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Giulio Belotti: L'educazione in sant'Agostino

 Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

 

 

 

Capitolo 1

IL FANCIULLO NELL'EDUCAZIONE PAGANA

di Giulio Belotti

 

 

"Hanc ergo aetatem, Domine, quam

me vixisse non memini... piget me 

annumerare huic vitae meae... ».

(Conf. I, VII, 12)

 

Un contrasto stridente, che si manifesta frequentemente un po' in tutte le opere di Sant'Agostino, costituisce per lui la base di partenza per la valutazione, la discussione e la soluzione dei massimi problemi inerenti alla vita umana: da un lato, la «luce vera, che illumina ogni uomo che viene a questo mondo" (San Giovanni I, l), Dio; dall'altro, l'uomo, il quale, per il peccato d'Adamo, è diventato " ad peccandum proclivior" (Opus imp. contro Jul. L. v, c. XLVIII PL. tomo 45 col. 1484) e del quale, perciò, "universam in deterius mutatam fuisse naturam" (Contra Jul. pelag. L. III, c. XXVII PL. tomo 44 col. 732). Comprendere questo contrasto, significa comprendere il tema fondamentale della concezione filosofico-pedagogica del santo Dottore, il quale, nell'aureo libro delle Confessioni, in special modo, attraverso l'umile e sincera descrizione del dramma della sua vita, così denso di deviazioni, di sperdimenti e di colpe, ci mostra come debba risplendere sull'uomo la luce del Sole divino se si vogliono vincere le tenebre del peccato. Donde la similitudine spesse volte ricorrente e comunque sempre chiaramente sottintesa nella appassionata narrazione della drammatica lotta ch'egli, per vent'anni circa, ha condotto contro l'errore, in cerca della Verità: Dio di fronte all'uomo sta nello stesso rapporto che intercorre fra il sole e la terra. Per quanto le tempeste infuriino, oscurando le nubi e precludendo la via ai benefici raggi solari, questi però continuano a sprigionare, con la luce, la vita; per quanto l'uomo viva immerso nelle tenebre dell' errore, la Verità rifulge, pronta sempre, una volta rischiaratosi l'orizzonte, a illuminare, di nuovo, la sua mente, a riscaldare di nuovo il suo cuore. Sant'Agostino orienterà, come vedremo, tutta la sua pedagogia verso un fine ben chiaro: far sì che l'uomo tenda a questa luce. Subordinerà la "scientia" alla "sapientia", graduerà i valori umani, ordinandoli e rapportandoli a quelli soprannaturali; non perderà di vista, per questo, l'uomo, ma avrà costante la preoccupazione di formare in esso il cristiano; perché lo scopo dell'uomo è il conseguimento della beatitudine, non della gloria terrena e dei piaceri umani. Lo scopo della educazione non consisterà più nel formare il "vir bonus dicendi peritus", bensì colui che nell'amore di Dio e del prossimo trovi la pace del cuore: "Inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te!" (Conf. I, l, col. 79 Maur.). Ma Sant'Agostino vive in un mondo ancora imbevuto di paganesimo, è stato educato ad una scuola dove la forma e non la sostanza conta, è vissuto in una società priva di ogni idealità superiore, ha trascorso insomma buona parte della sua vita in quelle tenebre che precludono la via alla luce. Eppure egli sa che al di là delle nubi esiste il Sole della Verità, lo cerca perciò con insistenza, ne soffre la mancanza e tanto maggiormente in quanto ne assapora, talvolta, seppure per brevi istanti, la soave dolcezza. Infine trova la Verità, esulta per la conquista, confessa le sue colpe, ringrazia Dio con uno dei più alti inni di lode che mai creatura umana abbia innalzato al suo Dio, e costruisce il suo nuovo mondo sulle rovine del vecchio mondo pagano in sfacelo.

