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Giulio Belotti: L'educazione in sant'Agostino

 Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

 

 

 

Capitolo 10

FUNZIONE STRUMENTALE E FUNZIONE FORMATIVA DELLE ARTI LIBERALI E DELLA FILOSOFIA

di Giulio Belotti

 

 

"Tibi serviat, quidquid utile puer

didici, tibi serviat quod loquor,

et scribo, et lego, et numero ».

(Confessiones, I, 15)  

 

Abbiamo dimostrato, con abbondanza di particolari, nel secondo capitolo del presente lavoro, come l'evoluzione spirituale di Sant'Agostino, lo portasse a un approfondimento interiore del Cristianesimo che, a Ippona, diventa più totale e insieme più rigoroso. Ormai per Agostino non c'è via intellettuale legittima al di fuori di quella che si dedica totalmente ad alimentare in noi l'amore di Dio. Dei due tipi di vita intellettuale fornitigli dalla tradizione classica, del retore e del filosofo, egli scarta il primo e conserva il secondo, riconoscendo però che, accanto allo "studium sapientiae", deve essere posto anche un altro tipo di cultura, la "scientia". Nel "De Doctrina Christiana", un manuale di carattere tecnico che ora prenderemo in esame, Sant'Agostino ci dà le regole necessarie per lo studio della Sacra Scrittura, che sia direttamente utile alla salute dell'anima, in quanto la cultura deve servire al perfezionamento morale, deve essere subordinata alla religione e ai suoi fini.

 

 

LA SANTA SCRITTURA, MAESTRA DI CARITÀ

Ora, nella Sacra Scrittura non v'è "nulla di pernicioso che in essa non sia riprovato, nulla di utile che non sia in essa contenuto. Essa soltanto può apprendere ciò che non ci è dato di rintracciare altrove" (De Doctrina Christiana, III, 63). E, prima di tutto, determina la funzione del lavoro intellettuale, nella vita cristiana. [136] Lo studio comprende la comprensione, l’intelligenza del testo e poi l'esposizione di quello che se ne è dedotto. Bisogna perciò distinguere le cose per se stesse e le loro espressioni (signa). Le cose poi, si possono dividere in due categorie: quelle delle quali bisogna godere (frui) e quelle di cui ci si deve solo servire (uti), mezzo per raggiungere lo scopo sovrano, il Bene supremo, Dio: è di lui solo che bisogna gioire: "Deo solo fruendum !" (De Doctrina Christiana, I, 5, 5). La prima categoria, dunque, è riempita di Dio; unica via intellettuale concessa al cristiano, sarà quella che alimenterà in lui l'amore di Dio. Uomo di scienza, dunque, è il "divinarum Scripturarum solertissimus indagator" (De Doctrina Christiana, II, 8, 12).

La seconda comprende le creature umane. Osserva Agostino che questa costante preoccupazione di tendere a Dio, non deve impedirci di aiutare anche i nostri simili a raggiungere la stessa meta (De Doctrina Christiana, I, 30), ché anzi le Sacre Scritture vogliono proprio questo: che amiamo non solo Dio, ma anche il prossimo, ben inteso, subordinando quest'amore, che deve essere passeggero e non fine a se stesso, a quello supremo, per Dio. Chi non arriva a questo, non può dire d'aver capito la Scrittura, perché non ha tratto da essa quella lezione di carità, che ne è l'essenza prima. Del resto, aiutando il prossimo, l'uomo si assicura - quale ricompensa - un grado superiore di godimento di Dio, e consegue in tal modo la sua massima aspirazione: "Beato colui che ama Te e il proprio amico in Te e il proprio nemico per Te" (Confessiones, IV, 9, 14). Dovesse anche sbagliare nell'interpretazione della Bibbia, quando ha potuto ricavare da essa il precetto dell'amore e farlo suo, non si può dire che il cristiano sbagli, e comunque il suo errare non nuoce. L'uomo, per giungere alla Verità, a Dio, deve compiere come un viaggio: "quam purgationem quasi ambulationem quamdam et quasi navigationem ad patriam esse arbitremur" (De Doctrina Christiana, II, 11). Egli, guidato e sorretto dalla Chiesa, deve purificare l'animo e nel tempo stesso avvicinarsi con amore al suo prossimo, onde attuare in sé quella formazione morale che è presupposto insostituibile alla formazione intellettuale, per mezzo della quale potrà avvicinarsi alla Scrittura, per trarne le linee direttive della sua azione e incamminarsi verso [137] la contemplazione delle verità eterne, cioè verso la felicità. Lo studio non deve esser perseguito per se stesso, ma deve essere subordinato al progresso dell'anima verso la perfezione, perché "scientia inflat, charitas vero aedificat" (Cor. 8, l 4).

