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le confessioni di sant'agostino

 Sant'Agostino scrive le sue opere

Agostino

 

 

LIBRO UNDICESIMO

 

 

[L'ETERNITÀ E IL TEMPO]

1.1. Forse perché è tua l'eternità tu ignori, mio Signore, ciò che ti dico, o vedi in successione temporale ciò che avviene nel tempo? Perché ti faccio allora una cronaca fitta di tanti avvenimenti? Non certo perché tu da me li apprenda: ma a questo modo io risveglio il sentimento di te in me stesso e negli altri che li leggeranno, finché diremo tutti - grande è il Signore e ben degno di lode. L'ho già detto, e lo voglio dire ancora: è per amore dell'amore di te che faccio questo. Del resto noi preghiamo anche se la verità stessa dice: il padre vostro sa cosa vi occorre prima ancora che glielo domandiate. Noi dunque riveliamo la nostra disposizione d'animo nei tuoi confronti confessando le nostre miserie e i doni della tua misericordia, perché tu porti a compimento la nostra liberazione, visto che le hai dato principio, perché cessi la miseria che troviamo in noi e cominci la felicità d'essere in te. Sei tu che ci hai chiamato a esser poveri per lo spirito e miti e piangenti e affamati e assetati di giustizia e pietosi e candidi e pacifici. Ecco, è una lunga storia che io ti ho narrato, per quanto ho potuto e voluto - perché sei stato tu il primo a volere che mi confessassi a te, Dio mio Signore, perché sei buono, perché dura nei secoli la tua misericordia.

 

2.2. Ma quando basterà la lingua della mia penna a dirli tutti, i tuoi conforti e i tuoi terrori e le consolazioni e le ingiunzioni con cui tu mi hai infine portato a predicare la tua parola e a dispensare il tuo sacramento al tuo popolo. E anche se io basto a dirli, e in ordine, ogni stilla di tempo mi è preziosa. E già da molto brucio dal desiderio di dedicarmi alla meditazione della tua legge, e di confessarti quanto ne conosco e quanto ne ignoro, i primi accenni delle tue illuminazioni e i resti delle mie tenebre, finché la tua forza divori l'incostanza. E non voglio vedermi scorrere via come l'acqua in altre occupazioni le ore che mi ritrovo libere: dalle necessità fisiche del riposo e da quelle dell'impegno intellettuale e dai servigi che dobbiamo agli uomini e da quelli che rendiamo loro anche senza averne affatto il dovere.

 

- 3. Signore Dio mio, ascolta la mia preghiera, e la tua compassione presti orecchio alla mia nostalgia, di cui non per me solo mi consumo, ma per servire all'amore fraterno: e tu lo vedi nel mio cuore, che è vero. Lascia che io sacrifichi a te il mio pensiero e la mia lingua, mettendoli al tuo servizio, e fammi doni che io possa offrirti. Perché sono povero e senza mezzi, e tu hai ricchezze per tutti quelli che ti invocano, tu che stando sicuro ti prendi cura di noi. Circoncidi la mia bocca, che sia pura di ogni menzogna e di ogni presunzione, dentro e fuori. Siano le tue Scritture le mie caste delizie: fa' che io non m'inganni e non inganni gli altri nell'esporle. Presta attenzione mio Signore e abbi pietà, Dio, luce dei ciechi e potenza dei deboli che subito ti fai luce dei veggenti e potenza dei forti, presta attenzione all'anima che ti chiama dal profondo, ascolta. Perché se non avessi orecchie anche al profondo, dove andremmo noi. In quale direzione lanceremmo il nostro appello? Tuo è il giorno e tua è la notte; a un tuo cenno s'involano i minuti. Concedi dunque il tempo necessario a queste meditazioni intorno ai segreti della tua legge, e non sbarrarla di fronte a chi bussa. Perché se non invano hai voluto che fossero scritte tante pagine di misteri impenetrabili, quelle selve hanno pure i loro cervi, che vi trovano riparo e ristoro, vagando e pascolando e sdraiandosi a ruminare. Rivelami le selve, e fammi uomo compiuto. Ecco, la tua voce è la mia gioia, la tua voce che sovrasta cascate di piaceri. Dammi quello che amo: perché io amo. E già questo è tuo dono. Non dimenticare i tuoi doni, non trascurare la tua erba assetata. Che io possa confidarti ogni cosa che avrò scoperto nei tuoi libri, e udire una voce di lode, e bere del tuo essere e contemplare le meraviglie della tua legge dal principio, in cui facesti il cielo e la terra, fino al regno come te perenne della tua città santa.

 

- 4. Abbi pietà di me mio Signore, da' ascolto alla mia nostalgia. Perché io credo che non nasca dalla terra, come quella dell'oro e dell'argento e delle pietre preziose o dell'eleganza o degli onori e del potere o dei piaceri carnali o dei beni necessari al corpo e ai vagabondaggi di questa vita: cose tutte che ci verranno date in sovrappiù se cerchiamo il regno della tua giustizia . Vedi Dio mio come nasce questa nostalgia. Uomini ingiusti mi hanno narrato i loro piaceri, ma non erano conformi alla tua legge. Ecco l'origine della mia nostalgia. Vedi, Padre, guarda e vedi e approva, e piaccia agli occhi della tua misericordia che io trovi grazia davanti a te, perché si apra al mio bussare l'interno delle tue parole. Ti porgo questa supplica mediante il Signore di noi Gesù Cristo tuo figlio, uomo della tua destra, figlio dell'uomo che hai istituito mediatore fra te e noi, per cui mezzo tu hai cercato noi che non ti cercavamo, e ci hai cercato affinché ti cercassimo; la tua parola, per cui mezzo hai fatto tutte le cose e me tra queste; il tuo Unico, per cui hai adottato il popolo dei credenti , e me fra loro. Per suo mezzo ti porgo questa supplica, per lui che siede alla tua destra e intercede per noi presso di te; in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza. Sono questi che cerco nei tuoi libri. Di lui scrisse Mosè, lui stesso lo dice, la verità lo dice.

