano, e gli hai insegnato a non avere fiducia in sé, ma in te: questo però molto più tardi.

 

9.14. Comunque questo fatto gli si impresse nella memoria come una medicina per il futuro. Lo stesso si può dire della disavventura in cui incappò quando ancora era mio allievo a Cartagine. Passeggiava nel foro verso mezzogiorno, imparando a memoria un discorso da recitare, come fanno di solito gli studenti per esercizio, quando fu arrestato come un ladro dai guardiani del foro. Io credo che tu l'abbia permesso, Dio nostro, al solo scopo che quell'uomo destinato a diventare così importante cominciasse a capire quanta cautela deve usare chi istruisce un processo prima di condannare un uomo sulla base di accuse incerte e di una convinzione arbitraria. Alipio passeggiava da solo davanti al tribunale con stilo e tavolette, quand'ecco un altro studente, un ragazzo, il vero ladro, senza farsi scorgere da lui si avvicina con una scure che teneva nascosta ai cancelli di piombo che dominano dalla parte superiore il vicolo dei banchieri, e comincia a tagliare il piombo. Al suono della scure un mormorio corre per i banchi sottostanti dei cambia valuta, e quelli mandano gente ad arrestare chiunque si fosse trovato sul posto. Il ladro sente la loro voce e scappa abbandonando il suo strumento, per paura di farselo trovare in mano. Alipio, che non lo aveva visto entrare, lo scorge all'uscita e lo vede allontanarsi di corsa, e incuriosito entra per scoprirne la causa e trova la scure. Stava lì a osservarla meravigliato quando piombano dentro quelli mandati alla ricerca del ladro e lo trovano solo con in mano il ferro che col suo fragore li aveva spaventati e fatti accorrere: lo afferrano, lo trascinano via, e di fronte alla gente del foro che faceva capannello si vantano di aver preso il ladro in flagrante, e si avviano a consegnarlo nelle mani della giustizia.

 

- 15. Ma la lezione doveva finire qui. Perché subito intervenisti, Signore, a sostegno della sua innocenza, di cui eri il solo testimone. Mentre veniva condotto alla prigione o alla gogna, si fa incontro a loro un tale, un architetto che era il sovrintendente massimo agli edifici pubblici. Quelli si rallegrano moltissimo di aver incontrato proprio lui, che li sospettava di aver parte in certi furti avvenuti nel foro: così finalmente avrebbe constatato coi suoi occhi chi era, il ladro. Ma l'uomo aveva visto spesso Alipio in casa di un certo senatore, al quale usava portare i suoi omaggi, e appena lo ebbe riconosciuto lo prese per mano e portandolo in disparte gli chiese la ragione di un fatto così grave. Apprese l'accaduto e ordinò alla folla in subbuglio, che premeva minacciosa, di seguirlo. E li guidò alla casa di quel giovane, il vero colpevole. C'era un ragazzo davanti alla porta, quasi un bambino: tanto che non sospettò di nuocere al padrone se diceva tutto, e che lo aveva accompagnato al foro. E poi anche Alipio l'aveva riconosciuto, e ne avvertì l'architetto. Quello mostrò la scure al ragazzo e gli chiese di chi fosse. "Nostra" rispose immediatamente: e poi interrogato svelò il resto. Così l'accusa fu trasferita sopra quella casa e la folla, che già credeva di trionfare di Alipio, ne restò confusa: e il futuro dispensatore della tua parola, che tante cause avrebbe esaminato nella tua Chiesa, se ne andò, e quell'esperienza gli servì da lezione.

 

[Un funzionario incorruttibile]