Una scienza così intesa e di tal natura che ci induce a renderci conto della nostra estrema lontananza da Dio, come potrebbe esser orgogliosa al pari delle scienze umane? Ecco perché l'investigatore delle divine Scritture deve premunirsi delle virtù del timor di Dio e della pietà: "ante omnia igitur opus est Dei timore converti ... deinde mitescere pietate ..." (De Doctrina Christiana, II, 7, 9). Quando l'anima, attraverso le Scritture, ha scoperto il dovere dell'amore e i legami che la uniscono alle cose terrene, è come sublimata dall'azione della carità che fa umile l'uomo, spegnendo la vanità della scienza, e lo fa capace di comprendere quanto sia grande la Croce di Cristo. "Scientia congruit lugentibus, qui jam cognoverunt in Scripturis quibus malis vincti teneantur, quae tamquam bona et utilia ignorantes appetiverunt: de quibus hic dicitur: Beati qui lugent » (De Sermone in Monte, I, 4, 11). Così preparato, lo spirito deve esercitarsi a scoprire nella Scrittura l'intenzione divina, perché questa dev'essere l'opera della scienza. Quello che Omero e Virgilio erano per i letterati tradizionali, dev'essere la Bibbia per il Cristianesimo. Ma essa, scritta in origine in una sola lingua, fu poi tradotta.

Può quindi presentare delle oscurità, per risolvere le quali si richiede al cristiano la conoscenza delle lingue (latina, greca ed ebraica), conoscenza indispensabile per il confronto delle versioni. Come le lingue, così le altre scienze che riproducono la realtà - fatta eccezione dell'astrologia con le sue superstizioni - possono tutte esser poste utilmente al servizio della vera scienza, quella sacra, che ha bisogno anche di conoscenze varie, geografiche, storiche, ecc. per la spiegazione del contenuto delle Scritture. Naturalmente, ci vuole discernimento, dato che alcune o sono futili o sono addirittura cattive. Si tratta comunque di discipline elementari, che devono aiutare a scoprire parcelle di verità a profitto della più grande comprensione della Verità totale. Occuparsi dell'essenziale, cioè del bene e della verità suprema che si trova in Dio (Lettere, CXVIII, 11-13), dev'essere la costante preoccupazione del cristiano (Lettere, XXVI, 4-54), il quale pertanto dovrà evitare e [138] bandire conoscenze letterarie e filosofiche non necessarie (De Trinitate, XIII e XIV), e proporsi invece «come solo oggetto di far nascere, di alimentare, di difendere e di fortificare la fede salutare che conduce alla vera felicità" (De Trinitate, XIV, 3). L'abito intellettuale, sopraelevato dalla fede e dalla carità, sarà così in grado di "cercare la volontà divina". Nella scienza così intesa entrano conoscenze umane e di fede, attività intellettuali naturali e soprannaturali; una siffatta nozione completa quella di "uti" del primo Libro e fa intravedere le nozioni complementari di "frui" e di sapienza.