 

[La parola e la creazione]

3.5. In principio hai fatto il cielo e la terra: fa che io intenda e comprenda come. È Mosè che lo ha scritto: l'ha scritto e se ne è andato per tornare là da dove era venuto, da te: era di passaggio in questo mondo e ora non è qui di fronte a me. Già, perché se lo fosse non me lo lascerei sfuggire e lo tempesterei di domande e nel tuo nome lo scongiurerei di spiegarmi queste parole, e starei con le mie orecchie di carne protese ad afferrare ogni suono gli uscisse dalle labbra... Ma se parlasse ebraico invano busserebbe alla porta del mio udito, e non arriverebbe quindi a sfiorarmi la mente: se parlasse latino allora sì, il senso delle sue parole lo saprei afferrare. Ma come farei a sapere se le cose dette sono anche vere? Se sapessi anche questo, è forse da lui che lo sarei venuto a sapere? No: dentro di me, nella dimora del pensiero, non ebraica né greca né latina né barbara, senza labbra né lingua, senza rumore di sillabe, la verità mi direbbe: "Dice il vero" e io subito rassicurato fiduciosamente direi a quell'uomo tuo: "Dici il vero." Dunque non potendo interrogare lui io chiedo a te, Verità, di cui doveva essere pieno lui che disse il vero, a te, Dio, chiedo: risparmiami la pena dei miei peccati, e concedi a me di comprendere queste parole, tu che hai concesso a quel tuo servo di dirle. 4.6. Ecco, il cielo e la terra esistono, e gridano che sono stati fatti, perché sono soggetti a mutamenti e variazioni. Invece tutto ciò che esiste ma non è stato fatto non ha costituenti che prima non c'erano: il che appunto vuol dire esser soggetti a mutamenti e variazioni. E gridano anche di non essersi fatti da soli: "Se esistiamo è perché siamo stati fatti: dunque prima di esserlo non c'eravamo, in modo da poterci fare da soli". È l'evidenza stessa che parla per loro. Tu dunque li hai creati, che sei bello, perché son cose belle; tu che sei buono, perché sono cose buone; tu che esisti, perché esistono. Ma non sono cose belle né buone né esistenti come lo sei tu, loro autore, al cui confronto non sono belle né buone e neppure esistono. Questo sappiamo grazie a te, e il nostro sapere paragonato al tuo è ignoranza.

 

5.7. Ma in che modo hai fatto il cielo e la terra, qual è il meccanismo di un'operazione tanto grandiosa? Perché certo non hai fatto come l'artefice umano che forma un corpo da un altro corpo secondo il capriccio della mente, la quale è capace di riprodurre qualunque forma distingua in se stessa con l'occhio interiore - e come ne sarebbe capace, se non perché l'hai fatta tu. La mente impone appunto una forma a qualcosa di già esistente e dotato di quanto basta a sussistere, come ad esempio la terra o la pietra o il legno o l'oro o qualunque altra cosa del genere. E queste da dove verrebbero all'essere, se non ve le stabilissi tu? Tu hai fatto all'artefice un corpo e al corpo una mente atta a comandarlo, tu la materia del suo lavoro, tu l'ingegno per intendere la sua arte e veder dentro di sé la cosa da attuare fuori. Tu hai fatto gli organi dei sensi per tradurre in termini materiali l'opera che ha in mente, e riferire alla mente il lavoro già fatto, perché consultando la verità che la dirige veda se è ben fatto. E tutto questo canta lode a te, creatore di ogni cosa. Ma cos'è il tuo fare? In che modo, Dio, hai fatto il cielo e la terra? Non è certo nel cielo o in terra che hai fatto il cielo e la terra, e neppure nell'aria o nell'acqua, dato che anch'esse fanno parte del cielo e della terra, e neppure è nell'universo che hai fatto l'universo, perché non c'era spazio per alcun fatto, prima che fosse un fatto anche lo spazio. E neppure avevi in mano qualche cosa, da cui ricavare il cielo e la terra: perchè da dove lo avresti preso, se non lo avessi fatto, il materiale della creazione. Ed esiste qualcosa, se non perché tu esisti? Dunque tu hai parlato ed ecco furono tutte le cose, ed è con la parola che le hai fatte.

 

6.8. Ma come hai parlato? Forse come quando risuonò dalle nuvole una voce che diceva: "Questo è il mio figlio diletto?" Ma il suono di quella voce si produsse e svanì, ebbe un inizio e una fine. Le sillabe risuonarono e passarono, la seconda dopo la prima, la terza dopo la seconda, e così via nel loro ordine, finché dopo tutte le altre venne l'ultima e dopo l'ultima fu silenzio. È quindi perfettamente evidente che quella voce fu una tua creatura a esprimerla, con un'azione posta al servizio della tua volontà eterna, ma di per sé temporale. E queste tue parole formate nel tempo l'orecchio esteriore le annunciò alla mente ragionevole, che protende il suo orecchio interiore alla tua parola eterna. Ma lei confrontò quelle parole risonanti nel tempo con il silenzio della tua parola eterna e disse: "Ben altra cosa è, è totalmente altra". Queste parole sono molto al di sotto di me, anzi neppure sono, perché fuggendo se ne vanno: la parola del mio Dio invece dura eterna sopra di me". Se dunque pronunciasti parole sonanti e fuggitive perché fossero fatti cielo e terra, e così li creasti, allora esisteva già prima del cielo e della terra una qualche creatura dotata di corpo, che potesse con una successione temporale di azioni protrarre nel tempo quella voce. Ma prima del cielo e della terra non esisteva alcun corpo, o se esisteva per fornirti di una voce transitoria con cui ordinare che si facessero il cielo e la terra, certo non è con una voce transitoria che l'avevi creata a sua volta. Qualunque cosa insomma potesse produrre quella voce, se non era stata fatta da te non era al mondo. E allora per creare il corpo necessario a produrre quelle parole, in che modo hai parlato?

 

7.9. Così ci chiami all'intelligenza della Parola, Dio presso Dio, che eternamente viene detta e per lei tutto si dice eternamente. Là nessuna cosa finisce d'esser detta perché un'altra la segua, cosí che una per una si possano dire tutte: si dicono tutte insieme, eternamente. E se così non fosse ci sarebbero già tempo e mutamento, non vera eternità e vera immortalità. Questo lo so, Dio mio, e te ne rendo grazie. Lo so e te lo confesso mio Signore, e come me lo sa e ti benedice chiunque sa apprezzare la verità accertata. Sappiamo almeno questo, sì, sappiamo che in quanto una cosa non è ciò che era ed è ciò che non era, in tanto muore e nasce. Di conseguenza nella tua parola nulla può venire meno o venire dopo, dato che è veramente immortale ed eterna. Ed è così, con questa parola a te coeterna che dici tutto insieme, eternamente ciò che dici, e che si fa tutto ciò che si fa quando parli - e tu non crei altrimenti che parlando -: e tuttavia non vengono tutte insieme all'essere, e non durano eterne le cose che parlando tu fai essere.

