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Giulio Belotti: L'educazione in sant'Agostino

 Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

 

 

 

Capitolo 3

SCIENTIA E SAPIENTIA IN SANT'AGOSTINO

di Giulio Belotti

 

 

«Ea est autem (via ad obtinendam

veritatem) prima humilits,, secunda

humilitas, tertia humilitas ».

(Epist. 118, III, 22 t., col. 442)

 

L'umiltà! Ecco la grande virtù alla quale Sant'Agostino era stato condotto dalla sua triste esperienza. Finché l'uomo non sradica dal suo animo l'orgoglio, e non si fa umile, gli è impossibile trovare la Verità beatifica. Essa si consegue alla sola condizione che l'intelligenza si sottometta alla fede, la volontà alla grazia. Ora, senza l'umiltà ciò non è possibile, perché l'orgoglio offusca la mente e il cuore e impedisce di vedere e di seguire la retta via del bene. Non fu così, forse, anche per il giovane Agostino?

La sua adesione alla fede è formale, tanto che l'ora di Dio suonerà per lui soltanto nel luglio del 386 quando il « tolle lege » dell'Apostolo Paolo, gli farà comprendere che «nessuno ode in quei libri la voce di colui che chiama: venite a me, voi che siete travagliati. Nessuno si degna di apprendere ch'Egli è mite e umile di cuore! Ché codesto Tu l'hai nascosto ai sapienti e ai veggenti e l'hai rivelato ai parvoli» (Confess., L. 7, II, 27 pag. 230, Tescari).

Seguiamolo dalla nascita ai trentatré anni, attraverso a quanto egli stesso ci confessa in quell'aureo libro dove mostra i tanti errori della sua tormentata giovinezza. Abbiamo già visto che, sin da bambino, si stizziva di non veder sottomessi a lui coloro che gli erano maggiori; le esortazioni di Monica a lui, già grandicello, perché fosse buono e professasse sinceramente la fede cristiana trovano un grande vuoto nel suo cuore e sono causa di tante lacrime. Diventa catecumeno [40] senza essere battezzato. Perché? Perché quest'atto che redime dalla colpa d'Adamo, impone il dovere di credere umilmente e di vivere cristianamente, mentre il giovane Agostino non vuol pregare un Dio che non conosce se non attraverso le sante parole materne (ch'egli ritiene però "roba da donnicciuole"); e alla incapacità dei sensi a sottoporsi ad una rigida norma morale, corrisponde in quell'animo altero una ancor più colpevole incapacità di piegare la ragione alla fede. "Non enim tenebam Dominum meum Jesum, humilis humilem: nec cuius rei magistra esset ejus infìrmitas noveram" (Confess. VII, 18, 24 col. 16 Maur.).

Gli mancava l'umiltà, e l'incapacità assoluta a concepire una realtà incorporea: «Et quoniam curo de Deo meo cogitare vellem, cogitare nisi moles corporum non noveram - neque enim videbatur mihi esse quicquam, quod tale non esset - ea maxima et prope sola causa erat inevitabilis erroris mei." (Confess. V, 10, 19). Si farà perciò seguace, prima del Manicheismo, poi dei Neoplatonici, dei Donatisti, dei Pelagiani, mentre agli errori intellettuali, s'aggiungeranno, innumerevoli, quelli morali. Sentiva, sì, che Cristo era la sola via attraverso la quale si può giungere alla beatitudine, era sensibile ad ogni altro ideale (e la lettura dell'Hortensius ne fa fede) ma non poteva convincersi che la verità potesse umiliarsi fino a tal punto da essere accolta in un libro povero di forma e spoglio di ogni ornamento classico così come ai suoi occhi malati si presentava allora la Sacra Scrittura. Quella Sacra Scrittura che, come vedremo, diventerà proprio per lui, divenuto umile e perciò cristiano vero, lo strumento dello "studium sapientiae", l'aureo libro sul quale costruirà il grande edificio della sua dottrina, dal quale trarrà tanti e tanti insegnamenti. Ma era naturale, allora, che, deposto un libro di Cicerone, a lui, che tutto interpretava in senso materiale, la Bibbia dovesse non certo sembrare, sia per il contenuto, sia soprattutto per la forma semplice e umile, un libro divino e riconosce: "ecce video rem non compertam superbis, neque nudatam pueris ... Tumor enim meus refugiebat modum ejus; et acies mea non penetrabat interiora ejus ».

Perché? "Verum tamen illa erat quae cresceret curo parvulis: sed ego dedignabar esse parvulus, et turgidus fastu mihi grandis videbar » (Conf. III, 9 col. 104-105).

