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Giulio Belotti: L'educazione in sant'Agostino

 Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

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Capitolo 7

FUNZIONE DELLE ARTI LIBERALI L'IDEALE CULTURALE CLASSICO: "VIR BONUS, DICENDI PERlTUS"

di Giulio Belotti

 

 

Per poter giustamente comprendere e valutare in tutta la sua importanza la figura del Vescovo d'Ippona quale filosofo e dottore cristiano, è necessario prima chiedere a lui una testimonianza sul suo tempo, sulla cultura intellettuale latina alla fine del secolo IV dopo Cristo, cultura ch'egli ha ereditato e della quale si è nutrita, quindi, la sua stessa mente.

"Era una cultura - scrive il Marrou - essenzialmente letteraria, fondata sulla grammatica e la retorica e tendente a realizzare il tipo ideale dell'oratore" (H. J. MARROU, S. Augustin et la fin de la culture antique, cap. I, pag. 4). L'uomo colto, per i contemporanei di Sant'Agostino, è colui che ha ricevuto l'educazione liberale, la stessa, press'a poco, che si riceveva ai tempi di Quintiliano e di Cicerone. Nel De Ordine è detto che esisteva un insegnamento elementare o primario quale corso preparatorio alla "grammatica, velut quaedam grammaticae infantia" (De Ordine, II, 12, 35), attraverso il quale il fanciullo imparava a leggere, a scrivere, a far di conto; dopo di esso, cominciavano gli studi liberali, divisi in due cicli successivi; le lezioni relative a tali corsi venivano impartite da professori specializzati che si dividevano la materia, il grammaticus e il rhetor. Il grammatico aveva un po' le funzioni del nostro filologo, s'occupava dello studio teorico della lingua e delle sue leggi (De Ordine, II, 12, 36-37 e Soliloqui, 2, II, 19) e anche della metrica (De Ordine, II, 14, 40); s'occupava, inoltre, della spiegazione, del commento e della critica dei grandi scrittori greci e romani. Come abbia imparato la grammatica, nel significato che oggi questa parola assume, Sant'Agostino non ci dice [92] nelle sue opere; quel poco che sappiamo lo deduciamo dai testi scolastici redatti in quel tempo e per fortuna tramandatici (LAMBERT, Grammatica latina). Dal De Ordine apprendiamo che la parte essenziale del maggior numero dei testi riguardava lo studio delle otto parti del discorso; alcuni di essi fornivano definizioni e regole, altri s'occupavano degli errori di grammatica allo scopo di purificare la lingua da presunti barbarismi che, come ci risulta (DONATO, Keil, 4) non dovevano invece esser altro che "licenze poetiche" delle quali gli scrittori si servivano per ragioni di metrica o di estetica.

Anche Sant'Agostino ce ne parla là, nel De Ordine (De Ordine, II, 4, 13, trad. Moschetti, pag. 148) dove scrive che "i poeti hanno molto amato quelli che si chiamano solecismi e barbarismi; mutandone i nomi ora preferiscono chiamarli figure e metaplasmi, piuttosto che sfuggire a questi vizi manifesti." Sempre il grammatico, poi, insegnava la metrica, preparava, insomma, il materiale per lo studio della retorica (De Ordine, II, 14, 40). Il secondo aspetto dell'insegnamento della grammatica era - come s'è detto - lo studio della letteratura. Leggiamo nelle Confessioni: "Mi ero affezionato alle lettere latine, non quelle insegnate dai maestri elementari, ma quelle che si studiano alle scuole dei cosiddetti grammatici" (Confessiones, I, 13, 20-22, Tescari, pag. 23); e, più avanti, "ero costretto a ricordare gli errori di non so quale Enea, dimentico degli errori miei, e piangere Didone morta, perché s'era uccisa per amore ..." (Confessiones, I, 13, 20, Tescari, pag. 23). E dopo aver deplorato la vanità di tale insegnamento, prosegue: "Tale istruzione letteraria (o demenza!) era ritenuta più onorevole e promettente di quell'altra, per cui mezzo imparai a leggere e a scrivere."