 

8.10. Perché, di grazia, mio Dio e Signore? In qualche modo lo vedo, ma non so come esprimerlo in parole, se non forse dicendo che per ogni cosa la cui esistenza ha un inizio e una fine il momento esatto in cui la sua esistenza deve cominciare o finire è conosciuto in una norma eterna, dove nulla comincia né finisce. E questa è la tua parola, che è per noi principio, perché parla anche a noi. Così nel Vangelo parlò attraverso la carne e risuonò all'esterno, alle orecchie degli uomini, perché vi credessero e la cercassero in se stessi e la ritrovassero nella verità eterna, dove tutti i discepoli apprendono da un solo buon maestro. Lì sento la tua voce dirmi che mi parla davvero soltanto chi sa illuminarmi: chi non m'insegna nulla, anche se parla non è a me che parla. Ma chi ci illumina? Soltanto la verità che permane. Perché anche quando riceviamo una lezione da una creatura mutevole, ne siamo rinviati alla verità che permane: e allora stiamo fermi ad ascoltare e impariamo davvero, e ci riempiamo di gioia alla voce dello sposo, come chi torna al suo paese d'origine. Ecco perché è detto il principio: e se non restasse saldo noi, nel nostro errare, non avremmo una casa a cui tornare. Ma quando recediamo da un errore, è perché abbiamo imparato qualcosa; e affinché noi impariamo lui ci insegna, perché è il principio e si rivolge a noi.

 

9.11. In questo principio, Dio, hai fatto il cielo e la terra: nella tua parola, nel figlio tuo, nella tua potenza, nella tua sapienza, nella tua verità, miracolo di un dire che è creare. Chi lo comprenderà, chi saprà raccontarlo? Che cos'è questa luce che balena e mi colpisce al cuore, senza ferire? E m'agghiaccia e mi accende: di terrore per esserne dissimile e del fuoco per cui le sono simile. È la sapienza, la sapienza stessa che balena attraverso queste nubi. E non appena da lei mi distoglie il carcere di nebbia delle mie angosce, in queste nubi io mi riavvolgo: perché è così fiaccato dalla miseria il mio vigore che non sono in grado di sopportare il mio bene, finché tu, come Signore che si faccia indulgente verso tutte le mie ingiustizie, mi guarisca anche da tutti i miei svanimenti. Tu che riscatterai la mia vita dalla fossa e porrai sul mio capo una corona di benevolenza e di misericordia e sazierai di bene la mia nostalgia, quando sarà rinata l'aquila della mia giovinezza. Perché è la speranza che ci ha salvati e con pazienza aspettiamo quello che hai promesso. Chi può ti ascolti parlare nel suo intimo: io fiduciosamente esclamerò con il tuo oracolo: grandiose sono le tue opere, Signore, tutte le hai fatte nella tua sapienza!

 

[Il problema del tempo: "prima" della creazione]

10.12. Ecco: non sono carichi di vecchiaia quelli che ci chiedono: "Che cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti non aveva occupazioni e non faceva nulla," dicono, "perché non ha anche dopo mantenuto questo stato, in cui si asteneva da ogni operazione? Ma se si è avuto un nuovo impulso in Dio e una volontà nuova, di istituire un creato che non aveva mai istituito prima, che vera eternità può essere quella in cui nasce una volontà che prima non c'era? D'altra parte la volontà di Dio non è qualcosa di creato, ma è prima di ogni creatura, perché nulla sarebbe creato se non fosse preceduto dalla volontà di un creatore. Dunque è alla stessa sostanza di Dio che appartiene la sua volontà. Ma se nella sostanza divina sorge qualcosa che non c'era prima, non è vera l'asserzione che questa sostanza è eterna; se invece la volontà divina che esistesse il creato era eterna, perché non sarebbe eterno anche il creato?"

 

11.13. Quelli che parlano così non ti comprendono ancora, sapienza divina, luce delle menti: non capiscono ancora in che modo si faccia ciò che per te e in te si fa, e si sforzano di giungere alla conoscenza dell'eterno, ma intanto il loro cuore ancora svolazza fra il passato e il futuro agitarsi delle cose, e ancora è vano. Chi riuscirà a tenerlo fermo un attimo, a fargli carpire un istante dello splendore dell'eterno stare, che lo confronti con il tempo instabile e veda che non hanno misura comune ... Veda che la lunghezza di un intervallo di tempo anche lunghissimo non è fatta che di molti momenti che passano, e che non possono durare simultaneamente; mentre nell'eterno nulla passa, ma tutto è presente. Che nessun intervallo di tempo può essere tutto presente: e sempre il passato è cacciato dal futuro e il futuro deriva dal passato, e che ogni passato e ogni futuro è creato da ciò che sempre è presente, e da questo decorre. Chi tratterrà il cuore dell'uomo, che stia fermo e veda come in questo stare l'eternità comandi passato e futuro, lei che non passa e non è mai a venire. E come avrà questo potere la mia mano, o la mano della mia eloquenza, per riuscire in un'impresa così grande!

 

12.14. Ecco come rispondo a chi domanda che cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra. Non come fece quel tale che eluse con una battuta di spirito l'aggressività della domanda, rispondendo, dicono: "Preparava la Geenna per chi indaga gli abissi". Ridere non basta per capire. No, non rispondo a questo modo: preferirei allora una risposta come "Quello che non so, non lo so", che almeno risparmia la facile ironia per chi solleva una questione profonda e il plauso per chi dà una risposta falsa. Invece io affermo che tu, nostro Dio, sei il creatore d'ogni cosa creata, e se per cielo e terra s'intende ogni cosa creata, oso affermare: "Prima di fare il cielo e la terra, Dio non faceva cosa alcuna". Perché che cosa avrebbe fatto se non una cosa creata? Magari sapessi tutte le cose che vorrei, che mi sarebbe utile sapere, così come so questa: che nessuna creatura venne fatta prima che fosse fatta una qualche creatura.

 

13.15. Ma se qualcuno è tanto leggero di mente da fantasticare di tempi più remoti ancora, e si meraviglia che tu, un Dio che tutto può e tutto crea e sostiene, artefice del cielo e della terra, abbia atteso innumerevoli secoli prima di mettere mano a un'opera così grandiosa - si svegli e apra bene gli occhi, perché è irreale ciò di cui si meraviglia. E come potevano passare innumerevoli secoli se non li avevi fatti tu, l'autore di tutti i secoli, tu che li instauri? E come può esistere un tempo che tu non hai instaurato? E come può esser passato, se non è mai esistito? Se insomma tutto il tempo è opera tua, e se c'è stato un tempo prima che tu facessi il cielo e la terra, perché si dice che ti astenevi da ogni opera? Quel tempo precedente, appunto, l'avresti istituito tu, e non un solo momento di tempo poteva passare, prima che tu istituissi il tempo. Se invece non esisteva il tempo prima che fossero fatti il cielo e la terra, perché chiedersi che cosa tu facessi allora? Non c'è un allora dove non c'è il tempo.