 

 

LA CRITICA ALL'EDUCAZIONE PAGANA

Seguire il giovane Agostino nella critica che, nei primi due libri delle Confessioni, egli fa all'educazione pagana - che rappresenta per lui il tempo delle tenebre - sarà per noi la migliore preparazione a giustificare il giubilo del santo Dottore per la conquista della Verità; sarà anche strumento il più valido per valutare in tutta la sua enorme importanza, la rivoluzione che egli apporterà nel campo dell'educazione col porre un nuovo fine da raggiungere all'uomo. Il quale, nasce "circumferens testimonium peccati sui" (Conf. 1, 1 ML. 32, 660 s. 11 Conf. 1, 7, 1). Il bambino, a differenza di quanto penserà il naturalismo di Rousseau, nasce macchiato d'una grave colpa: "ita imbecillitas membrorum infantilium innocens est, non animus infantium" . Per quanto Sant'Agostino non possa ripetere se non quello che ha udito dagli altri, egli sa di aver avuto tanti vizi fin dalla prima infanzia, vizi del resto comuni a tutti i bambini. Se non veniva accontentato, si stizziva e piangeva, perché voleva assoggettati a lui i grandi; bramava con troppa avidità il latte della nutrice, piangeva se gli si negava quel che avrebbe potuto nuocergli, e così via. Ricorda anche d'aver visto un lattante geloso del suo fratello di latte. Quante miserie! Sant'Agostino si vergogna perfino di parlarne: "piget me annumerare huic vitae meae, quam vivo in hoc saeculo!" (Conf. II, 7 (12) ML. 32, col. 666). Pare che egli consideri già "colpe" questi difetti e dichiara che, se essi non possono esser corretti in quell'età, perché nel bambino manca la possibilità di comprendere la riprensione, l'educazione deve invece provvedervi col crescer degli anni, affinché non si sviluppino degenerando in vizi peggiori. Sant'Agostino ha il merito d'aver notato nei bambini questi difetti, oggetto oggi di studio degli psicanalisti; le esperienze da essi condotte hanno dato risultati che non contraddicono per nulla alle affermazioni fatte dal santo Dottore tanti secoli fa. Per inciso faremo notare lo studio particolare fatto da Padre Gemelli in collaborazione con Agata Sidlauskaite (GEMELLI - SWLAUSKAITE, La psicologia dell'età evolutiva). Essi affermano che «dal lato pedagogico vale il principio: non fare ragionamenti per indurre il bambino ad obbedire, perché il bambino non è capace ancora di formarsi delle convinzioni, ma provocare, mediante il gioco degli interessi la disciplina della vita istintivo-affettiva con lo scopo di formare abitudini buone". Quanto poi all'egoismo e all'orgoglio che si manifestano nei primi anni dell'infanzia ritengono che sia «ingiusto pronunciare un giudizio morale, che deve essere formulato solo per l'adulto o almeno per un giovane in cui l'intelligenza abbia raggiunto sufficiente sviluppo" (ibidem). Sant'Agostino non fa nelle Confessioni un processo alle colpe nei bambini, ma si limita ad accennarne per convalidare la tesi cristiana dell'ereditarietà del peccato d'Adamo. Ma non ha invece parola alcuna di giustificazione per le colpe che si riferiscono alla sua gioventù, effetto di una cattiva educazione ricevuta nella scuola d'allora, che vedremo essere assai imperfetta e incompleta, dalla società con i suoi esempi perversi e, in parte almeno, anche dalla sua famiglia. Famiglia, società, scuola, dove domina ancora un'educazione (ma poteva poi dirsi tale?) completamente pagana. Non sempre i genitori, pare ci dica Sant'Agostino, sentono in tutta la loro importanza i doveri che loro incombono d'aiutare i figli nella formazione della propria personalità, di correggerli nelle prime manifestazioni di una natura tendenzialmente portata al male, né sanno immedesimarsi nelle necessità particolarissime per quell'età. Egli stesso ne ha fatto esperienza. Quando, lo vedremo fra poco, sarà battuto a scuola, i suoi parenti, dai quali sperava di trovare aiuto e comprensione, lo deridono: «ridebantur, a majoribus hominibus, usque ab ipsis parentibus, qui mihi accidere mali nihil volebant, plagae meae, magnum tunc et grave malum meum » (Conf. I, 9, 14 ML. 32, 667).