10.16. Lo ritrovai a Roma, e si strinse a me di un legame fortissimo e partì con me alla volta di Milano, un po' per non abbandonarmi e un po' per mettere a frutto i suoi studi di diritto, secondo un desiderio che era più dei suoi che suo. E già tre volte era stato assessore in tribunale facendo meravigliare gli altri con la sua integrità, meno di quanto si meravigliava lui di vederli anteporre l'oro all'innocenza. Il suo temperamento fu messo alla prova non soltanto con le seduzioni dell'avidità, ma anche col pungolo della paura. A Roma era assessore presso il conte amministratore delle finanze italiche. C'era a quel tempo un senatore potentissimo, che aveva obbligato molte persone a forza di favori e molte altre se le era assoggettate col sistema del terrore. Voleva concedersi non so che azione illecita per le leggi, secondo l'abitudine dei potenti come lui: Alipio resistette. Gli fu promesso un premio: rise di cuore. Gli furono fatte delle minacce: le calpestò fra lo stupore di tutti: con inusitato coraggio rifiutava l'amicizia e non temeva l'avversione di un uomo tanto importante, famosissimo per gli innumerevoli mezzi di cui disponeva per arrecare vantaggi o rovina. Il giudice stesso di cui Alipio era consigliere, quantunque fosse anch'egli contrario a concedere quel favore, non osava ricusarlo apertamente, e ne scaricava la responsabilità su Alipio, affermando che era lui a non permetterglielo, perché - e questo era vero - se l'avesse fatto, se ne sarebbe andato. La sola passione da cui si lasciò quasi sedurre era quella per la letteratura: avrebbe potuto farsi copiare alcuni codici a spese della prefettura: ma rifletté sulla giustizia di quell'azione e decise per il meglio. Più del potere che lo permetteva gli parve utile l'equità che lo proibiva. È una piccola cosa: ma chi è fedele nel piccolo è fedele anche nel grande, e non saranno mai vane le parole che uscirono dalla bocca della tua verità: Se non siete stati affidabili con le false ricchezze, chi vi darà quelle vere? E se non siete stati affidabili con la proprietà altrui, chi vi affiderà la vostra? Tale l'uomo che allora m'era vicino, e con me ondeggiava nell'incertezza sul modo in cui bisognava decidersi a vivere.

 

[Nebridio. Gli amici riuniti a Milano]

- 17. Anche Nebridio aveva lasciato il suo paese vicino a Cartagine e la stessa Cartagine, che frequentava moltissimo, e la splendida tenuta paterna e casa sua e sua madre che non lo avrebbe seguito: ed era venuto a Milano senz'altro scopo che quello di vivere con me nella passione di cercare il vero e la sapienza. E anche lui sospirava e ondeggiava come me, da quel furioso indagatore della vita felice che era, e acutissimo analista delle più ardue questioni. Ed erano le bocche di tre poveri, che pendevano l'una dall'altra per una boccata di povertà e sospiravano che tu dessi loro il cibo a tempo opportuno. E nelle amarezze che la tua bontà faceva sempre seguire alle nostre azioni mondane, ci sforzavamo di vedere un fine per soffrirle e non c'era che il buio, e allora ci rivolgevamo indietro piangendo a chiederci "fino a quando?". E ce lo ripetevamo spesso e non la troncavamo quella vita, perché non s'accendeva il lume d'una sola certezza cui aggrapparci dopo averla troncata. [Angoscia]

 

11.18. E uno stupore grande mi prendeva e un'angoscia, quando pensavo al tempo che era passato dai miei diciott'anni, dal giorno in cui m'aveva preso la passione per la ricerca della sapienza e avevo deciso, appena l'avessi trovata, di farla finita con le speranze vacue e le follie bugiarde dell'ambizione. Quanto tempo! E ormai avevo trent'anni e ancora mi dimenavo nello stesso fango con l'ansia di godere le gioie presenti che fuggivano e mi dissipavano...E io mi dico "domani, domani troverò, tutto mi sarà chiaro, l'avrò in pugno... domani verrà Fausto e spiegherà ogni cosa... O grandi uomini dell'Accademia! Non c'è alcuna certezza cui ci si possa attenere a guida della vita... Ma no, cerchiamo con più impegno e senza disperare... Guarda, non sono assurdi questi passi dei libri della chiesa, che parevano assurdi, c'è un'altra interpretazione possibile e degna. Ma dove cercarla? Quando? Ambrogio non ha tempo, di leggere non c'è il tempo... E i libri stessi, dove cercarli? Dove procurarseli, quando? Da chi farseli prestare? Bisogna trovarlo, il tempo, bisogna dedicarla qualche ora alla salute dell'anima! È nata una speranza enorme: e non insegna, la fede cattolica, quello di cui stupidamente noi l'accusavamo. Per i suoi dotti è sacrilego credere Dio limitato dalla figura del corpo umano. E tu esiti a bussare perché le altre verità ti siano aperte? Gli studenti ti prendono le ore del mattino: delle altre che fai? Perché non occuparti di questo? E quando andremo a rendere omaggio agli amici importanti, il cui appoggio ci serve? Quando prepareremo la merce da vendere a scuola? Quando potremo riposarci e concedere alla mente qualche attimo di distensione fra le ansie e le fatiche?