 

- 16. Non è nel tempo che tu precedi il tempo: altrimenti non precederesti ogni tempo. Ma dalla vetta dell'eterno presente tu precedi tutto il passato e sovrasti tutto l'avvenire, appunto perché è avvenire, e una volta avvenuto sarà passato. Tu invece sei sempre lo stesso, e i tuoi anni non si dilegueranno. Non vanno e vengono i tuoi anni, come fanno questi nostri, che se ne vanno tutti perché ciascuno possa venire. Stanno tutti insieme, i tuoi anni: appunto perché stanno lì e non se ne vanno, non si fanno cacciare da quelli che sopravvengono, non passano. Questi nostri invece ci saranno tutti quando non ce ne sarà più alcuno. Un solo giorno sono i tuoi anni, e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede al domani, come non succede al giorno di ieri. L'oggi è l'eternità, per te: per questo generi coeterno quello a cui tu dici oggi io ti ho generato. Hai fatto tu ogni tempo e sei prima del tempo, e non c'è mai stato un tempo in cui non c'era ancora il tempo.

 

[Sulla natura del tempo]

14.17. Mai dunque, in nessun tempo, tu sei rimasto senza fare nulla, perché il tempo stesso sei tu che l'hai fatto. E non c'è periodo di tempo che possa dirsi a te coevo, perché tu permani: ma un tempo permanente non sarebbe tempo. Già, che cos'è il tempo? Chi ce ne darà una definizione breve e facile? Chi riuscirà ad afferrarne almeno col pensiero tanto da poterne parlare? Eppure, che cosa c'è che noi, quando parliamo, diamo per tanto scontato e familiare quanto il tempo? E senza dubbio capiamo quello che diciamo, capiamo anche quando ne sentiamo parlare da un altro. Che cos'è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. E tuttavia io affermo tranquillamente di sapere che se nulla passasse non ci sarebbe un passato, e se nulla avvenisse non ci sarebbe un avvenire, e se nulla esistesse non ci sarebbe un presente. Ma allora in che senso esistono due di questi tempi, il passato e il futuro, se il passato non è più e il futuro non è ancora? Quanto al presente, se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per far parte del tempo, in tanto esiste in quanto trascorre nel passato, in che senso diciamo che esiste anch'esso? Se appunto la sua sola ragion d'essere è che non esisterà: in fondo è vero, come noi affermiamo, che il tempo c'è solo in quanto tende a non essere.

 

15.18. E tuttavia noi lo diciamo lungo o breve, il tempo, benché così chiamiamo solo il passato o il futuro. Ad esempio cent'anni passati fino a oggi fanno un passato che chiamiamo lungo, e lo stesso vale per un futuro di cent'anni a partire da oggi; invece dieci giorni - poniamo - precedenti o successivi fanno un passato e un futuro che diciamo brevi. Ma come fa a esser lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più e il futuro non è ancora. Del passato dunque non dovremmo dire "è lungo", ma "è stato lungo", e del futuro "sarà lungo". Mio Signore, mia luce, forse anche qui la tua verità si fa beffe dell'uomo. Questo passato che è stato lungo, lo è stato una volta che era già passato o quando era ancora presente? In effetti per essere lungo doveva essere: dunque poteva esserlo solo finché c'era. Ma il passato non era più e non essendo affatto non poteva nemmeno essere lungo. Perciò non dovremmo dire neppure, del passato, "è stato lungo" - infatti non troveremo mai che cosa sarebbe stato lungo, proprio perché non è, dal momento che è passato - ma dovremmo dire, piuttosto: "È stato lungo quel tempo presente", perché era lungo mentre era presente. Finché non era ancora passato e non aveva ancora cessato di essere, era appunto qualcosa, e quindi, eventualmente, anche lungo; ma una volta che fu passato, smise anche d'essere lungo, nel momento stesso in cui smise d'essere affatto.

 

- 19. Vediamo allora se il presente possa essere lungo, anima umana: perché a te è dato sentire e misurare la durata. Che cosa mi rispondi? Dimmi: è lungo un presente che dura cent'anni? Ma vedi prima se cento anni possano essere presenti. Dunque: se è in corso il primo di essi, è questo che è presente, gli altri novantanove son futuri e quindi non ci sono ancora; ma se è in corso il secondo, un anno è già passato, l'altro presente, i restanti futuri. E così, qualunque sia fra questi cento l'anno che supporremo presente: quelli che lo precedono nell'ordine saranno passati, quelli che lo seguono futuri. Perciò cento anni non possono essere presenti. Vedi se possa almeno esser presente l'anno che è in corso. Ora se corre, di questo, il primo mese, tutti gli altri sono futuri, se il secondo, il primo è già passato e gli altri non ci sono ancora. Dunque neppure l'anno in corso è tutto presente, e se non è tutto presente, non è l'anno che è presente. Perché un anno è fatto di dodici mesi, e di questi è presente soltanto quello in corso, quale che sia, gli altri sono passati o futuri. Benché neppure il mese che è in corso sia presente, in effetti: solo un giorno lo è, se è il primo, sono futuri tutti gli altri, se l'ultimo, sono tutti passati, e uno qualunque degli intermedi sta fra i mesi passati e quelli futuri.

 

- 20. Eccolo qui il presente, il solo tempo che avevamo trovato possibile chiamare lungo, ridotto appena allo spazio di un giorno. Ma esaminiamo anche questo, perché neppure un giorno è mai tutto presente. Delle ventiquattr'ore che, fra notte e giorno, lo costituiscono, la prima ha tutte le altre a venire, l'ultima le ha tutte alle spalle, e ciascuna delle intermedie ne ha di precedenti, passate, e di successive, future. E ciascuna singola ora è una fuga di minute particelle: quante hanno già preso il volo sono passate, e futuro è quel che resta. Se è concepibile una frazione di tempo che non si possa più dividere ulteriormente in parti, per piccole che siano, questa soltanto può dirsi presente: ma anche questa balza così rapida dal futuro al passato, che non ha la più piccola durata. Perché se ne avesse, si dividerebbe in passato e futuro: ma il presente non ha alcuna estensione. Dov'è insomma un tempo che possiamo chiamare lungo? Forse il futuro? Non diciamo certamente che è lungo, perché ancora non è, ciò che deve esser lungo: diciamo piuttosto "sarà lungo". Quando lo sarà? Se anche allora sarà ancora futuro, non sarà lungo, perché non sarà ancora niente del tutto. Forse sarà lungo allora, quando dal futuro che ancora non esiste avrà preso a essere e si sarà fatto presente (così da poter esser anche eventualmente lungo)? Ma se risuona ancora nelle parole appena dette la voce del presente stesso, che nega di poter durare a lungo!

 

16.21. E tuttavia, Signore, noi percepiamo gli intervalli di tempo, e li confrontiamo e li diciamo più lunghi o più brevi. E misuriamo anche quanto più lungo o più breve un tempo sia di un altro, e calcoliamo che sia doppio o triplo, o che l'uno sia pari all'altro. Ma noi misuriamo il tempo che passa, quando lo misuriamo a orecchio. I tempi passati invece, che non sono più, o quelli futuri, che non sono ancora, chi può misurarli: a meno che uno non abbia il coraggio di asserire che si può misurare ciò che non esiste. È insomma al suo passare che il tempo può esser sentito e misurato; una volta passato non può, perché non esiste.