La madre, Monica, non mancava, è vero, di dare saggi consigli al figlio Agostino, ma il padre, Patrizio, che era - così lo descrive il Papini «un pagano tiepido, cristiano riluttante, forse scettico in fondo all'anima, e senza forse sensualissimo ... » (G. PAPINI, Sant'Agostino, pag. 281) - di una sola cosa si preoccupava, che il figlio facesse carriera, che crescesse non tanto sano nello spirito quanto vigoroso nelle membra e tale che potesse «saziare l'insanabile avidità d'una copiosa inopia e d'una ignominiosa gloria» come scrive lo stesso Agostino nelle Confessioni. Il santo Dottore, rievocando i fatti e i sentimenti suoi in quegli anni della sua infanzia, confessa con sincerità il suo affetto per la madre, sottacendo invece per delicatezza la poca stima che nutre per il padre, che non poteva certo amare. Un fatto, da lui narratoci nelle Confessioni, basta a dirci la natura dei sentimenti paterni. Era andato, un giorno, alle terme per fare il bagno insieme col padre. Questi, quando s'accorse che il figlio manifestava i segni della virilità, ne gioì grandemente e corse a darne l'annuncio a Monica. La quale, lo abbiamo già detto, cercava di riparare ai cattivi esempi del marito e qualcosa otteneva se, in occasione di quella febbre violenta che minacciò di portare Agostino alla tomba, egli stesso, ricordando evidentemente le lezioni materne, arrivò a chiedere di ricevere il battesimo. Il Sacramento non gli fu poi somministrato essendo egli guarito, per l'usanza allora vigente che tendeva a valersi di questo mezzo di purificazione dalle colpe, soltanto dopo il periodo burrascoso della gioventù, onde cancellare in una volta tutti quanti i peccati della vita. Comunque da Patrizio erediterà oltre ad una buona dose di sensualità, le intemperanze del bilioso carattere, che si manifesteranno soprattutto nei rapporti con i compagni di gioco. E torna conto far qui il punto su un grosso difetto del fanciullo di Tagaste, che ci offre l'occasione per qualche nota pedagogica: la menzogna.

 

 

LA MENZOGNA

Leggiamo nel Libro I delle Confessioni: "Non enim videbam voraginem turpitudinis, in quam projectus eram ab oculis tuis. Nam in illis jam quid me foedius fuit, ut etiam talibus displicebam, fallendo innumerabilibus mendaciis et paedagogum, et magistros, et parentes amore ludendi, studio spectandi nugatoria et imitandi, ludicra inquietudine ?» (Conf. I, 19 (30) col. 92). Ingannava con bugie il pedagogo, i maestri, i genitori. Perché li ingannava? Per amore del gioco e degli spettacoli cattivi. Esaminiamo brevemente queste due cause del suo mentire, per vedere fino a qual punto l'educazione possa e debba concorrere a stornare e vincere questo vizio nel bambino, togliendone le cause.

Chiediamo anzitutto: cos'è il gioco per il bambino? Padre Gemelli mette da parte "la opinione di coloro che vedono nel gioco una liberazione delle energie accumulate" per affermare che il gioco "tiene nel bambino il posto tenuto nell'adulto dall'attività compiuta volontariamente con un fine conosciuto e perseguito come tale" (GEMELLI - SILDAUSKAITE, op. cit., pag. 91). Angiolo Gambaro, consentendo col Rousseau sul carattere anomico dell'infanzia, osserva che "il bambino, cui è incomprensibile il linguaggio del dovere, non sente che la forza obbiettiva delle cose, della natura" (A. GAMBARO, Metodi di educ. inf., Torino, 1944, pag. 14) e accetta la definizione che di esso gioco dà il Froebel: essere cioè il gioco «il più alto grado dello svolgimento umano nello stadio infantile perché esso è la spontanea e necessaria rappresentazione dell'interno dell'animo che ha bisogno di estrinsecarsi " (ibidem, pag. 16). Ciò ammesso e riconosciuto, dovremo ancora impedire al fanciullo di esplicare quest'attività? O non dovremo invece non solo tollerarlo, ma anche « organizzarlo "come ha fatto la moderna pedagogia? Una più ampia indagine su questo argomento esulerebbe dal nostro scopo. Quanto abbiamo detto può bastare per farci concludere con Don Bosco: «Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento" (A. MANCINI, Il sistema preventivo di D. Bosco, Bologna, 1929, pag. 36), altrimenti il bambino, che sente imperiosa la necessità di esplicare questa sua attività, ci sfuggirà, e otterrà con la menzogna e con l'inganno quel che non ha potuto ottenere con una giusta richiesta. Allora, quel che è un bene se compiuto con il permesso dei superiori, diventerà un abuso, che porterà con sé il gusto del mentire, triste abitudine che l'educazione deve stroncare sul nascere. Donde il rimprovero che Agostino muove agli adulti, andando anche al di là delle nostre considerazioni di per sé già sufficienti. "Perché gli adulti puniscono i bambini, se giocano invece di studiare, se anch'essi amano tanto i loro giochi?», così gli fa commentare il Guzzo.