Credeva nella verità, sentiva potente l'anelito ad essa, ma l'orgoglio lo faceva deviare, e, come s'è detto, insoddisfatto della [41] Bibbia, si rivolse non al Cristianesimo, ma al Manicheismo: «Incidi itaque in homines superbe delirantes, et carnales nimis et loquaces, in quorum ore laquei diaboli, et viscum confectum commixtione sillabarum nominis tui, sed et Domini Jesu Christi, et paracleti consolatoris nostri Spiritus sancti » (Conf. III, VI, 10 col. 105, Maur.). Mani, infatti, parlava di Cristo e della Verità, se pure "tra di loro non ve n'era punta" (Conf. III, VI, 10, col. 105), e poi, i Manichei, erano, come lui Agostino, «superbe delirantes» e parlavano molto; dicevano anche qualcosa di molto adatto e di molto comodo per lui, cioè che l'interpretazione data da essi alle Sacre Scritture era la sola vera; ed essa era tale da soddisfare la ragione senza far appello alla fede, se non per quel poco che fede e ragione concordassero nella soluzione dei problemi. Proprio quel che ci voleva per Agostino. Scoperto però, col tempo, l'inganno, si allontana da essi che non gli hanno per nulla dato quel ch'egli cercava, anzi gli rendevano impossibile con la loro teoria persino la soluzione metafisica del problema del male, oltre che incomprensibile la spiritualità di Dio. "Gli è che tu, Dio - scriveva nel quinto Libro delle Confessioni - volgi il tuo sguardo sugli umili, mentre gli orgogliosi conosci di lontano, e non t'avvicini se non a coloro che hanno il cuore contrito, né ti lasci trovare dai superbi.» (Conf. V, 3, 3 pag. 124, Tescari). Dai Manichei agli Accademici: l'evoluzione continua nello spirito suo, mentre il materialismo non gli dischiude l'orizzonte sereno, finché viene a Milano e conosce il Vescovo Ambrogio. «Littera occidit, spiritus autem vivificat» (II Corint. III, 6) egli dice.

Agostino finalmente comprende, per la prima volta incontra lo spiritualismo, vede l'abisso nel quale era precipitato al Manicheismo (De utilitate Credendi, VI, 13, t. 42, c. 74) i cui seguaci pospongono sì la fede alla ragione, ma, quando questa vuole spiegazioni, essi, non sapendo darle, rimandano all'autorità dei loro dottori. La soluzione che dà la Chiesa è dunque ancora la migliore: essa vuole che la fede domini sovrana, ma accetta anche l'opera della ragione.

Nulla di strano, poi, nella necessità d'una fede, in quanto che gli uomini stessi credono a tante cose sulla parola di altri uomini in cui hanno fiducia, e solo in quella. Perché ciò che avviene normalmente nella vita sociale, non dovrebbe valere anche per [42] le Scritture? (Conf. VI, 5, 7). Dio le ha volute così, facili a capirsi da tutti, intelligenti e non, perché tutti devono poter salvare la loro anima (De Libero Arbitrio II, l, 15) il sapiente, poi, perché gioisca e rafforzi la sua fede nel trovare una conferma di ordine razionale, si rivolga all'autorità della scrittura (BATIFFOL, Le catholicisme de S. Agustin, t.i.p. p. 14). Si può dunque credere prima di capire. L'Alfaric sostiene che Sant'Agostino - a questo punto - non può dirsi ancora cristiano (ALFARIC P., L'èvolution intellectuelle de s. A., pagg. 380-381). Ma il Gilson, insieme a P. Monceaux afferma che, se non si può ritenere perfetta la sua conversione, tuttavia sarebbe un negare i testi dichiararlo non cristiano sin da ora (MONCEAUX, Journal des savants, 1920). È vero che Agostino non conosce ancora il contenuto della sua fede, che non tutti i suoi dubbi sono risolti, ma, fondamentalmente egli è nella Chiesa: «stabiliter tamen haerebat - scrive nelle Confessioni - in corde meo in catholica ecclesia fides Christi tui, domini et salvatoris nostri, in multis quidem adhuc informis et praeter doctrinae normam fluctuans, sed tamen non eam relinquebat animus, immo in dies magis magisque imbibebat» (Conf. VII, 5, 7). Comunque è una tappa, una prima tappa decisiva verso la via della conversione completa. Sant'Agostino non riesce ancora, tuttavia, a vincere se stesso, inclinato com'è al vizio di cui ha troppa esperienza, e, inoltre, non riesce a risolvere il problema del male.