"De Doctrina Christiana" mira a uno scopo pratico: dettare un programma di studi utile alla fede che, atteso questo scopo, è alquanto ristretto. Per la storia, basterà ricorrere alla cronologia di Eusebio; per le lingue, chi non vorrà imparar l'ebraico, potrà consultare un manuale d'onomastica sacra. Intanto si vedrà di preparare un dizionario di geografia biblica, un trattatello d'aritmologia, che spieghi le proprietà dei numeri della Scrittura, e un repertorio di storia naturale. Come si vede, viene sempre più scomparendo l'ambizione scientifica. Sant'Agostino raccomanda invece lo studio della dialettica, soprattutto dal punto di vista teorico, come scienza delle leggi formali del ragionamento, la quale permetterà all'esegeta di evitare errori grossolani e al tempo stesso di trattare con rigore le questioni che affioreranno dalle affermazioni della Scrittura (De Doctrina Christiana, II, 48 PL tom 34, col. 58). Abbiamo già detto com'egli raccomandasse anche lo studio dell'aritmetica (De Doctrina Christiana, Il, 26 PL tom 34, col. 48), utile per l'interpretazione allegorica dei numeri, come pure della possibilità ch'egli offre al cristiano d'alimentare la sua cultura anche alla fonte dei classici, purché nei limiti già posti e soprattutto alla condizione che non vi sia disaccordo con i principi della fede. Né si deve escludere lo studio della musica (De Doctrina Christiana, II, 54-57 PL tom 34, col. 60-62). Da questo rapido accenno ai materiali che Sant'Agostino vuole usare per lo studio della Bibbia, non si deve dedurre un immediato cambiamento d'abitudini nei letterati del tempo; egli stesso non può spogliarsi completamente dei suoi gusti e continuamente affiorano elementi che nella pratica contraddicono alla teoria. E’ un po' difficile [139] soffocare questa «curiositas» che il nostro Dottore condanna, per farla rimpiazzare dallo studio dei testi sacri, il solo che sia legittimo, e nessuno può dire che egli stesso non abbia mai passato il confine che separa l'esegesi dalla scienza mondana. Specialmente nel De Civitate Dei, v'é come un'eco di questa deprecata, ma non vinta curiosità. Il Santo si chiede, ad esempio, spiegazioni sulla pubertà tardiva dei patriarchi (De Civitate Dei, 15, 15, 1-2 PL tom XLI, c. 456-457), sulla fauna insulare (De Civitate Dei, 16, 7, c. 485), si chiede ancora se alla fine del mondo i fanciulli risusciteranno in forma d'adulti, a chi apparterrà la carne d'un uomo divorato da un antropofago (De Civitate Dei, 22, 12, 1-2, c. 775-776), e via dicendo.

Eppure egli depreca coloro che s'occupano di difficili problemi e riafferma la necessità di studiare solo ciò che necessita, sovvenendo per il resto l'autorità della Scrittura: altiora ne quaesieris (De cura pro mortuis gerenda, 17, 21, PL t. XL c. 608). Scrive il Marrou che «beaucoup d'entre nous, pour qui la Bible n'est plus un livre saint, la relisent encore pour sa seule valeur artistique. C'est que, libérés par la révolution romantique, nous ne savons plus ce qu'était le classicisme, la valeur absolue de certaines normes, de certains cadres définis: l'exotisme de la Bible, sa couleur orientale, nous charment et nous émeuvent » (MARROU, op. cit., pag. 474). Ritorniamo per un momento all'anno 373. Agostino, letto l'Ortensio, si commuove, ma non trova in esso il nome di Cristo, e allora «egli - dice il Pincherle - con lo stesso animo con cui aveva letto Sallustio e Cicerone, si accinse alla lettura della Bibbia. Fu una delusione completa. Ma non era soltanto questione di forma e di stile; i costrutti non classici, la fraseologia rozza, i barbarismi e i solecismi, il periodare dimesso, devono aver scandalizzato il giovane retore. Inoltre v'era una estrema semplicità di concetto e dall'insieme del libro non si riusciva a ricavare un'idea chiara. Per lui, palato avvezzo a ben altri sapori, stomaco desideroso di cibo che nutre senza ingombrare, simili minestre rusticane non erano fatte davvero" (PINCHERLE, Sant'Agostino d'lppona, vescovo e teologo, pag. 49). Più ancora della curiosità, Agostino doveva combattere col suo piano di studi orientato verso la Bibbia, il grande ostacolo costituito dalla ripugnanza dei letterati per la povertà dello stile delle Scritture. Agostino stesso ventenne «torceva il viso a quell'asciutta sublimità che gli pareva indigenza puerile» (S. GEROLAMO, Lettere, 22, 80, 2 e 58, 10, 1) e come lui San Gerolamo (GIOVANNI PAPINI, op. cit., pag. 58), [140] e, prima di lui, Amobio (Adversus nationes, I, 45; I, 58-59), e Lattanzio (Institutionis divine, 3, l, 11; 5, l, 15-18; 6, 21, 4-5).