Altri particolari sulla natura di questo insegnamento, che sarà oggetto di critica in altra parte del nostro studio, ci dà Sant'Agostino nel Capitolo XVI del primo Libro delle Confessioni dove, dopo aver dichiarato "qui s'impara la lingua, qui si acquista l'eloquenza quanto mai necessaria a persuadere altrui a spiegare il proprio pensiero" (Confessiones, I, XVI, 26, Tesc., pag. 29), precisa che l'autore da lui studiato è Terenzio e riporta un passo dell'Eunucus (TERENZIO, Eunucus, vv. 585-589) per concludere: "Non è vero, non è vero affatto che per mezzo di queste turpitudini codeste parole s'imparino meglio ...; non me la prendo con le parole, che sono, per così dire, vasi eletti e preziosi, ma col vino dell'errore [93] che in essi ci veniva propinato da insegnanti ubriachi." (Confess., I, 16, 26) Sul metodo d'insegnamento ci parla il Capitolo XVII del primo Libro delle Confessioni: "Si proponeva, infatti, all'anima mia, un compito abbastanza inquietante, promettendomi una ricompensa di lode e onore o minacciandomi le busse: quello, cioè, di proferire le parole di Giunone adirata o dolente ... Senonché eravamo costretti a seguire errabondi le orme delle finzioni poetiche e ripetere in prosa, press'a poco, quello che il poeta aveva detto in versi .." (Confess., I, XVII, 27). Per il nostro autore, poeta sommo è Virgilio, seguito da Terenzio e da altri numerosi, di minore importanza. Fra i prosatori, Cicerone è il maestro dell'eloquenza "di cui quasi tutti ammirano la parola" (Confess., III, 4, 7): nello studio delle sue opere si cominciava da quelle retoriche per arrivare a quelle filosofiche, con un lavoro diviso in quattro fasi: una lettura espressiva (lectio), importantissima per il futuro oratore; lo studio mnemonico (recitatio) di passi scelti (Confess., I, 13, 20) dei migliori autori; poi il commento letterale e letterario del testo (enarratio) e, infine, lo judicium, specie di giudizio complessivo, d'ordine estetico soprattutto, sull'insieme dell'opera studiata.

Naturalmente, se Cicerone era il modello esemplare, non era però il solo a esser studiato. Da Sant'Agostino stesso (De vita beata, IV, 31 e De Civitate Dei, III, 17) apprendiamo che molto conosciuti erano Sallustio, Seneca, Apuleio e altri. Di questa educazione liberale egli risentirà l'influenza, anche quando sarà Vescovo, e invano tenterà di cancellare dal suo vocabolario quelle frasi di Cicerone o quei versi di Virgilio che aveva imparato sui banchi della scuola; potrà disprezzare la vanità di quello studio e definire inutile e vacua la cultura pagana del suo secolo (Confess. 1, 13, 22) ma non potrà impedire che di essa risentano e le sue orazioni e un po' tutti i suoi scritti. Agli autori latini vanno aggiunti quelli greci, fra i quali spicca la figura d'Omero. "O perché dunque - scrive Sant'Agostino - avevo io in uggia la letteratura greca, che anche mi ricantava tali cose? E invero anche Omero intese abilmente di tali leggende e narra delle cose non vere con straordinaria dolcezza; tuttavia da fanciullo lo trovavo ostico." (Confess., I, 14, 23). Dunque, al tempo di Sant'Agostino, oltre al latino, veniva insegnato anche il greco. Abbiamo, come documento probatorio, una [94] iscrizione romana del Cristianesimo al Museo delle Terme (CIL 6, 33929); si tratta d'una lapide mortuaria sulla quale è scritto l'epitaffio: "Dalmatio filio dolcissimo ... qui, studens litteras graecas ..." ecc.

È certo, anzi, che lo studio di quest'ultimo precedeva l'apprendimento della lingua materna. Come mai? ci chiediamo noi. Forse perché - avendo i Latini imitato i Greci - si preferiva studiare il modello, invece della copia, rappresentata dalla lingua latina. Nel secolo III a. C. esser uomo colto voleva dire sapere necessariamente il greco, non esistendo del resto una cultura nazionale; mancavano i classici e la letteratura era nei suoi primordi. Alla fine del secolo IV d. C. Roma ha invece la sua letteratura, che assume via via un carattere particolare, ben distinto, e tende perciò all'autonomia; la conoscenza del greco va allora scomparendo in Occidente, dove i testi greci vengono tradotti (De Trinitate, vari passi), tanto che è ormai assodato l'aver studiato anche Sant'Agostino solo i Padri greci tradotti in latino (Lettere, 40, 6, 9). Comunque egli doveva avere una conoscenza soltanto superficiale dei classici greci, come si può ricavare dai suoi scritti (De Musica, I, 4, 8, pag. 33, Marrou) e questa è una buona ragione per pensare che avesse assimilato poco anche la lingua greca (COMBÈS, Saint Augustin et la culture classique, pag. 12); tanto più che, anche quando è costretto a fare citazioni di opere scritte in greco, ricorre quasi sempre al latino. Conosceva però, ripetiamo, questa lingua; e se ne valse per lo più per verificare i testi. Ma di ciò basta: queste poche note sono sufficienti per completare il quadro della prima fase dell'opera educativa che, come s'è detto, era svolta dal grammatico che preparava il terreno favorevole nel quale il "rhetor" doveva formare il "bonus vir, dicendi peritus."