 

- 19. E vada tutto alla malora, basta con questi giorni vuoti e insulsi. Votarsi solo alla ricerca della verità... La vita è triste, la morte incerta; venisse all'improvviso, come te ne andresti di qui? E dove imparerai ciò che hai trascurato qui? O non dovrai piuttosto scontarla, questa negligenza? E se la stessa morte coi sensi tagliasse via ogni angoscia, e le mettesse fine? Anche su questo bisogna indagare... Ah no, non deve, non voglio credere che sia così. Non è senza significato, non è invano che la fede cristiana ha raggiunto un prestigio così alto da diffondersi su tutta la terra. Mai tali e tante opere divine si sarebbero compiute per noi se con la morte del corpo si consumasse anche la vita dell'anima. E cosa aspetti allora a lasciare le speranze del mondo per dedicarti completamente alla ricerca di Dio e della felicità? No, un momento: è pur lieto questo mondo, ce l'ha una sua dolcezza, sì, non piccola... no, sta attento, non essere impulsivo nello stroncare così lo slancio di tutta la tua vita, ché sarebbe avvilente poi tornare indietro... Ormai hai tutto ciò che occorre per una buona carriera. E cosa si può desiderare di più? Hai molti amici importanti. Anche senza darti troppo da fare per avere di meglio, una presidenza puoi ottenerla senz'altro. E sposare una donna con un po' di soldi, che non ti pesi troppo a mantenerla, e il desiderio vedrai troverà una misura. Molti grandi uomini più che degni d'essere imitati si sono dedicati alla filosofia con la loro donna accanto".

 

- 20. E mi dicevo tutto questo e il mio cuore oscillava ai venti alterni, e intanto il tempo passava, e io tardavo a convertirmi al Signore e differivo di giorno in giorno la vita in te e non differivo la morte quotidiana in me stesso: l'amavo, sì, la felicità, ma mi faceva paura, là dov'era, e la cercavo fuggendola. Mi pareva che sarei stato troppo infelice senza l'amore di una donna, e non pensavo che a guarire questa debolezza c'era la medicina della tua indulgenza, perché non l'avevo provata, e credevo che la continenza la si dovesse alle proprie forze, forze che a me non risultava di avere: perché ero tanto stupido da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente se tu non lo concedi. E certamente l'avresti concessa, se avessi bussato alle tue orecchie col mio pianto segreto, e con fede robusta lanciato contro di te la mia angoscia.

 

[L'amicizia e le donne]

12.21. Alipio, in verità, faceva di tutto per impedirmi di prendere moglie. Sempre lo stesso ritornello: non avremmo assolutamente avuto l'agio necessario per vivere insieme nel culto della sapienza come già da tempo desideravamo fare, se io mi fossi sposato. A questo riguardo in effetti lui era castissimo, e in maniera stupefacente se si pensa che nella sua prima giovinezza aveva conosciuto l'amore di una donna. Ma non era rimasto attaccato a tutto questo, anzi caso mai ne aveva provato dolore e disgusto, e da allora in poi era vissuto in perfetta continenza. Io gli resistevo opponendogli l'esempio di quelli che anche da sposati avevano coltivato la sapienza e acquistato meriti presso Dio e conservato fedeltà e affetto verso gli amici. Anche se io ero ben lontano dalla loro grandezza d'animo, ero solo prigioniero della carne e del suo male e questa mia catena era per me una mortale dolcezza: e avevo paura di esserne sciolto e respingevo i buoni consigli come la mano capace di scioglierla, simile a uno che non vuole farsi toccare una ferita. E oltretutto chi per bocca mia parlava ad Alipio era il serpente che nelle mie parole gli insinuava lungo la strada altrettante dolci insidie di lacci in cui si sarebbero impigliati i suoi piedi leali e liberi.