La Sapienza ch'egli cerca, non è per lui soltanto teoria, ma anche prassi di vita e sa che, una volta deciso di seguire la religione cristiana, non si può più venire a patti con i vizi. Essa significa rinuncia al mondo, distacco dai beni terreni, e Sant'Agostino pensa invece che la continenza non sia possibile. Insoddisfatto, o meglio, non ancora preparato all'ascesa definitiva, diventa neoplatonico e spera di trovare nei libri di Plotino il Verbo, mediatore fra Dio e il mondo. «Io leggevo - narra Agostino – (Conf. VII, 9 ,14) in quei libri che il Verbo divino non è nato né dalla carne, né dal sangue, né dalla volontà dell'uomo, né dalla volontà della carne, bensì da Dio. Ma che il Verbo si sia fatto carne ed abbia abitato fra noi, questo non vi leggevo ... Trovavo solo che, prima dei tempi ed oltre i tempi, il tuo unico figlio, o Dio, esiste immutabilmente, eterno come tu sei; che dalla Sua pienezza gli uomini ricevono la loro felicità, e che dalla partecipazione della sapienza, la quale risiede in lui, deriva il loro rinnnovarsi e divenir [43] saggi. Ma non vi trovavo che il figlio tuo sia morto per i peccatori, e che tu non hai risparmiato il tuo unico Figlio, ma l'hai immolato per la nostra salvezza. Perché tu hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli, affinché coloro che sono afflitti ed oppressi venissero a Lui, ed Egli li consolasse". Ma se questa dottrina gli aveva rivelato Dio, non gli aveva però insegnato qual'è la via per arrivare a Lui, che ora vede come infinita sostanza spirituale (Conf. VII, 14 (20). Il Cristianesimo nascente in Sant'Agostillo si spiritualizzava. Rientra in se stesso e, con l'aiuto di Dio, scopre la natura immateriale della luce divina di cui parla San Giovanni. Alla fede, s'aggiunge ora un'esperienza religiosa. Sant'Agostino si sente attratto verso le Epistole di San Paolo, che gli apriranno definitivamente le porte per diventare veramente e totalmente cristiano. Esse gl'insegnavano che bisogna gioire di Dio, unendosi a Lui in spirito e verità, rinunciare agli onori, alla gloria, far penitenza, umiliarsi, purificare l'occhio e renderlo così puro da permettergli la beatifica visione di Dio.

Ma Agostino non sapeva ancora umiliarsi: "Io cercavo, o Signore, come poter acquistare la forza che rende capaci di gioire di te ... Ma io non ero ancora abbastanza umile, per possedere Gesù, il Dio della umiltà, e non comprendevo che cosa volesse insegnarci la sua debolezza. Poiché il tuo Verbo, la Verità eterna, che sta infinitamente al di sopra di quanto v'ha di più elevato nelle tue creature, solleva fino a sé coloro che gli sono sottomessi ..." (Conf. VII, 18, 24). Intanto, però, San Paolo lo commuoveva e lo convinceva. E mentre in quell'anima tormentata dalla ricerca della Verità e amareggiata da passioni turbolente e da dolcezze disgustose, si faceva strada una sempre più ferma convinzione, anche la volontà si conformava allo spirito paolino. «Le vecchie amiche - scrive nelle Confessioni - non ardivano più venirmi di faccia come per una leale contraddizione; ma mi bisbigliavano alle spalle, e, quando io volevo allontanarmi, mi pizzicavano alla sfuggita, perché mi voltassi. Esse riuscivano, è vero, a farmi perdere un po' di tempo ... ma già mi parlavano con una voce languente; mentre dal lato, dove volgevo la faccia, e dove trepidavo di lanciarmi, m'appariva la casta maestà della continenza, serena e senza nulla di lascivo, la quale m'invitava con modi pieni di nobiltà ad avvicinarmi senza esitare ..." (Conf. VIII, 11, 26-27). Mosso da una voce interna, Agostino andò un giorno a trovare Simpliciano [44] e da lui apprese la storia della conversione del retore Vittoriano, che gli fece capire ancor meglio quali fossero gli ostacoli che lo trattenevano dall'entrare nella Chiesa di Cristo. E Ponticiano, narrando la storia della "Vita di Sant'Antonio" aveva toccato sul vivo l'anima gemente del giovane Agostino. I due ufficiali di corte, con un ragionamento semplice, ma serrato, smantellavano tutta la falsa costruzione che Agostino aveva eretto sulla parola "felicità"; gli dimostravano che, come avevano fatto essi, così, poteva, così doveva fare lui. Solo così avrebbe risolto il suo grande problema, sarebbe stato veramente felice. Improvvisamente - ci narra - ripieno di santo ardore, e di giusta vergogna, adirato contro se stesso, guardò in viso l'amico dicendogli: "Dimmi un po' tu, con tutti codesti nostri travagli dove abbiamo intenzione di arrivare? che cosa cerchiamo? Qual'è lo scopo del nostro servizio? Vivendo a palazzo, la nostra speranza potrà arrivare oltre il grado di amici dell'Imperatore? E ivi stesso v'è posto che non sia mal sicuro e pieno di pericoli? E quanti non sono i pericoli che bisogna affrontare, per giungere a uno stato che rappresenta un pericolo più grande?