 

17.22. Io chiedo, padre, non affermo: assistimi mio Dio, guidami tu. Chi mai si sognerebbe di venirmi a dire che non sono tre i tempi, come abbiamo imparato da bambini e ai bambini abbiamo insegnato: passato, presente e futuro - ma c'è solo il presente, perché gli altri due non esistono! O forse sì, ci sono, ma come nascondigli da cui il presente appare uscendo dal futuro, e in cui scompare quando si fa passato? E dove l'hanno visto altrimenti quelli che hanno annunciato il futuro, se non esiste ancora? Certo non si può vedere ciò che non esiste. E quelli che raccontano il passato non potrebbero mai darlo per vero, se non l'avessero ben distinto davanti agli occhi della mente: e se non esistesse affatto, non potrebbe esser visto, in alcun modo. Esistono dunque, passato e futuro.

 

18.23. Concedi mio Signore, speranza mia, che io cerchi ancora: fa che la mia intenzione non ne resti smarrita. Se passato e futuro esistono, io vorrei sapere dove sono. E se non arrivo a tanto, so almeno che, dovunque siano, là non sono futuro o passato, ma presente. Perché se anche là fossero futuro o passato, non ci sarebbero ancora o non ci sarebbero più. Perciò dovunque e comunque siano, non esistono che come presente. Quando si raccontano cose vere e passate, in effetti, non sono le cose stesse che sono passate a esser cavate dalla memoria, ma solo le parole concepite dalle loro immagini, che si sono fissate nella mente come delle tracce, dopo esser passate per i sensi. E la mia infanzia, che non è più, è nel passato, che non è più: ma nel rievocarla e narrarla è nel presente che io vedo la sua immagine, ancora viva nella mia memoria. Se anche le predizioni del futuro abbiano una ragione analoga, se sia cioè possibile percepire in anticipo immagini esistenti delle cose che non ci sono ancora, Dio mio, confesso: questo non lo so. Questo so invece, che di solito noi premeditiamo le nostre azioni future, e mentre questa anticipazione mentale dell'azione è presente non lo è ancora l'azione stessa, che è futura: solo quando l'avremo intrapresa e avremo cominciato a fare ciò che avevamo in mente esisterà l'azione - cioè sarà presente, non futura.

 

- 24. Comunque stiano le cose riguardo ai misteriosi presentimenti del futuro, è certo che ciò che non esiste neppure può esser visto. Ma ciò che esiste già non è futuro, è presente. Perciò chi afferma di vedere il futuro non vede le cose stesse che ancora non sono, appunto perché sono a venire, ma le loro cause o forse i loro segni, che esistono già: che quindi non sono future ma presenti a chi le vede, e può così predirne le future conseguenze, come le concepisce la sua mente. Concezioni che esistono, esse pure; e chi fa predizioni le vede dentro se stesso. Un esempio fra gli innumerevoli che mi dicono questo: l'aurora. La vedo e preannuncio il prossimo sorgere del sole. Quello che vedo è presente, quello che predico futuro: non il sole, che già esiste, è futuro, ma la sua levata, che non è ancora avvenuta. E d'altra parte non potrei predire nemmeno che il sole sorgerà se non avessi in mente un'immagine di questo evento, come ora che ne sto parlando. Eppure né l'aurora che io vedo in cielo è il sorgere del sole, sebbene lo preceda, né lo è la sua immagine nella mia mente: bisogna che siano visibili o presenti tutt'e due perché quell'evento futuro sia previsto. In conclusione il futuro non c'è ancora, e se non c'è ancora non c'è affatto, e se non c'è non si può proprio vedere: ma si può predire sulla base del presente, che già c'è e si vede.

 

19.25. E tu che regni sopra il tuo creato, come insegni alle anime il futuro? Perché tu l'hai insegnato, ai tuoi profeti. Che modo sarà mai di insegnare il futuro il tuo, se per te nulla è futuro? O non insegni piuttosto le tracce presenti del futuro? Perché ciò che non è neppure può essere insegnato. Troppo lontano dalla mia vista è questo tuo modo, troppo elevato, non lo potrò raggiungere da solo; ma col tuo aiuto sì, potrò, quando me lo concederai, dolce lume dei miei bui occhi. [La trinità del presente]

 

20.26. Almeno questo ora è limpido e chiaro: né futuro né passato esistono, e solo impropriamente si dice che i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma più corretto sarebbe forse dire che i tempi sono tre in questo senso: presente di ciò che è passato, presente di ciò che è presente e presente di ciò che è futuro. Sì, questi tre sono in un certo senso nell'anima e non vedo come possano essere altrove: il presente di ciò che è passato è la memoria, di ciò che è presente la percezione, di ciò che è futuro l'aspettativa. Se ci è permesso dir così, vedo i tre tempi e ammetto che siano tre. E si dica pure che sono tre, passato, presente, futuro, come è abusata consuetudine: a me non importa, non oppongo né resistenza né rimproveri, purché si capisca ciò che si dice - che ciò che è futuro non è, come ciò che è passato. Raramente infatti parliamo con proprietà di linguaggio e il più delle volte usiamo espressioni improprie, ma si capisce quello che vogliamo dire.

 

21.27. Poco fa ho detto che misuriamo il passare del tempo, se è vero che siamo in grado di dire che questo intervallo di tempo è doppio di quello o pari a quello, e di rendere conto di ogni altra relazione fra le parti del tempo, con la misurazione. Dunque, come dicevo, noi misuriamo il passare del tempo, e se qualcuno mi chiede come faccio a saperlo rispondo: so che noi misuriamo, e so che non possiamo misurare ciò che non esiste, e il passato e il futuro non esistono. Ma il tempo presente in che modo lo misureremmo, se non ha estensione? Lo si misura dunque mentre passa, e una volta passato non lo si misura perché non c'è più nulla da misurare. Ma da dove viene e per dove passa e dove va, quando lo si misura? Da dove se non dal futuro? Per dove se non attraverso il presente? Dove se non nel passato? Dunque: da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione, verso ciò che non è più. Eppure sono proprio estensioni di tempo quelle che misuriamo: e che altro se no? Quelle che chiamiamo semplici e doppie e triple e uguali e in quanti altri modi le chiamiamo, non sono appunto che estensioni di tempo. E allora qual è l'estensione in rapporto alla quale misuriamo il tempo che passa? È nel futuro forse, dal quale viene? Ma ciò che ancora non è non ha misura. Allora nel presente, per cui passa? Ma ciò che non ha estensione non ha misura. O nel passato, verso cui va? Ma ciò che non è più non ha misura.