E ancora: "I bambini sono puniti se preferiscono il gioco allo studio dell'alfabeto; ma quando avranno imparato lettura e scrittura non se ne serviranno in vane dispute, che sono anch'esse giochi, ma non innocenti come quelle dei bambini, perché, invece, agitati da passioni?" (A. Guzzo, Confessioni, Napoli, 1938, pag. 18). Il passo offre spunti vari di critica, che svolgeremo in seguito; ci basti per ora fare il punto sull'indubbio pensiero del santo Dottore intorno al gioco, e vedere in lui l'antesignano della più moderna concezione. Quanto ai pericoli che il bambino può correre lasciato solo, egli stesso ce li dichiara, per averne fatto personale esperienza: "anche nel gioco, io, vinto dalla brama di una sciocca superiorità, carpivo la vittoria con la frode" e ancora: "e se c'ero colto, piuttosto che cedere, ero disposto a dar nelle furie..." (Conf. I, 9, 14). Quanti vizi mettono le radici nell'animo infantile, s'esso è privo d'una guida sicura! Dalla menzogna, alla superbia, all'egoismo e, vedremo presto, al furto. Anche nel gioco il bambino non dev'essere lasciato solo, perché non è ancora capace di vivere da sé, non sa ancora far uso conveniente della ragione, è debole e soggetto a cedere più facilmente al richiamo dei piaceri, che non a sottostare alla legge della coscienza; non è ancora completa la sua personalità, non è uomo fatto, e occorre perciò evitargli troppo facili contagi di male. Soprattutto, è necessario disciplinare i suoi rapporti con i compagni. Ma su questo punto ritorneremo trattando l'altra colpa di Agostino, il furto. Prima di procedere oltre, facciamo una riflessione. La mancanza di una buona educazione familiare, che è possibile soltanto quando entrambi i coniugi cooperano alla elevazione morale dei figli, oggi come ieri costituisce una seria minaccia alla formazione del carattere nel fanciullo, il quale, lo abbiamo detto già, è tendenzialmente portato all'errore e al vizio. Come una tenera pianticella, nata in terreno per natura povero d'alimenti o mal coltivato, intristisce e muore sotto le venefiche radici della zizzania, se l'amorosa mano del contadino vigile e saggio non dà ad essa lo spazio sufficiente perché viva, sgombrandola dalle cattive erbe, premunendola contro le malattie con opportune cure, così il fanciullo, che nasce malato della colpa d'Adamo, che inizia la sua vita in una società dove il male predomina, se non trova nell'amorevole e insieme severa assistenza della famiglia l'indirizzo buono e un esempio che tale indirizzo renda efficace, finirà col correre la china della rovina morale .. Ecco perché Sant'Agostino, pur con la delicatezza d'un figlio, critica la cattiva educazione ricevuta dal padre, ed ha severe parole per la scuola e per la società d'allora .. Oggi siamo ancora lontani, purtroppo, dal vedere attuata - in pratica almeno - la conclamata collaborazione fra scuola e famiglia, pur tanto necessaria per un esito soddisfacente degli sforzi degli educatori. Ma oggi, perlomeno, la scuola rimedia in gran parte alla noncuranza dei genitori. Ai tempi d'Agostino, invece - lo vedremo fra poco - essa si riduceva a una pura e semplice "palestra" dove l'unica preoccupazione di chi insegnava e di chi imparava consisteva nel "non commettere un barbarismo". Oggi la scuola educa il cuore a sentimenti di bontà, crea con accorgimenti vari l'atmosfera favorevole allo svilupparsi d'un senso sociale, e di ciò s'occupa non soltanto la scuola superiore, ma anche, sin dai primi anni di vita del fanciullo, la provvidenziale scuola materna; l'educatore vede nel fanciullo tutto l'uomo, corpo e anima; amando il fanciullo, se ne conquista la fiducia, se lo fa amico e, rispettando la sua libertà, lo educa all'autodisciplina; facendogli credito quando sbaglia, lo stimola a correggersi; v'è, insomma, un senso morale sul quale far leva, che allora non veniva tenuto presente, mirando la scuola a combattere soltanto l'analfabetismo strumentale, senza considerare che assai più dannoso, per il fanciullo stesso e per la società tutta alla quale egli appartiene, è l'analfabetismo spirituale .. Dare un fine superiore all'uomo e quindi alla educazione che lo fa essere tale, fu la preoccupazione massima del santo Dottore il quale, se non poté anticipare in tutto e per tutto quelli che sono gli odierni orientamenti didattico-pedagogici, sia nella critica all'educazione pagana che andiamo esaminando sia coi precetti che vedremo c'impartirà nel De Ordine, sia da ultimo attuando in pratica la scuola gioiosa grazie alla quale possiamo ben dirlo precorritore del metodo intuitivo oggi cosi largamente applicato, fu certamente uno dei più grandi pedagogisti della storia della educazione.