E quando lo si raggiungerà? Invece, ecco, se voglio, io posso diventare, ora, amico di Dio." (Conf. VIII, 7, 15 pag. 252, Tescari). Agostino sente orrore di sé, vede la sua indegnità, vorrebbe fuggire. È meraviglioso il passo nel quale il Santo è trascinato or da una or da un'altra corrente, ora dal bene, ora dal male: "excruciabar accusans memetipsum solito acerbius nimis ac volvens et versans me in vinculo meo, donec abrumperetur totum quo jam exiguo tenebar tamen ..» (Conf. VIII, 11, 26 pag. 263, Tescari). Ma ecco, piange, si fa umile. Sente allora venire dalla casa vicina un canto, come d'un bimbo: «Et ecce audio vocem de vicina domo cum cantu dicentis et crebro repentis, quasi pueri an puellae, Nescio: Tolle, lege; tolle, lege» (Conf. VIII, 12, 29 col. 183).

Racconta allora quel che Ponticiano aveva raccontato di Sant'Antonio: "Va, vendi tutto quello che possiedi e danne il ricavato ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi." (Matt. XIX, 21). Apre il libro dell'Apostolo e legge a caso un versetto. Esso dice: "Non nelle gozzoviglie e nelle ubriachezze, non nelle morbidezze e nelle impudicizie, non nella discordia e nell'invidia; ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non prendetevi cura della carne nelle [45] concupiscenze." (Rom. XIII, 13 segg). Il miracolo è compiuto. Agostino ha superato la crisi morale. E' sereno, per quanto la lotta non sia finita, per quanto egli debba ora dare espressione definitiva - compito non facile, al quale egli però assolverà pienamente - a questa grande conquista spirituale che farà convergere tutti i problemi in uno solo: quello etico - religioso, problema centrale ormai della filosofia agostiniana. Leggendo San Paolo egli fa un'importante scoperta. Vede che quella Verità filosofica che lui cerca, è già stata rivelata da Dio il quale, con le Scritture, ha dispensato la ragione dal trovarla. La filosofia s'identifica ormai con la Sapienza e questa la si ottiene per mezzo della Grazia che Dio concede agli umili. La ragione deve sottomettersi alla fede, perché la volontà si offra alla grazia. Agostino getta ora le basi di una nuova dottrina servendosi dell'emanatismo Plotiniano e della Bibbia, trasferendo molti dei valori e delle conquiste filosofiche greche in campo cristiano. Ma la filosofia non sarà più intesa come sforzo razionale necessario per dare una spiegazione a vari problemi, così come fino allora concepita, bensì come adesione dell'uomo all'ordine soprannaturale, che con l''aiuto della grazia farà libera la sua volontà dalla carne e vincerà lo scetticismo, alla luce delle Sacre Scritture. Ogni scienza, e lo vedremo negli ultimi capitoli di questo lavoro, verrà ordinata verso la Sapienza, ogni amore sarà diretto verso l'Amore Supremo, Dio, che costituirà il centro di ogni conoscenza, d'ogni amore, d'ogni sapere.  

 

 