 

 

LA RETORICA

Sant' Agostino - scrive Giovanni Papini - "riconosceva d'aver le qualità che si richiedevano per far figura nel mondo delle parole: buona memoria e facilità d'eloquio"; d'altro canto "prometteva, nella vanitosa fantasia del padre, di poter diventare ... un professore famoso" e perciò "lasciata la scoletta di grammatica" (G. PAPINI, op. cit., pagg. 39-40) di Tagaste, dove aveva appreso a pigliar tanto gusto alla letteratura specie del [95] suo caro Virgilio (che avrebbe pianto, se gli avessero tolto quei libri) va a Madaura a imparare eloquenza e bella letteratura (Confess., III, 3, 6 e IV, 7, 12). E il tredicenne Agostino si prepara con quegli studi a diventare oratore «per un fine condannevole e orgoglioso, per una passeggera soddisfazione di umana vanità» (Confess., IV, 4, 7 e De Utilitate credendi, VII, 16).

La stessa osservazione che abbiamo fatto per la grammatica, vale anche per la retorica: e cioè da parte dei Romani vi fu, dal secolo II a. C. in poi, un lento processo di assimilazione della tecnica dell'eloquenza greca, fino all'istituzione della prima scuola latina di retorica ad opera di L. P. Gallo (GUJNN, Roman education, pagg. 60-66 e CARCOPINO, Histoire romaine, t. II, I, pag. 347) e ripresa poi da Cicerone, che Sant'Agostino ebbe come modello e studiò perfettamente. Scriverà infatti nel De cura pro mortuis gerenda: «Eulogio retore in Cartagine, già mio discepolo nella medesima arte, stava spiegando ai suoi scolari i libri retorici di Cicerone e mentre si preparava alla lezione che il giorno dopo avrebbe dovuto tenere, s'imbatté in un passo oscuro. Non intendendolo, ne rimase angustiato e appena poté dormire. Sognando, in quella notte, io gli esposi quello che non intendeva ...» (SANT'AGOSTINO, La cura dei morti, trad. Giorgi, Libr. Ed. Fior., Firenze, pag. 46). Ma il retore di Madaura era ben lontano dal comunicare ai suoi scolari lo spirito di Cicerone; l'insegnamento aveva un carattere dogmatico, statico, e si badava molto alla forma e pochissimo al contenuto. «Dunque, io fanciullo, mi giaceva, misero, sulla soglia di tali costumi, addestrandomi in sì fatta palestra, dove mi guardavo maggiormente dal commettere un barbarismo ...» (Confessiones, I, 19, 30). L'insegnamento era teorico, ma anche pratico. Il maestro assegnava all'alunno un discorso da preparare, che questi doveva poi recitare in forma solenne alla presenza non solo del maestro stesso e degli scolari, ma anche della gente. Metodo, questo, che non poteva non stimolare, in senso negativo dal punto di vista educativo, l'orgoglio degli alunni i quali, alla giusta ambizione di far bella figura per amore del sapere, finivano col sostituire una vana quanto inutile bramosìa di parere quel che non erano. Quando non si arrivava al peggio: declamare discorsi preparati da altri! Leggiamo infatti nel De Ordine: "Tu non sai che in quella mia scuola io ero solito adirarmi aspramente, perché i giovani vi erano condotti non dall'utilità e dal decoro della disciplina, ma da un desiderio di lode oltremodo vano; e certuni non [96] si vergognavano di recitare perfino le composizioni degli altri e ricevevano - o male deplorevole! - gli applausi dagli stessi autori delle cose che recitavano" (De Ordine, I, X, 30, pag. 121 dell'ediz. fiorentina a cura di A. M. Moschetti). Dai primi rudimenti delle lettere ricevuti a Tagaste, alla scuola di grammatica a Madaura, allo studio dell'eloquenza in Cartagine, Sant'Agostino ha compiuto gli studi necessari per poter insegnare. Avrebbe potuto fare l'avvocato, com'era desiderio dei suoi genitori e dei suoi maestri, ma preferì "aprir bottega" nel piccolo centro di Tagaste, per insegnarvi grammatica. Andrà poi, quale professore di retorica, da Tagaste (Confessiones, IV, 4, 6 e IV, 7, 12) a Cartagine, a Roma (Confessiones, V, 8, 14 e V, 12, 22), a Milano (Confessiones, V, 13, 23): "Durante questi nove anni, dal 19° al 28° anno di età, altro non feci che sedurre e lasciarmi sedurre, ingannando e ingannato in balìa di passioni varie, pubblicamente insegnando le arti cosi dette liberali .." (Confessiones, IV, 1, 1). E ancora: "Insegnavo in quegli anni retorica e, vinto dalla cupidigia, vendevo l'arte di vincere con la verbosità." (Confessiones, IV, 2, 2).