Il santo dottore sarà esplicito nel dettare la soluzione della difficoltà: «maxime autem ist docendi sunt Scripturas audire divinas ne sordeat eis solidum eloquium quia non est inflatum» (De Cathechizandis rudibus, 9, 13 PL XL, C. 320): bisogna vincere la vanità e l'orgoglio, perché è la sostanza e non la forma che conta, per quanto - precisa nel quarto Libro del De Doctrina Christiana - anche la forma, indubbiamente diversa, non è per questo meno bella di quella dell'eloquenza classica. Si trovano nella Bibbia, spiega Sant'Agostino, spontaneamente messe in opera tutte le bellezze della retorica classica. Vi troviamo infatti passaggi d'un'eloquenza ammirevole, diversa ma non meno efficace dell'eloquenza profana, e, quel che più conta, perfettamente adatta allo scopo che persegue lo scrittore ispirato. E l'eloquenza posta al servizio della Verità è tanto apprezzabile, quanto è detestabile quella messa al servizio dell'errore.  

 

 

L'INSEGNAMENTO COME RAPPORTO D'AMORE

Dopo aver precisato il valore pedagogico delle oscurità bibliche, del quale noi abbiamo già parlato, Sant'Agostino afferma che, attinta la Verità alle Sacre Scritture, è dovere del cristiano coltivare la facoltà oratoria onde essere in grado di comunicare facilmente ed efficacemente la Verità stessa agli altri. «Nell'insegnare alle diverse classi di persone - osserva il Boyer - il santo manifesta il dono più fondamentale e più irresistibile del pedagogo; la carità sincera, semplice, paziente, pronta a tutte le dedizioni. Si mette al livello delle loro facoltà, si rallegra dei loro progressi, si addolora delle loro mancanze, anche leggere; si sforza di portarli ai più alti ideali. Anche mentre confuta con la più veemente eloquenza manichei, donatisti, pelagiani, egli fa sentire il suo reale affetto per l'avversario ed il suo desiderio per il bene di lui » (C. BOYER, Sant'Agostino, Cap. «La pedagogia»). « Cum ergo sit in medio posita facultas eloquii, quae ad persuadenda seu prava seu recta valet plurimum; cur non bonorum studio comparatur, ut militet veritati, si eam mali ad obtinendas perversas vanasque causas in usus iniquitatis et erroris usurpant? » (De doctrina Christiana, IV, 3, 4 tom 34, col. 89). [141] Certo non tutti possono insegnare le verità apprese e un dovere in tal senso sussiste solo per il clero (De doctrina Christiana, IV 13, 29: ... eloquentem ecclesiasticum ...). Anzitutto l'eloquenza non è né un bene né un male, tutto dipende dall'uso che se ne fa. Dal momento che tanto grande è la sua efficacia sui sentimenti umani, non v'è motivo perché anche i buoni non se ne servano, e scrive: "Quis audeat dicere adversus mendacium in defensoribus suis inermem debere consistere veritatem?" (De doctrina Christiana, 4, 2, 3 PL t. XXXIV, col. 89).