LA FELICITÀ  

"Nulla est homini causa philosophandi, nisi ut beatus sit." (De Civitate Dei, XIX, I, 2, t. 41, col. 623)   Racconta Sant'Agostino (De Civitate Dei, XIX, I, 2, t. 41, col. 623) che Varrone nel suo De Philosophia oggi perduto, ha fatto una statistica delle scuole che fanno consistere il bene supremo nell'anima sola, nel solo corpo o nell'anima e nel corpo insieme, ed ha ricavato che tutte indistintamente, pur divergendo [46] sui mezzi, concordano nel fine; affermano cioè che l'uomo deve cercare il bene e fuggire il male. L'uomo vuole dunque la felicità. La felicità, problema centrale per la filosofia ellenistica, è tale anche per Sant'Agostino. "Nosce te ipsum" aveva detto Socrate; conosci ciò che in te vi è di universale, ripete Agostino, e avrai coscienza di ciò che devi fare; la tua anima, cioè, occuperà il suo giusto posto: «sub eo scilicet cui subdenda est, supra ea quibus praeponenda est; sub illo a quo regi debet, supra ea quae regere debet." (De Trinitate, X, 5, 7, col. 173). Interroghiamo la ragione per sapere come l'uomo deve vivere, dice Sant'Agostino. Tutti certamente vogliono esser felici, e non c'è un solo al mondo che non lo voglia, prima ancora d'esprimere un tal sentimento (De Moribus Eccl., 3, 4). In questo tutti sono d'accordo. Anche il filosofo, il solo che potrebbe tentare di negare questa verità, parla di buon grado di godimenti intellettuali; gli stessi santi parlano di «dolce soffrire" e di «pena diletto". Ora ci chiediamo: l'uomo, da solo, possiede la felicità?

Sant'Agostino decisamente risponde no! E la stessa risposta ci dà la nostra quotidiana esperienza. L'uomo, nascendo, porta come triste eredità d'Adamo, il peccato originale: «circumferens testimonium peccati sui." (Conf. I, 1, 1 pag. 3, Tescari) e il cuore dell'uomo non sarà felice finché non riposerà in Dio. Le Confessioni testimoniano continuamente l'esistenza del male nell'animo di Agostino e sono una chiara dimostrazione delle sue conseguenze. «Ita imbecillitas membrorum infantilium innocens est, non animus infantium » (Conf. I, 7 ,11): cattivo fin da bambino. Innocente, mai; "ubi oro te, Deus meus. ubi Domine, ego servus tuus, ubi aut quomodo innocens fui?" (Conf. I, 7, 11). Non è forse ragione di dolore per il nostro Santo pensare, così essendo stato, di doversi persino vergognare del suo passato? «Piget me annumerare huic vitae meae quam vivo in hoc speculo" (Conf. I, 7, 12). Quando poi ha cominciato a capire, come gli è apparso presto, nella sua amara realtà, il dolore! «Deus, Deus meus. quas ibi miserias expertus sum et ludificationes »: (Conf. I, 9, 14): la classica "ferula" era sempre lì minacciosa, pronta a colpirlo anche per un nonnulla. Per di più al dolore fisico delle percosse. si doveva aggiungere il dispiacere di sentirsi incompreso e deriso da quelli stessi che [47] avrebbero dovuto amarlo (Conf. I, 9, 14).

L'amicizia dei cattivi è peggiore d'ogni inimicizia (Conf. I, 9, 17: "nimis inimica amicizia"), ma anche se si trova un amico buono, quanta amarezza, quanto dolore, se lo si perde! Egli stesso ne ha fatto esperienza: gli muore l'amico carissimo e non ha più requie: «itaque aestuabam, suspirabam, flebam, turbabar, nec requies erat impatientem portari a me; et ubi eam ponerem non inveniebam ... Horrebant omnia et ipsa lux; et quidquid non erat quod ille erat, improbum et odiosum erat, praeter gemitum et lacrimas. » (Conf., 4, VII, 12). La morte dei genitori è un altro grande dolore per Agostino (Conf., 9, 12, 23) e lo fa soffrire la mancanza della verità, il problema del male, soffre per la sua salute fisica, soffre sempre, insomma; e tutte le sue Opere ripetono lo stesso lamento. La felicità, la pace che non può trovare in sé, l'uomo non la trova neppure nella società. Non la trova nella famiglia, fonte di tante preoccupazioni e di disillusioni, né nella patria, tormentata sempre da guerre e da liti interne spesso risolte senza giustizia; non nell'umanità, dato che le diversità di lingue e di civiltà fanno gli uomini nemici, e, quand'anche si volessero unificare tutte le Nazioni, lo si dovrebbe fare con guerre, quindi con lutti immensi. Abbiamo già notato come neppure l'amicizia ci dia la pace; s'aggiunga, ora, un'altra considerazione; nell'ipotesi che l'amico lo si trovi, che sopravviva, chi ci può togliere la preoccupazione per i mali che possono sempre accadergli?