 

22.28. Arde la mente che vuol penetrare l'intrico foltissimo di questo enigma. Non sbarrarmi la porta al desiderio, mio Dio e Signore, lascia che penetri queste cose tanto familiari quanto misteriose, e che il raggio della tua misericordia le illumini. Chi potrò interrogare su argomenti del genere? E a chi con qualche frutto confessare la mia ignoranza se non a te, cui non sono forse sgraditi gli infiammati studi e la veemenza con cui assalgo le tue Scritture. Dammi quello che amo - perché sei tu che mi hai dato d'amare. Dammi, padre che veramente sai i doni che vanno bene per i tuoi figli, dammi di conoscere, perché ho messo mano a questa impresa e ho davanti la fatica, finché tu non mi apri. Te ne prego per Cristo, in nome del santo dei santi, nessuno mi frastorni adesso. Anch'io ho creduto, ed è per questo che parlo. Questa è la mia speranza e di lei vivo, per contemplare la felicità di Dio. Hai portato a vecchiaia i miei giorni, e passano, e come, non so. E noi siamo sempre lì a parlar del tempo e dei tempi: "Quanto tempo fa l'ha detto", "Quanto tempo fa l'ha fatto", "Da quanto tempo non lo vedo", e "Questa sillaba dura un tempo doppio di quell'altra breve". Facciamo e sentiamo fare queste asserzioni e capiamo e ci facciamo capire. Sono cose evidentissime e perfettamente familiari, eppure sono così oscure, e la loro scoperta è cosa nuova.

 

[Misura del tempo e movimento]

23.29. Ho udito dire da un dotto che i tempi altro non sono che i movimenti del sole e della luna e delle stelle: e io non ho assentito. E perché non piuttosto i movimenti di tutti i corpi, allora? Ma supponiamo che i luminari del cielo si arrestino e la ruota del vasaio continui a girare: verrebbe meno il tempo con cui misurare i suoi giri e dire o che hanno uguale durata oppure, se si compiono ora più lentamente e ora più presto, che alcuni durano più, altri meno a lungo? E nel dir questo non parleremmo noi pure nel tempo, e le nostre parole non conterrebbero sillabe lunghe e sillabe brevi? E come, se non in base al loro risuonare per un tempo più lungo o più breve? Dio, dai alla gente il dono di vedere anche nel piccolo le idee comuni a piccole e grandi cose. Ci sono le stelle e i luminari del cielo a far da segni delle stagioni e dei giorni e degli anni. Ci sono, certo: ma come io non direi che il giro di quella piccola ruota di legno sia addirittura il giorno, quello non oserà negare che sia pure un periodo di tempo.

 

- 30. Il mio desiderio è di conoscere la funzione e la natura del tempo, in quanto ci serve da misura dei movimenti dei corpi e ci consente di dire, ad esempio, che quel movimento dura il doppio di questo. Ora, si dice giorno non solo il periodo di permanenza del sole sopra l'orizzonte, in opposizione alla notte, ma anche l'intero giro che esso compie da oriente a oriente, come quando diciamo: "Passarono tanti giorni", intendendo includere le relative notti. Dato dunque che un giorno si compie in una rotazione completa del sole da oriente a oriente, io mi chiedo se il giorno sia la rotazione stessa, o la sua durata, o entrambi. Nel primo caso, anche se il sole completasse il suo corso in un intervallo di tempo pari a quello di un'ora, questo sarebbe ancora un giorno; nel secondo dato che l'intervallo di tempo fra una levata e l'altra del sole fosse di un'ora, ci vorrebbero ventiquattro rotazioni del sole perché fosse compiuto un giorno. Ma nel terzo caso non si chiamerebbe giorno né l'intero giro compiuto dal sole nello spazio di un'ora, né una pura e semplice quantità di tempo pari a quella che normalmente impiega il sole a coprire tutto il suo percorso, da un'alba alla successiva, ma trascorsa, supponiamo, a partire da un arresto del sole. Ora dunque non mi chiederò più che cosa sia ciò che chiamiamo giorno, ma che cosa sia il tempo che ci consente di misurare la rotazione del sole e di dire eventualmente che l'ha compiuta nella metà del tempo impiegato normalmente, qualora l'abbia in effetti compiuta in un intervallo di tempo pari a quello di dodici ore; che cosa sia insomma il tempo che ci consentirebbe di confrontare i due intervalli di tempo e di dire che l'uno è doppio dell'altro anche se il sole impiegasse a volte quel dato tempo, a volte il doppio a completare il suo giro da oriente a oriente. Nessuno dunque mi venga a dire che sono tempi i moti dei corpi celesti, perché quando il sole si fermò su preghiera di un uomo, per consentirgli di portare vittoriosamente a compimento una battaglia, il sole stava fermo, ma il tempo passava. Per tutto il tempo necessario, ne più né meno, quella battaglia fu combattuta, fino al suo termine. Il tempo dunque è qualcosa come un protrarsi, ora lo vedo. Ma lo vedo veramente, o mi pare soltanto di vedere? Me lo mostrerai tu, luce, verità.

 

24.31. Mi ordini di approvare chi afferma che il tempo è il movimento dei corpi? No. Sento dire piuttosto che un corpo non si muove se non nel tempo: tu lo dici. Infatti mentre il corpo si muove io misuro la durata del suo movimento, dall'inizio alla fine. E se non ho visto quando è cominciato il movimento e questo continua in modo che non vedo quando finisce, non sono in grado di misurarne la durata, a meno di non calcolarla dal momento in cui io comincio a vederlo a quello in cui non lo vedo più. Se resta a lungo in vista, posso riferire soltanto che il tempo impiegato è lungo, ma non specificare quanto, perché per dire quanto noi ci serviamo di un confronto, del tipo: "Dura tanto quanto quello" oppure "il doppio di quello" e così via. Se invece abbiamo potuto determinare le distanze dei luoghi di partenza e di arrivo del corpo in moto, o qualche punto di riferimento sul corpo stesso, nel caso si muova come su un tornio, allora possiamo specificare in quanto tempo si effettua il movimento del corpo o di una sua parte da un luogo all'altro. Altro è il movimento del corpo, altro ciò che a noi consente di misurarne la durata: e chi non vede a quale delle due cose conviene il nome di tempo? Anche se un corpo ora si muove ora sta fermo noi misuriamo quanto tempo dura non solo il movimento, ma anche la quiete, e diciamo "È stato fermo per un tempo uguale a quello che ha trascorso in moto", oppure "È stato fermo due o tre volte il tempo che ha trascorso in moto", o comunque risulti ai nostri calcoli, con precisione o, come si suole dire, più o meno. Il tempo non è dunque il movimento dei corpi.