Bisogna dunque servirsene. Come? Non bisogna mai dimenticare ch'essa non è che un puro strumento quindi che non va cercata per se stessa, ché errore sarebbe gioirne, in quanto "Deo solo fruendum"; del resto l'eloquenza vuota anche Cicerone l'ha condannata! (CICERONE, De Inventione, I, l ). Di ciò convinto, l'oratore cristiano farà si che il suo dire istruisca, piaccia e commuova: "docere" l'intelligenza, "delectare" la immaginazione, "flectere" la volontà (De Doctrina Christiana, IV, 27 PL tom 34 col. 101), affinché "intelligenter, libenter, obedienterque audiatur" (De Doctrina Christiana 32, tom 34 col. 103). Dovendo commuovere, lo stile sarà solenne; se si tratterà di lodare o di rimproverare, sarà temperato; se ci si dovrà limitare a istruire, sarà piano (De Doctrina Christiana, 4, 38, PL 34 col. 106). Ciò che conta è amare la Verità nella parola e non la parola in se stessa (De Doctrina Christiana, 4, 26, PL 34 col. 100) perché ci giovi non a piacere a quelli che ci ascoltano, ma a spingerli al bene (De Doctrina Christiana, 4, 55, PL 34 col. 103). Giova ricordare però che il santo dottore ritiene che gli esempi siano più necessari delle regole e perciò esorta a sentire, a leggere e ad imitare gli oratori, anziché dedicarsi a uno studio vero e proprio della retorica (De Doctrina Christiana, 4, 8, PL 34 col. 92), e San Paolo, nella stessa Scrittura, ne è esempio notevole (De Doctrina Christiana, IV, 6, 9 e IV, 7, 21). Per inciso faremo notare come questa sia una affermazione ardita in un tempo in cui la formazione dell'oratore era fondata sullo studio delle regole. E’ vero che Cicerone aveva già detto che l'eloquenza suppone un dono al quale non saprebbero supplire i precetti teorici e che lo studio dei modelli vale più di quello delle regole, ma non era andato più in là. Per Sant'Agostino, invece, le regole non sono più necessarie. Imitare i grandi maestri della eloquenza, dopo averne ascoltato la parola e penetrato lo spirito, ecco tutto. [142]

Spirito d'innovazione, ci chiediamo noi? No. Certamente Santo Agostino ha proposto questo metodo perché più rapido, più comodo e più adatto allo scopo che per lui deve avere l'eloquenza: annunciare la Verità di Cristo e far vivere di essa le anime (Sermoni, 23, 1; 179, 7, 7). Non perda tempo, l'oratore cristiano, in lunghi studi - dice Sant'Agostino - ma appena si sente in grado di farlo, diffonda la voce della Verità. Ciò che conta è la convinzione sua nelle Verità stesse che insegna. Gli uditori lo seguiranno in proporzione di questa sua convinzione, che vorranno vedere negli atti della sua vita. "Sit quasi copia dicendi, forma vivendi." (De Doctrina Christiana, 61, PL 34 col. 119). Parlando, miri sempre alla chiarezza. Essa è importante tanto se si parla ai dotti che agli ignoranti, e perciò bisogna evitare parole oscure o difficili, che si prestino ad ambigue o false interpretazioni. Non trascuri la semplicità e la gravità. E, soprattutto, preghi. "Prima d'agitar la lingua si sollevi a Dio l'anima sitibonda, affinché poi ne trabocchi il liquore onde viene ricolma ... Si studi pure e ciò che dovrà dirsi e l'arte stessa del dire come al sacerdote si addice; ma venuto il momento di parlare, ciò che allora più conviene si è ricordarsi le parole del Divino Maestro: "Non vi date pensiero di ciò che dovete dire, né del modo di dirlo; vi sarà in quell'ora concesso di parlare, giacché non sarete voi che parlerete, ma lo Spirito del Padre vostro parlerà in voi". E tenga sempre presente che "siamo noi che parliamo, ma è Dio che vi istruisce" e che "voi tutti avete un solo maestro, il Cristo".

Sant'Agostino per primo ha personificato l'oratore cristiano ideale, secondo il modello da lui tracciato.