Tutte queste considerazioni, che Sant'Agostino raccoglie e illustra e dimostra vere nel De Civitate Dei (De Civit. Dei, cap. XIX) lo portano a concludere: «Fax autem nostra propria, et hic est cum Deo per fidem, et in aeternum erit curo illo per speciem." (De Civit. Dei, XIX, 27 col. 1751). Ma vi può essere chi, nonostante la forza persuasiva di queste e di tante altre documentate affermazioni e esaurienti spiegazioni, insista col dire che una felicità senza ricchezze, senza gloria, senza amicizie, senza piaceri, non lo appaga pienamente. Come dimostrargli che erra nella sua valutazione, che i valori ch'egli considera come fine ultimo, non sono che effimeri, passeggeri, destinati pertanto a deludere le sue aspettative? Risponde Sant'Agostino: «Beatus autem, quantum existimo, neque ille dici potest, qui non habet quod amat, qualecumque sit; neque qui habet quod amat, si noxium sit; nequa qui amat quod habet, etiamsi optimum sit." (De Moribus, 1, 3, 4, col. 869). [48]

Infatti, tanto non avendo quello che si desidera amare, quanto avendo quello che porta danno, si è infelici. E lo si è pure se non si ama quello che si ha. In conclusione, si è felici soltanto se si ha un bene ottimo, tale cioè che sfugga alle limitazioni e ai pericoli cui abbiamo ora accennato. L'oggetto che deve costituire la nostra felicità deve essere tale da far ottimo non il corpo soltanto, ma anche l'anima, cioè tutto l'uomo; felice sempre, e cioè tale, questo bene, che non ci possa sfuggire e pertanto non c'incuta quel timore di poterlo perdere, che di per se stesso è già privazione di felicità, in quanto da solo basterebbe a toglierci quella serenità che è presupposto della felicità. Il problema si riduce quindi a sapere ciò che l'uomo deve desiderare per essere felice, e, conseguentemente, come può procacciarsi questo bene ottimo, che eccelle su tutti gli altri e da essi tanto diversifica. Orbene, non c'è che Dio che soddisfi alle esigenze della vera felicità; egli è ottimo, eterno, indipendente perché anteriore a tutte le cose delle quali è il creatore: "Ergo modo dubitamus, si quis beatus esse statuit, id eum sibi comparare debere quod semper manet, nec, ulla saeviente fortuna eripi potest ... Deus, inquam, vobis aeternus et semper manens videtur? .. Deum igitur, inquam, qui habet, beatus est » (De vita beata, II, 11 t. 32, col. 965, Maur. 122)

 

 

L'ORTENSIO

Ecco la soluzione del problema della vita, che egli aveva invano cercato nella scienza umana e in una filosofia fine a se stessa. Nel giovane Agostino, scosso dalla profonda crisi della gioventù, l'Ortensio di Cicerone opera una grande trasformazione, suscita un ardente bisogno di elevazione, ma è insufficiente ad appagare la sete di Verità che arde in quel cuore esuberante di energie spirituali in potenza: "Ille vero liber mutavit affectum meum ..." (Conf. L. III, cap. IV). Ardeva dal desiderio di elevarsi al di sopra delle cose umane, ma non riusciva ancora a comprendere che "presso Dio è la sapienza" (Giob. XII, 13, 16).

Molti errori, e di conseguenza, molte amarezze, lo separeranno dalla felicità del "Tolle, lege", molte lacrime dovrà spargere ancora Monica [49] per questo figlio ... «che non può perire", fino al giorno in cui il suo cuore riposerà nella beatitudine di Dio. Se noi osserviamo attentamente i vari momenti della sua vita, attraverso quella meravigliosa autobiografia che sono le Confessioni, vediamo che esse segnano i diversi gradi attraverso i quali l'uomo, partendo dall'umano, giunge al divino; l'uomo Agostino, che si fa santo, che, quindi, ha trovato, insieme con la soluzione del problema della vita, anche il rimedio più efficace alla sua inquietudine, alla sua infelicità, indica la via giusta da seguire, sulla base della sua personale esperienza. Dall'esperienza dei sensi, alla filosofia dell'Ortensio, alla più alta filosofia che si conquista con lo "studium sapientiae", ecco le tre tappe fondamentali dell'ascesa a Dio.