 

[Il tempo e la voce. Il presente]

25.32. E ti confesso Signore che ancora non lo so, cosa sia il tempo, e ancora ti confesso, Signore, che so di fare questo discorso nel tempo e che da molto ormai sto parlando del tempo e che questo molto non è molto se non perché dura nel tempo. E come lo so allora, se non so che cos'è il tempo? O forse non so come dirlo, ciò che so? Ah, non so più neppure che cosa non so ... Vedi, mio Dio, che non mento davanti a te: così come parlo è il mio cuore. L'accenderai tu la mia lucerna, mio Dio e Signore, farai un po' di luce nel mio buio.

 

26.33. Non è veridica la confessione in cui questa anima lo ammette, che io misuro il tempo? Mio Dio, dunque misuro e non so cosa misuri. Misuro in termini di tempo il movimento di un corpo. Ma allora non misuro il tempo stesso? O potrei misurare quanto dura il moto del corpo e quanto questo impieghi a coprire una certa distanza, altrimenti che misurando il tempo in cui si muove? E allora il tempo stesso come lo misuro? Forse misuriamo un intervallo di tempo con uno più breve, come con la lunghezza di un cubito misuriamo quella di un asse? Sì, in questo modo a quanto pare misuriamo l'estensione temporale di una sillaba lunga con quella di una breve, e la diciamo doppia di questa. Così misuriamo l'estensione dei poemi con quella dei versi e quella dei versi con quella dei piedi, e quella dei piedi con quella delle sillabe e quella delle sillabe lunghe con quella delle sillabe brevi: non la misuriamo in pagine - perché a quel modo misureremmo l'estensione spaziale, non quella temporale - ma col passare del suono delle parole che pronunciamo, dicendo: "È un poema lungo, perché si compone del tal numero di versi; son versi lunghi perché sono costituiti da tanti piedi; piedi lunghi, perché si estendono per tante sillabe; sillaba lunga perché è doppia di una breve". Ma neppure così si afferra una determinata misura di tempo, perché può ben darsi che un verso più breve, se lo si pronuncia protraendo il suono della voce, continui a risuonare per un intervallo di tempo maggiore di quello di un verso più lungo pronunciato più in fretta. E questo vale per un poema, per un piede, per una sillaba. Perciò mi è parso che il tempo altro non fosse che una sorta di protrazione: ma di che cosa, non lo so. Della mente stessa forse? Sì, non può che esser così. Perché, mio Dio, che cosa misuro io di grazia, quando faccio un'affermazione o indeterminata come "Questo intervallo di tempo è più lungo di quello", o anche determinata come "È il doppio di quello"? Misuro il tempo, lo so: ma non misuro il futuro, perché non esiste ancora, non misuro il presente perché non occupa alcuna estensione, non misuro il passato perché non esiste più. Che cosa misuro allora? Non il passato ma il tempo che passa? Così infatti avevo affermato.

 

27.34. Insisti mente, intensifica ancora l'attenzione: Dio è il nostro aiuto; non ci siamo fatti da noi, lui ci ha fatto. Ecco, ad esempio, una voce umana comincia a risuonare, risuona, risuona ancora e cessa, ora è silenzio e quel suono vocale è passato e non è più. Era ancora a venire prima che risuonasse e non poteva essere misurata perché ancora non era, e ora non può esserlo perché non è più. Dunque poteva allora, mentre risuonava, perché allora c'era qualcosa da misurare. Ma allora non restava ferma, ma andava via, passava. O forse proprio per questo si poteva misurarla? È passando infatti che occupava una certa estensione temporale misurabile, mentre invece il presente non ha estensione. Ammettiamo dunque che si poteva misurarla allora, e supponiamo che un'altra cominci a risuonare e continui a farlo, con continuità e uniformità di tono; misuriamo dunque quanto dura questo suono, finché dura, perché quando il suono sarà cessato, sarà già passato e non ci sarà più niente da misurare. Misuriamo bene questa durata: ma la voce ancora risuona e bisogna misurarla dal momento iniziale, in cui ha preso a risuonare, fino a quello finale, in cui è cessata. Un dato intervallo si misura appunto dall'inizio alla fine. Ma il suono della voce non è ancora cessato, e dunque non si può misurare la sua durata e concludere che è breve o lunga o uguale a quella di un altro suono o doppia di quella o quant'altro. Ma una volta cessato, il suono non sarà più. E allora con che metro misureremo la sua durata? Eppure noi misuriamo gli intervalli di tempo: ma non quando non sono ancora in corso, né quando non lo sono già più, né quando sono privi di estensione, né quando non hanno termini. Dunque non misuriamo né il futuro né il passato né il presente né il tempo che passa: eppure misuriamo il tempo.

 

- 35. Deus creator omnium: in questo verso di otto sillabe si alternano sillabe brevi e lunghe: quindi le quattro brevi - la prima, la terza, la quinta e la settima - durano la metà rispetto alle quattro lunghe - la seconda, la quarta, la sesta e l'ottava. Ciascuna di queste dura un tempo doppio rispetto a ciascuna delle prime: me ne convinco pronunciando il verso, che è così, almeno per quello che può rivelare l'orecchio. A quanto l'orecchio mi dice, misuro la sillaba lunga con la breve e avverto che dura due volte tanto. Ma, dato che le sillabe risuonano una dopo l'altra, se la breve viene prima della lunga come farò a trattenere la breve e ad applicarla come metro alla lunga, e a trovare che è due volte tanto, se la lunga comincia a risuonare solo quando ha smesso di farlo la breve? E a misurare la lunga mentre ancora è presente, quando non posso misurarla se non è finita? Ma quando è finita è passata. E allora che cos'è che misuro? Dov'è la breve che mi fa da metro? Dov'è la lunga che devo misurare? L'una e l'altra hanno finito di risuonare, sono volate via, sono passate e non ci sono più: e io misuro e rispondo tranquillamente, con tutta la confidenza che si ha in un senso esercitato, che l'una è semplice e l'altra doppia - quanto all'estensione temporale, voglio dire. Ma non sono in grado di far questo se non perché sono già passate e finite. Non loro dunque, che non sono più, misuro: ma qualcosa nella mia memoria, qualcosa che vi si fissa.