 

 

GLI SPETTACOLI

Ma torniamo al nostro argomento. Il giovanetto di Tagaste non mentiva soltanto per amore del giuoco, ma anche per poter assistere agli spettacoli. Non pare, a questo proposito, che l'antica sentenza "Castigat ridendo mores ", potesse applicarsi agli spettacoli che si davano, generalmente, nel secolo IV se Sant'Agostino ha per essi parole d'indubbio significato: «Rapiebant me spectacula theatrica, plena imaginibus miseriarum mearum, et fomitibus ignis mei". Tertulliano, del resto, non manca di sottolineare l'oscenità delle rappresentazioni mimiche (TERTULLIANO, De spect., 10, 17) contro le quali era persino insorta la legge onde porvi un freno (TERZAGHI, Storia della letteratura latina, pag. 285). Da fine psicologo, qual è, Sant'Agostino coglie l'occasione del rilievo per chiedersi come mai l'uomo, che per istinto fugge il dolore, a teatro desidera invece soffrire con la fantasia, senza però riuscire a trovarne una spiegazione plausibile. Osserva il Guzzo: «Agostino non allarga questo suo spunto di psicologia dello spettatore, sebbene vi ritorni e vi insista su parecchie volte. Aristotele aveva mostrato la commozione giungere a risoluzione nella catarsi: ma Agostino si limita a porre il problema del desiderio di soffrire nella fantasia, in contrasto con la naturale ripugnanza d'ogni uomo per il dolore nella vita reale" (A. Guzzo, Confessioni di Sant'Agostino, pag. 35). Passando dalla psicologia alla pedagogia diremo che il problema dello spettacolo conserva oggi lo stesso pericolo che aveva ieri, nei riguardi dell'educazione. Il fanciullo, infatti, inesperto com'è della vita, di fronte alla rappresentazione di scene e di fatti diseducativi, è portato a ricalcare nel suo spirito i sentimenti e gli atteggiamenti del teatro; egli finisce col persuadersi che l'esempio può essere imitato, magari impunemente, e in ogni caso avviene nel suo spirito una modificazione - in questo caso negativa - i cui effetti si manifesteranno con l'andar degli anni, in occasione di particolari situazioni, quand'egli agirà nella società. Quanti fatti dolorosi, quanti delitti non si spiegano se non negli effetti di questi esempi! E quante alterazioni psichiche, quante anormalità si riscontrano in giovani prematuramente invecchiati a causa di pessime abitudini contratte in seguito a suggestioni di spettacoli che fanno l'elogio del vizio e l'apologia del delitto!