 

 

LA FELICITA' E' IN DIO

Abbiamo visto che l'uomo vuol essere felice e che la felicità è godimento di ciò che è migliore. Ma, nel creato, l'uomo è superiore a tutte le creature, e nulla v'è di superiore a lui che possa dargli una gioia tale da non poterla più perdere. Se di superiore all'uomo non c'è che l'uomo, osserviamolo nella sua natura: è composto di un corpo e di un'anima: questa è superiore a quello, quindi, se v'è un bene supremo, lo è certamente nell'anima, proprio per questa sua superiorità (De Moribus Eccl. Cath. I, 3, 5-6, 8; t. 32, col. 1312). Ma è la virtù che fa perfetta l'anima, e quindi si sarebbe indotti a credere che l'anima non cerchi nient'altro che se stessa, perseguendo la virtù. Il che è assurdo. Prima d'esser virtuosa, l'anima non ha saggezza: se cerca solo se stessa nella virtù, non può migliorare. E se la virtù è una qualità dell'anima, bisognerà trovare qualcosa da cui la virtù deriva (De Moribus Eccl. Cath., ibidem), cioè dell'uomo saggio per eccellenza, cioè da Dio. Dio è tale da soddisfare appunto in ogni senso tutte le esigenze dell'uomo in ordine alla felicità, perché soprannaturale e sommamente dotato di tutti i pregi e di tutte le virtù elevate al massimo grado. Possedere Dio è dunque possedere la beatitudine (De Moribus Eccl. Cath. I, 6, 10, t. 32, col. 1315). Ed ora vediamo un altro procedimento. Agostino cerca ansiosamente la Verità in vista della felicità. Questa non è possibile senza quella. La beatitudine suppone la Verità assoluta.

Ora c'è chi ritiene [50] che posseder Dio vuol dire fare ciò che Dio vuole; c'è chi dice che vuol dire vivere bene; c'è infine chi ritiene che Dio abiti in chi non è impuro (De vita beata, II, 12, t. 82, col. 965, 966 e III, 17, col. 968). Se ben guardiamo, però, le tre definizioni pare si identifichino, in quanto fare la volontà di Dio è la stessa cosa che vivere bene, e esser puri di cuore vuol dire seguir Dio in tutte le cose e non attaccarsi che a Lui (De vita beata, III, 18, t. 82, col. 968-969). Il problema si riduce quindi a cercare la definizione del «viver bene». Vi sono uomini che cercano Dio, quindi fanno la sua volontà, eppure non possiedono ancora Dio. Anche Sant'Agostino, quando leggeva l'Ortensio, andava in cerca di Dio, Verità, faceva la volontà sua, eppure non lo possedeva. D'altronde chi non ha la felicità vive nella miseria. Si deve allora concludere che colui il quale cerca Dio e non ha la felicità, per questo solo fatto è un disgraziato? (De vita beata, III, 22, t. 82, col. 97).

Inoltre: il sapiente non chiede l'impossibile, perché vuole ottenere tutto ciò che desidera: quindi può difettare di molte cose senza per questo perdere la felicità; e ciò perché la beatitudine, quale bene di natura spirituale, non può portar nocumento dalla perdita di beni temporali. Ma, se ben si ricorda, a proposito della felicità, abbiamo detto che essa è l'ottimo. Ma l'ottimo, la pienezza, non è tale se non è giusto, senza difetti e senza eccessi: "sapientia igitur plenitudo, in plenitudine autem modus." (De vita beata, IV, 82, t. 82, col. 975). Se la beatitudine è pienezza di spirito, occorre stabilire il rapporto fra la sapienza e la sapienza. Essa esige una misura; che si evitino cioè tutti gli eccessi e i difetti, gli uni e gli altri contribuendo all'infelicità umana. Non si conquista infatti la gioia con i vizi, con la lussuria, l'orgoglio, l'ambizione, che oltrepassano i limiti della pienezza intesa come ottimo e quindi anche come giusto; così come li oltrepassa in senso contrario la bassezza dell'animo, la tristezza e simili difetti, tutti contrari alla felicità. Moderazione e saggezza sono così uguali, che il saggio deve sentirsi pienamente appagato di tutti i suoi desideri, non aver nulla da temere, nulla da volere. Ora, osserva Agostino, questa sapienza noi la troviamo nella Sacra Scrittura: è la Sapienza di Dio. E se il Figlio di Dio, secondo quanto scrive San Paolo (Corinth. 1, 24) è la Sapienza di Dio, ne deriva che il Figlio di Dio è Dio, e che chi possiede Dio, possiede la sapienza, possiede cioè la felicità, la beatitudine. [51] Senonché il Cristo ha detto: "Ego sum Veritas" (Joann. XIV, 6); ne deriva che la Sapienza, che è Dio, è anche la Verità. Questa Verità procede alla misura suprema, e quindi questa Verità è misura in sé.