 

- 22. Era stupito che io, per cui egli nutriva non poca stima, fossi invischiato in quel genere di piaceri al punto da affermare, ogni volta che se ne discuteva tra noi, che non avrei potuto assolutamente menare una vita da scapolo: e vedendolo stupefatto mi difendevo sostenendo che c'era una bella differenza fra l'amore che aveva conosciuto lui, tanto breve e furtivo che quasi ormai non se ne ricordava più - e allora non era un gran merito disprezzarlo, da parte sua - e i miei piaceri abituali: e se per di più a questi si fosse aggiunto l'onorato nome di matrimonio non avrebbe più avuto ragione di stupirsi, se quella vita io non riuscivo a disprezzarla. E così aveva preso anche lui a desiderare il matrimonio, e non certo perché fosse sopraffatto dalla voglia di questo piacere, ma per curiosità. Voleva sapere, diceva, che cosa fosse mai quella cosa senza cui la mia vita, che a lui piaceva tanto, per me non era vita, ma castigo. La sua mente libera da quel legame restava stupefatta della mia schiavitù, e nello stupore si avventurava anche lui a precipizio in quella stessa esperienza, per un'avidità di sapere: destinato forse a cadere di lì in quella schiavitù che lo lasciava stupefatto, perché voleva stringere un patto con la morte e chi ama il pericolo ne resta vittima. Se il matrimonio acquista una sua dignità nell'impegno di governare la vita coniugale e di allevare i figli, nessuno dei due ne era attratto se non in misura minima. Io che ero già prigioniero ero soprattutto e furiosamente tormentato dalla consuetudine di saziare una sensualità insaziabile, lui che stava per diventarlo era trascinato dalla meraviglia. Così eravamo, finché tu, Altissimo, che non abbandoni la terra di cui siamo fatti non prendesti pietà della nostra miseria, venendoci in aiuto per vie mirabili e segrete.

 

[Matrimonio o vita in comune?]

13.23. E intanto mi assillavano perché prendessi moglie. Già avevo fatto la mia domanda, e già la ragazza mi era stata promessa, soprattutto per il gran da fare che si dava mia madre in questo senso: con lo scopo di vedermi lavato con l'acqua salutare del battesimo, una volta sposato. Vedeva che me ne rendevo di giorno in giorno più degno e ne era felice, e sentiva che le sue preghiere e le tue promesse si compivano nella mia fede. Per mia richiesta e per suo desiderio ogni giorno ti rivolgeva una supplica, levando a te l'applauso alto del cuore, perché le rivelassi qualche cosa a proposito del mio futuro matrimonio: ma questo tu non volevi concederlo. Aveva delle visioni evanescenti e bizzarre, prodotte dall'impulso di uno spirito umano fortemente occupato da questo argomento: e me le raccontava, ma non con la fiducia che le era abituale quando eri tu a inviargliele, ma con una sorta di disprezzo. La capiva da qualcosa come un sapore, diceva, che non era in grado di descrivere a parole, la differenza fra le tue rivelazioni e i sogni dell'anima sua. Non per questo la smettevano di assillarmi. E la ragazza fu domandata, e siccome le mancavano ancora due anni interi all'età nubile, e questo stato di cose non dispiaceva a nessuno, si aspettava.

 