La vera educazione non consiste soltanto nell'offrire all'alunno saggi consigli, ma anche nell'allontanare da lui quegli esempi deleteri che la società è sempre pronta a mostrare.

 

 

IL FURTO

E' quest'ultima, l'educazione indiretta negativa. «far cosa inutile - scrive Raffaello Lambruschini - a prescriversi, pare anzi un'ammonizione ingiuriosa ai genitori e agli educatori; pure è necessario di dire, che avanti di far bene ai fanciulli, conviene badare che non si faccia loro del male. Fortunato il bambino a cui in nessun tempo della sua vita, con parole o con opere tristi o mal accorte, non sia insegnato l'errore, né il vizio, e di cui non siano pervertite o sviate le facoltà per mal governo che ne sia fatto!..." (R. LAMBRUSCHINI, Dell'Educazione, a cura di Casotti, Cap. IV, pag. 99).

E facciamo un accenno, ora, all'altra colpa che Sant'Agostino denuncia nelle Confessioni, il furto. Il passo più importante lo troviamo nel quarto Capitolo del secondo Libro. «Arbor erat pirus - scrive il santo Dottore - in vicinia vineae nostrae pomis onusta, nec forma nec sapore ilIecebrosis. Ad hanc excutendam atque adsportandam, nequissimi adolescentuli perreximus nocte intempesta, quo usque ludum de pestilentiae more in areis produxeramus; et abstulimus inde onera ingentia, non ad nostras epulas, sed vel projicienda porcis, etiamsi si aliquid inde comedimus; dum tamen fieret a nobis quod eo liberet quo non liceret " (Conf. II, 4, 9 col. 97 Maur ). Analizziamo il passo ponendolo in relazione a quanto lo ha preceduto e a quanto lo segue, che noi per brevità non trascriviamo. Anzitutto Agostino si chiede: è una colpa il furto? Senz'altro! gli risponde la voce della coscienza. E la stessa risposta gli dà la legge di Dio. Due voci, due leggi, quella data da Mosè sul Monte Sinai e quella scolpita nel cuore dell'uomo, che si identificano perché entrambe scritte da Dio. «Perché la voce della ragione riguardo alla volontà - spiega Emanuele Kant nella Critica della ragion pratica - è così chiara, così impossibile a coprire, così distinta anche per l'uomo volgare, che è quasi impossibile essere abbastanza sfacciati da far il sordo a quella voce celeste" (E. KANT, Critica della ragion pratica, Teor. IV Scol. II ). Anche chi ruba riconosce che è male rubare; il furto, violando la giustizia, non è tollerato neppure dalle bande degli stessi ladri, che possono vivere e operare proprio perché e fin tanto che un minimo di giustizia regola i loro nefasti rapporti. Agostino, dopo questa premessa, indaga con una fine analisi introspettiva, i perversi moti dell'animo suo nel giorno in cui rubò quelle pere.

Aveva detto poco prima: "haec ipsa sunt, quae a paedagogis et magistris, a nucibus et pilulis et passeribus, ad praefectos et reges, aurum, praedia, mancipia; haec ipsa omnino quae succedentibus majoribus aetatibus transeunt... » (Confess. I, 19 (30) col. 92 Maur); il furto è sempre colpa anche se all'inizio si limita a recar poco danno materiale, perché ciò che oggi preoccupa l'educatore, preoccuperà domani, inevitabilmente, la società. I piccoli difetti non corretti nell'età infantile, crescono col crescere degli anni e inducono a sicura perdizione. Ora Agostino dà un'altra pennellata al quadro che sta dipingendoci e dichiara d'aver voluto commettere il furto non per bisogno, ma per il gusto di contravvenire alla legge divina. Il male si può commetterlo, e lo si commette generalmente, per una errata valutazione dei beni terreni che vengono desiderati e perseguiti come fine, anziché essere usati come mezzo di conquista del fine superiore pel quale siamo stati creati. "Fatti non foste a viver come bruti - dirà Dante - ma per seguir virtute e conoscenza". Orbene, sarà la constatazione di quest'abbaglio che fa "homo homini lupus", che lo fa egoista e cattivo, a spingere il Santo Vescovo d'Ippona a trovarne il rimedio nello "studium sapientiae". Senonché, nel caso particolare del furto di pere, il giovanetto Agostino passò anche i limiti segnati da questo fraintendere il fine coi mezzi. Egli infatti non ha desiderato quelle pere più di quel che non desiderasse e amasse il suo Dio, perché non ne aveva motivo: non erano attraenti, né per bellezza, né per il sapore; s'aggiunga che egli, di mele, ne possedeva in maggior copia e certamente di migliori. La sua colpa fu dunque più grave, perché lo mosse un sentimento perverso di ribellione a Dio e alla sua legge, perché volle peccare per peccare, per il gusto di mancare a un preciso comando della coscienza.