Il Figlio di Dio, che è la Verità, è la via attraverso la quale si giunge alla Misura Suprema, il Padre Celeste. "Io sono la via, la verità, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo mio." (Joann. XIV, 6). Per possedere la sapienza è dunque necessario abbracciare Dio con la mente, insomma gioire di Lui. «Quisquis igitur ad summum modum per veritatem venerit, beatus est. Hoc est animo Deum habere, id est Deo frui. Cetera omnia quamvis a Deo habeantur, non habent Deum» (De vita beata, IV, 34). La Verità ci chiama insistentemente verso di Dio, non potendo vedere nella sua essenza, si offre a noi per darci la felicità; felicità che non possiamo possedere completa nel periodo in cui tendiamo a Lui, senza ancora possederlo; finché lo Spirito Santo, per mezzo della Verità, non ci fa partecipi della Divina Misura, non possiamo dirci felici. È sapiente chi ottiene il Bene Beatifico. E la beatitudine è così legata alla conoscenza, che i due termini si potrebbero identificare. "Haec est autem vita aeterna, ut cognoscant te solum verum Deum, et quem misisti Jesum Christum." (Joann. XVII, 8, 136).

Ma se questa conoscenza dovesse restare sempre tale, non raggiungerebbe mai il suo fine, ed ecco, a completare la precedente affermazione: "Diliges Dominum Deum tuum in toto corde tuo, et in tota anima tua, ed in tota mente tua." (Matt. XXII, 87), la quale sta a dire che il fine ultimo della sapienza è una conoscenza che prepara il godimento di Dio. "Quartum restat, ut video, ubi beata vita inveniri queat; curo id quod est hominis optimum, et amatur, et habetur, quid enim aliud quod dicimus frui, nisi praesto habere quod diligis? Neque quisquam, beatus est, qui non fruitur eo quod est hominis optimum; nec quisquam, qui eo fruitur, non est beatus » (De Moribus Eccl. I, 8, 4, t. 82, col. 1812). L'oggetto della sapienza è posto così al di fuori di quelle che sono le umane possibilità di questa vita, perché se seguir Dio è vivere bene, per vivere felici occorre possederlo. "Deus igitur quem, si sequimur, bene, si assequimur, non tantum bene, sed etiam beate vivimus." (De Moribus Eccl. I, 6, 10, t. 32, col. 1815).

Ne consegue pertanto che la speculazione razionale, cioè la condotta della vita, avrà lo scopo di preparare e guidare [52] l'anima alla contemplazione mistica, che non è altro che un semplice abbozzo della beatitudine eterna, e avrà come centro Dio. Se in Dio - come Sant'Agostino ha potuto dimostrare - e solo l'anima alla contemplazione mistica, che non è altro che un semplice in Lui noi possiamo trovare la felicità, è facile arrivare all'eguaglianza: filosofia, amore della sapienza, amore di Dio. «Dio e l'anima desidero conoscere». Nient'altro? Nient'altro! « Filosofia e religione mirano allo stesso fine: portare l'uomo alla Verità, a Dio: se la sapienza è Dio, il vero filosofo ama Dio». Fuori di Dio non v'è pace: «fecisti nos ad Te; inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te» (Conf. 1,1,1). Oggetto, quindi dell'anelito umano alla felicità, ma anche Verità suprema e criterio del nostro conoscere (De vera religione, 30-31) e creatore che ordina e protegge il mondo (De Civitate Dei, XI, 24). Conoscere la verità è però non semplice cultura. Conoscere per vivere bene, vivere bene per vivere la beatitudine. Lo abbiamo visto poc'anzi: la speculazione razionale è la condotta perfetta della vita; è essa che apre la via alla contemplazione mistica, però la indica soltanto e lascia alla carità di conseguirla. La ragione da sola non basta: occorre la fede, così come questa ha bisogno di quella: «Crede ut intelligas, intellige ut credas». Dai sensi alla ragione, dalla ragione all'anima (in interiore homine veritas!) e dall'anima a Dio.

Ma non si può sapere come si deve vivere, se non se ne apprendono le regole. Alla scienza - che Sant'Agostino fa subordinata alla Sapienza (della quale è strumento, e appunto per questo è buona, legittima, necessaria) - assegna questo compito. «Sine scientia quippe nec virtutes ipsae, quibus rocte vivitur, possunt haberi, per quas vita misera sic gubernetur, ut ad illam quae vere beata est, perveniatur aeternam » (De Trinitate, XII, 14, 21, t. 42, col. 1009). Vivere bene, per «vivere beate». Sant'Agostino ci dà, nel secondo Libro del De Ordine, le norme per una vita orientata verso la beatitudine, per uno studio atto a far scoprire la volontà di Dio.