Questo rapido sguardo all'ordine degli studi e alla natura delle discipline insegnate al tempo di Sant'Agostino, così come l'analisi dei molti difetti dell'educazione fatta nei precedenti capitoli, ci fa comprendere in tutto il suo valore e giustificare pienamente le continue insistenti esclamazioni con le quali il santo Vescovo d'Ippona deplora e detesta in blocco tutto quanto ha ascoltato e letto nella prima parte della sua vita, sia come alunno e sia come professore. Questo, per quanto riguarda l'istruzione. E diciamo di proposito istruzione, e non educazione, per quanto oggi i due termini si identifichino, perché, a ben vedere, nella formazione del "vir eloquentissimus" del secolo IV, v'era un vizio fondamentale: mancava un fine etico-religioso. "Per noi oggi - scrive Hans von Schubert - è concezione affatto comune che l'insegnamento debba avere anche un lato morale, educativo, che la scuola debba essere anche un luogo di educazione, e non solamente un istituto destinato a tramandare certe conoscenze alle generazioni future; e questo non solo nel senso d'un istituto d'educazione, nel senso che sia assolutamente necessaria la regola e la disciplina per poter impartire ai fanciulli conoscenze ordinate ed efficaci, ma anche nel senso che l'insegnamento deve avere per se stesso efficacia educativa, sia formalmente col disciplinare il [97] pensiero e ordinare il mondo delle rappresentazioni, sia soprattutto materialmente col formare il sentimento in collegamento con la materia. Si dovrà concedere che concezioni come queste erano affatto assenti dall'antica scuola, quale la trovò il Cristianesimo" (HANS VON SCHUBERT, op. cit., pag. 15). Lo abbiamo visto; tutta la storia della cultura d'allora era fondata sui classici, leggendo i quali, quando se ne presentava l'occasione, venivano date agli scolari nozioni di astronomia e mitologia, di storia, di geografia, di fisica, ecc., ma senza legame alcuno, senza un qualunque ordine, preoccupati unicamente della forma, a scapito della sostanza. «Tra costoro, in quell'età malferma, io studiavo sui libri di eloquenza, in cui desideravo di segnalarmi - ce lo dichiara ancora Sant'Agostino - per un fine condannevole e orgoglioso, voglio dire per una passeggera soddisfazione di umana vanità." (Confess., III, 4, 7, pag. 65, Tescari). Mancava un fine superiore al quale indirizzare ogni ricerca, ogni studio.

Non ci si preoccupava della formazione di uomini dagli "alti e forti caratteri", come li definisce Massimo d'Azeglio ne I miei ricordi, ma di "spacciatori di parole" (Vedasi cap. 1-2 di questo studio); e dall'affrettata, superficiale e formale, unilaterale e disordinata, parzialissima cultura, preoccupata unicamente della bella frase ricevuta dal "grammaticus"l e dal "rhetor" usciva fuori il "bonus vir dicendi peritus!." Ma vediamo da vicino in che cosa consisteva la scienza che faceva l'uomo "colto", questa tecnica tanto utile per esercitare la professione di retore nelle «botteghe di parole »! Conviene prima osservare che l'ideale dell'uomo come oratore affonda le sue origini nel secolo V a. C. ed è legato alle condizioni politiche della democrazia greca, che riconosceva grande importanza alle suggestioni della parola nelle assemblee popolari (ROBIN, Pensée grecque, pagg. 158-159). L'uomo valeva in quanto poteva emergere; e tanto più si faceva strada, quanto meglio sapeva, con i suoi discorsi nei tribunali e sulle piazze, presentarsi come difensore della giustizia o come patrocinatore dei diritti dei cittadini. Da qui il gran conto in cui era tenuta l'eloquenza, da qui il fine pratico dell'educazione, nella quale confluivano tutti e solo quegli elementi che dovevano poter concorrere all'unico intento di formare il "vir eloquentissimus."