Sant'Agostino bolla con amare parole quest'atteggiamento: "Vi sono dei cattivi - scrive nelle Enarr. in Ps. - ma cattivi per macilenza: per questo cattivi, perché macilenti, vale a dire ... colpiti, in certo modo, dalla tabe della necessità. Sono anch'essi cattivi e degni di castigo: ché si deve tollerare ogni necessità, piuttosto che commettere una qualsiasi iniquità. Tuttavia altra cosa è peccare per necessità, altra nell'abbondanza. Un povero mendico ha commesso un furto: l'iniquità è proceduta dalla macilenta figura. Ma il ricco ch'è in tanta abbondanza, perché ruba l'altrui? L'iniquità del primo dalla macilenza, quella del secondo è proceduta dall'adipe" (Confr. Enar. in Ps. LXXII, 7, 12). Nessuna attenuante, quindi, al suo errore, il quale è più grave di tanti altri, quali i desideri umani, la soddisfazione dei sensi, l'ira, l'ambizione, l'orgoglio, atti tutti di debolezza o di viltà, ma non di ribellione a Dio. Da questo punto di vista, la stessa congiura di Catilina sarebbe colpa minore in quanto la sua ribellione aveva di mira il conseguimento di fini particolari, laddove, invece, la ribellione di Agostino alla legge di Dio era fine a se stessa. «Sentire Agostino dichiarare il suo furto puerile - commenta A. Guzzo (Confess. L. Il, cap. V e nota n. 1 di A. Guzzo, ediz. III, pag. 27) - maggiore delle efferatezze di Catilina ci fa, giustamente, l'impressione ch'egli esageri, e voglia esagerare. Ma forse, oltre alla sua tendenza a veder colpe gravi nei suoi trascorsi giovanili, è da notare anche che egli cerca di leggere a fondo nella natura umana; e in questo sforzo d'analisi, il furto come puro furto gli appare più incomprensibile di qualsiasi grave delitto compiuto per uno scopo di acquisto o di difesa o di vendetta". Ma l'acuto osservatore, il fine psicologo dà al quadro un ultimo tocco. «Si rideva - dice Sant'Agostino più oltre - e quel riso ne solleticava in certo modo il cuore, pensando che la facevamo a coloro che erano lungi dall'aspettarsela da noi e si sarebbero fieramente opposti» (Conf. II, Cap. 9). Nel prossimo capitolo tratteremo diffusamente, oltre che dei castighi, anche del rapporto maestro-scolaro, cioè dell'autorità e della libertà. A proposito del passo citato, faremo solo osservare come esso metta in evidenza le conseguenze di quell'errata forma d'educazione che vuole ottenere con la coazione, l'ubbidienza. Essa ingenera, come si vede, il gusto, il piacere di mancare alla legge, non tanto per ottenere un vantaggio materiale, quanto per « farla ai superiori ».