 

[Il tempo e l'anima]

- 36. In te, anima mia, misuro il tempo. Non frastornarmi coi tuoi "cosa? come?" Non frastornare te stessa con la folla delle tue impressioni. In te, dico, io misuro il tempo. Sì, l'impressione che le cose passando producono in te rimane quando le cose sono passate: è questa che è presente, non quelle, che sono passate perché lei ne nascesse. È questa che misuro, quando misuro il tempo. Il tempo è lei - o non è il tempo quello che misuro. E allora quando misuriamo i silenzi e diciamo che questa pausa dura quanto quel suono? Ma appunto: in questi casi per poter calcolare in qualche modo l'estensione temporale degli intervalli di silenzio, noi ci fingiamo in loro luogo il suono della voce e cerchiamo di misurare mentalmente la durata che avrebbe. Anche senza usare la voce e le labbra noi recitiamo mentalmente poemi e versi e discorsi: e siamo sempre in grado di indicare quanto durano i loro svolgimenti e che quantità di tempo occupano l'uno relativamente all'altro, non altrimenti che se li recitassimo a voce alta. Supponiamo che uno voglia emettere un suono appena un po' più lungo e abbia mentalmente prestabilito quanto dovrà esser lungo: costui avrà certamente percorso in silenzio e affidato alla memoria quel determinato lasso di tempo, e quindi avrà preso a emettere la voce, che risuona finché sia giunto il termine stabilito. Anzi, che è risuonata e risuonerà: perché quella che è già passata è senza dubbio risuonata, e quanto ne resta risuonerà. Ed è così che passa, mentre l'intenzione presente traduce il futuro in passato, e il passato cresce via via che decresce il futuro, finché consumato il futuro tutto sarà passato.

 

28.37. Ma come può decrescere o consumarsi il futuro che non esiste ancora, e come può crescere il passato che non esiste più, se non in quanto esistono tutti e tre nella mente che opera questo processo? Perché è la mente che ha aspettative, fa attenzione, ricorda: e quello che si aspetta le si fa oggetto di attenzione per divenire oggetto di memoria. Chi nega allora che il futuro ancora non esista? Ma c'è già l'aspettativa mentale del futuro. E chi nega che il passato non esista più? Ma nella mente ancora c'è il ricordo del passato. E chi nega che il tempo presente sia privo di estensione, poiché passa in un punto? Ma ciò che perdura è l'attenzione, attraverso la quale ogni cosa si abbia presente sconfina gradualmente nell'assenza. Quindi non è lungo il tempo futuro, che non esiste, ma un lungo futuro è una aspettativa a lungo termine di cose a venire, e non è lungo il passato, che non esiste, ma un lungo passato è una memoria di lunga durata delle cose avvenute.

 

- 38. Mi dispongo a cantare una canzone che conosco: prima di cominciare la mia aspettativa è protesa alla composizione nel suo insieme; ma basta che cominci ed ecco, via via che faccio crescere il passato a spese dell'aspettativa, il mio ricordo si estende in proporzione: e il mio vivere in questa azione è un protrarsi nella memoria di ciò che ho già detto e nell'aspettativa di ciò che sto per dire. Ma l'attenzione è presente, ed è la sua presenza a far sì che ciò che era futuro si traduca in passato. Via via che questa azione si compie, l'aspettativa si accorcia e il ricordo si allunga, finché l'aspettativa è tutta consumata, quando l'azione è compiuta e passata tutta nella memoria. E ciò che avviene dell'intera canzone avviene anche di ciascuna sua minima parte fino alle singole sillabe, e di un'azione più lunga di cui quella canzone può far parte, e dell'intera vita di un uomo, che è costituita da tutte le sue azioni, e dell'intera storia dei figli degli uomini, che è costituita da tutte le vite umane. Conclusione

 

29.39. Ma poiché la tua grazia è al di sopra di tutte le vite, ecco: non è che distrazione la mia vita, eppure la tua destra mi ha raccolto nel mio Signore, il figlio dell'uomo, mediatore fra te, l'uno, e noi, i molti, in molte cose e per molte vie, in modo che per mezzo suo mi afferri a questo che mi ha afferrato e dai giorni antichi io torni in me seguendo l'Uno, e dimentichi il passato: non per farmi distrarre dalle cose che verranno e se ne andranno, ma per essere teso a quelle immobili davanti a me. Così, in un'attenzione ormai non più distratta inseguo la palma di chi è chiamato in alto, dove udirò risuonare le tue lodi e contemplerò la tua felicità, che non passa. Ora i miei anni piangono, e il mio conforto sei tu, padre mio eterno e Signore; e io mi sono sbriciolato nel tempo senza conoscerne l'ordine, e i miei pensieri, i visceri dell'anima, li fa a pezzi la furia del molteplice, fino a quando nella catarsi del tuo fuoco d'amore io sarò fuso e rifluito in te.

 

30.40. E in te troverò stanza e consistenza nella tua verità, che è la mia forma. E non dovrò più sopportare quelle persone condannate da una strana malattia ad aver voglia di bere sempre più di quanto possano contenere, con le loro questioni come "Che cosa faceva Dio prima di creare il cielo e la terra?" o "Come gli è venuto in mente di fare qualcosa se fino a quel momento non aveva mai fatto nulla?". Concedi loro, mio Signore, di pensare bene a quello che dicono e scoprire che non ha senso dire "mai" dove il tempo non esiste. Che altro vuol dire "mai" se non "in nessun tempo"? Si rendano conto che senza creato non può esservi tempo e smettano di parlare a vuoto. Rivolgano anche loro l'attenzione a ciò che sempre trovano davanti e comprendano che tu stai innanzi a tutti i tempi, loro creatore eterno, e nessun tempo ti è coeterno e nessuna creatura, benché ve ne possano essere di superiori al tempo.

 

31.41. Mio Dio e Signore, come è profondo e alto il tuo segreto, e quanto lontano me ne hanno gettato le conseguenze dei miei errori. Guarisci i miei occhi, e anch'io potrò godere la tua luce. Certo se c'è una mente forte di conoscenza e prescienza così grandi, che tutto il passato e il futuro le sono familiari come a me una canzone notissima, troppo meravigliosa e terrificante è questa mente, cui nulla sfugge che sia avvenuto o debba ancora avvenire in tutti i secoli. Proprio come non sfugge a me, quando canto quella canzone, quale e quanta parte di essa ho già cantato dall'esordio e quale e quanta ne resti per finire. Eppure non così, ben altrimenti tu, autore della totalità degli esseri, autore delle anime e dei corpi, ben altrimenti tu conosci tutto il futuro e tutto il passato. In modo molto, molto più mirabile e segreto... Quando uno canta o ascolta cantare una canzone nota, l'aspettativa dei suoni a venire e il ricordo di quelli passati causano variazioni nel sentimento e la percezione ne viene distratta. Niente del genere accade a te che sei immutabilmente, cioè veramente, eterno creatore delle menti. Come conoscevi in principio il cielo e la terra senza alcun mutamento nella tua coscienza, così in principio creasti il cielo e la terra senza disperdere nel tempo l'azione. Chi capisce ti renda lode, e ti renda lode anche chi non capisce. A quali altezze tu stai, tu che hai negli umili di cuore la tua casa. Perché tu risollevi chi è prostrato, e non cade chi ha in te la propria altezza.