14.24. Eravamo in molti amici a odiare le tempeste e le noie della vita umana, tanto che a forza di rimuginarla e di parlarne fra noi quasi avevamo preso la decisione di ritirarci a una vita di contemplazione, lontani dalle folle: una vita che avevamo pensato di organizzare in modo che ciascuno contribuisse per quanto poteva alla sostanza comune, così da mettere insieme fra tutti un patrimonio. L'autenticità dell'amicizia comportava che non si distinguesse fra il tuo e il mio, ma che fosse una sola la ricchezza di tutti e tutto fosse di ciascuno e ogni cosa di tutti. Ci pareva di poter costituire una comunità di una decina di persone e fra noi ce n'erano di veramente molto ricche: soprattutto il nostro concittadino Romaniano, che in quel momento arrivava a corte sulla gran piena dei suoi affari, e che conoscevo tanto bene fin dalla mia infanzia. Era lui soprattutto a insistere per questo progetto e il suo parere aveva grande influenza, perché il suo vasto patrimonio era di molto superiore a quelli degli altri. E avevamo anche pensato che due di noi ogni anno avrebbero a mo' di magistrati provveduto alla necessaria gestione di ogni cosa, perché gli altri potessero starsene in pace. Ma quando ci si cominciò a chiedere se le donnette che volevamo avere, e che alcuni di noi già avevano, ci avrebbero mai permesso tutto questo, il nostro bel progetto così ben architettato ci crollò fra le mani e andò a pezzi e fu gettato via. E tornammo ai sospiri e ai pianti e alle larghe battute vie del mondo, in fila, al passo: perché molti pensieri ci affollavano il cuore, ma il tuo disegno permane in eterno. Un disegno dall'alto del quale tu ridevi dei nostri progetti e preparavi i tuoi, pronto a darci il cibo al momento opportuno e ad aprire la mano e a riempirci l'anima della tua benedizione.

 

[Un'altra donna]

15.25. Intanto i miei peccati si moltiplicavano. E quando mi fu strappata dal fianco la donna con la quale ero solito andare a letto, dovettero tagliarmi via il pezzo di cuore che le era attaccato: e la ferita sanguinò molto. Se ne tornò in Africa, facendo voto a te di non conoscere mai altro uomo, e lasciando con me il figlio naturale che da lei avevo avuto. Ma io sventurato, incapace perfino di imitare una femmina, non ebbi la pazienza di aspettare ancora due anni per prendermi in casa quella che avevo domandato in moglie: e siccome non ero tanto desideroso di nozze quanto servo delle voglie, me ne procurai un'altra: e non certo come sposa, ma per alimentare e prolungare, sotto la scorta di una ininterrotta consuetudine, fino al regno di una moglie legittima, quella malattia della mia anima. Ma non guariva la ferita di quell'amputazione: solo, dopo il furore e il dolore acutissimo, andava in cancrena e faceva un male come più freddo: ma più disperato.

 

16.26. Lode a te, gloria a te, fonte di misericordie ! Io mi facevo più infelice, e tu più vicino. Era già quasi su di me la tua destra pronta a rapirmi e ripulirmi dal fango, e io non lo sapevo. A trattenermi dallo sprofondare ancora nel vortice dei piaceri sensuali non era se non la paura della morte e del tuo futuro giudizio, che per quanto mutassero le mie opinioni non aveva mai lasciato il mio cuore. E discutevo coi miei amici Alipio e Nebridio Sul massimo dei beni e dei mali. In cuor mio avrei dato la preferenza a Epicuro, se non avessi creduto alla vita che resta all'anima dopo la morte, e alla retribuzione delle sue azioni, cosa che Epicuro si rifiutò di credere. E mi domandavo: se fossimo immortali e vivessimo in un perpetuo stato di piacere fisico senza il minimo terrore di perderlo, perché mai non dovremmo essere felici o che altro dovremmo cercare? E non sapevo che era di per sé un segno di grande infelicità quel mio essere tanto affogato e cieco da non poter concepire la luce di quella nobiltà e bellezza per se stesse amabili, che l'occhio della carne non vede, ma è visibile dall'intimo di sé. Infelice! Neppure mi chiedevo da che sorgente venisse la dolcezza che trovavo nel conversare con gli amici sia pure di queste laide cose, o l'impossibilità che avevo di essere felice senza amici, felice anche secondo il senso che attribuivo alla parola, cioè immerso nell'abbondanza di ogni sorta di piaceri sensuali. Certo, li amavo disinteressatamente gli amici, e a mia volta sentivo il loro disinteressato amore per me. Vie tortuose! Guai all'anima avventurosa che s'allontanò da te nella speranza di trovare di meglio. Voltati e rivoltati, sui fianchi e sulla schiena e sulla pancia: è sempre duro, e il riposo sei tu solo. Ecco, sei qui e ci liberi dagli errori della nostra miseria e ci metti sulla tua strada e ci consoli e dici: "Correte, io vi sosterrò, vi guiderò al traguardo e lì vi sosterrò ancora."