Riflettiamo. Se Agostino e i suoi compagni fossero stati liberi di mangiare quelle mele, non avrebbero sentito l'insano desiderio di rubarle. È ben vero che non sarebbe saggio quell'educatore il - quale, per il fine buono d'impedire il male, lasciasse libero freno alla volontà del discepolo, ma fra i due estremi di una libertà incondizionata e della privazione della libertà, sta di mezzo quella libertà vigile e ben ordinata che porta all'autogovemo, che fa capire al fanciullo una cosa molto importante: e cioè che «la sua legge è lui stesso" come dice Giovanni Gentile (GIOVANNI GENTILE, Sommario di pedagogia, vol. II, pagg. 54-55, par. 26). «L'autorità - scrive Raffaello Lambruschini (R. LAMBRUSCHINI, Scritti di varia filosofia e rel., a cura di Angiolo Gambaro. Firenze, 1938, pag.362) - è un aiuto porto all'uomo, perché egli sia qual deve essere; perché acquisti la pienezza delle sue native potenze e ne faccia buon uso: è dunque un soccorso, quasi un compimento dell'umana libertà; non ne è la distruzione ..." e, dopo aver riconosciuto che il rispetto per l'autorità è andato sempre più diminuendo nei secoli, ne ravvisa la causa nel « risentimento della dignità d'uomo, degenerato in altezza; coscienza di saper più, degenerata in presunzione» (R. LAMBRUSCHINI, op. cit., pagg. 364-36). C'è una dignità, dunque, nell'uomo, che non vuol essere calpestata, e una libertà che non vuol essere soffocata. Sant'Agostino, portandoci con la mente a considerare il perché e la natura del suo furto, insignificante in sé a prima vista eppur tanto grave, se considerato sotto i suoi vari aspetti, ci indica la causa del suo errore nella coazione della quale sentiva il peso. Orbene, pare ci dica, io ho sbagliato, perché quell'educazione pagana che ho ricevuto era essa stessa sbagliata. Voi, evitate di ripetere questi stessi errori e otterrete diversi risultati. Il giovane che si sente libero, cioè non forzato se non dalla sua legge, da quella legge che gli parla dal fondo della coscienza e ch'egli riconosce per giusta sempre, anche se poi per avventura la sua debole volontà non gli consente di attenervisi, non ha più alcun motivo per provare il gusto del male, appunto perché gliene manca il pretesto. Contrariamente, se obbligato, quand'anche facesse l'abitudine ad ubbidire sempre e dovunque, incondizionatamente, che valore avrebbe quel suo supino acquietarsi, quel suo cieco accondiscendimento agli ordini dei superiori? L'abitudine ci sarebbe sì, ma l'animo resterebbe gretto e meschino, e il suo carattere debole, la sua personalità priva di una nota caratteristica che gli dia valore, forse si tratterebbe persino di finzione, in sostanza, comunque, mancherebbe la forza della convinzione, che conferisce merito all'azione.

Abituare il giovane a sentire le sue responsabilità, ecco l'educazione vera che toglie, col vizio, diciamo cosi, fondamentale (furto, orgoglio, menzogna, disubbidienza, ecc.), quelli collaterali, or ora esaminati, connessi o conseguenti (gusto di "farla" ai superiori, sotterfugi, espedienti vari, ecc.) alla colpa. C'è, infine, un altro aspetto, non meno importante, nel furto descritto: compì quell'atto, sotto l'influsso dei cattivi compagni. « At ego illud solus non facerem, non facerem omnino solus. Ecce est coram te, Deus meus, viva recordatio animae meae. Solus non facerem furtum illud, in quo me non libebat id quod furabar, sed quia furabar: quod me solum facere prorsus non liberet, nec fecerem » (Confess., L. II, cap. 9, 2). Torna qui a proposito quanto abbiamo già detto circa la necessità di sorvegliare il fanciullo e, ancor più, quella di abituarlo a fargli considerare la sua legge se stesso. Si tratta poi d'abituarlo a fargli considerare il male sempre tale anche se gli uomini se ne gloriano, quasi che la colpa potesse ascriversi a merito. "Purtroppo è così - conclude amaramente Sant'Agostino - si va a fare il male per la vergogna di non mostrarsi impudenti: pudet non esse imp dentem!". Ecco l'educazione deleteria della società.

Anziché gloriarsi del bene, ci si gloria del male. E l'uomo si sente inferiore se è meno cattivo dei suoi simili. L'aberrazione umana che traspare dall'analisi introspettiva del giovinetto di Tagaste, doveva deciderlo un giorno a rivoluzionare il modo di concepire la vita. E lo farà infatti, come vedremo, risolvendo nell'amore di Dio e del prossimo, tutti i problemi della sua vita.