Ma, quando in Grecia alla libertà democratica succedette l'assolutismo monarchico, l'importanza e la efficacia sociale dell'eloquenza era destinata inevitabilmente a scemare; e, mancando [98] lo stimolo dell'utile pratico e dell'interesse, essa finì col diventare artificiale. Lo stesso avvenne in Roma. Dal periodo aureo, per l'eloquenza della Repubblica, con Cicerone, all'Impero che la scaccia dalla vita pubblica per confinarla nella scuola e ridurla a forma d'arte per un circolo ristretto di letterati e poeti (Cfr. BAJET, Littérature latine, pag. 290). Sant'Agostino ci dice d'aver voluto egli pure "partecipare in teatro a una gara poetica" e che "un uomo accorto ... aveva di sua mano posta sul (suo) capo malato quella corona guadagnata nella gara" (Confess., IV, 3, 5 e IV, 2, 3). Come pure d'aver recitato, quando nel 385 era retore a Milano, "le lodi dell'imperatore" (Confess. VI, 6, 9) Valentiniano II. Interessa ora ciò che resterà stampato dell'oratore. L'eloquenza attiva si era trasformata in letteratura; l'oratore, l'uomo colto, non era ormai che un letterato. Essa diventa scolastica e fa dire a Seneca: «Non vitae, sed scholae discimus» (Lettera 106 a Lucilio 12); e i letterati passano il loro tempo a discuterne la tecnica. Nella letteratura subentra l'elemento mondano, si scrive per scrivere e soprattutto la corrispondenza epistolare (Lettera 109) risente di questa tendenza; e ci si scusa se si scrive "imperite et rustice" (EVODIUS, Lettera 58, 12). Sant'Agostino riesce a malapena a sfuggire a questa tendenza mondana e ce lo dimostra con varie lettere (Lettere 16 e 234 nelle quali risponde a Massimo di Madaura e Longiniano che avevano scritto a Sant'Agostino con elogi eccessivi, con stile ampolloso e vedendo in lui più che il Vescovo, il letterato. Egli risponde con stile severo e semplice; ma nelle lettere 153, 155, 231, indirizzate a dei dignitari, non esita egli pure a fare elogi) soprattutto con la lettera 173 indirizzata a San Gerolamo, piena di ornamenti retorici e di espressioni ricercate e stucchevoli che denotano uno sforzo artistico e indubbi accorgimenti letterari. E si potrebbe continuare nell'elenco, ma noi non vogliamo addentrarci nei particolari della questione: ci basta, ai fini della conclusione che ne trarremo, non trascurare anche questo aspetto della cultura di Sant'Agostino che sta a dimostrare una lenta ma decisa trasformazione in atto in questo periodo che rappresenta la fine della cultura antica.

 

 

L'ERUDIZIONE

Ma se l'elemento letterario aveva molta importanza per Sant'Agostino, egli non ne attribuiva meno a quello scientifico. Nel De [99] Civitate Dei (De Civitate Dei, 22, 6, 1) parlando di Cicerone, modello dell'uomo colto, non dice soltanto che egli è uomo eloquentissimo, ma anche molto sapiente: "Unus e numero doctissimorum hominum idemque eloquentissimus omnium" e, a proposito di Aulo Gellio: "Vir elegantissimi eloquii et multae ac facundae scientiae" (De Civitate Dei, 9, 4, 2). Eloquenza e scienza o, meglio, eloquenza e erudizione non possono andar disgiunti e l'uomo colto del secolo dovrà tener sempre davanti come modelli "l'eloquentissimus", il «facundissimus» Cicerone e il «doctissimus» Varrone. Ma dobbiamo subito fare una precisazione. L'erudizione, la scienza, non va qui intesa come attività scientifica, ma semplicemente come cultura generale, come base della formazione dell'oratore, che è ancora e sempre lo scopo della educazione. Se una scienza poteva allora dirsi tale, era quella dei medici, ma anch'essa era assai empirica; per il resto non si può affatto parlare di scienza, cosi come la intendiamo noi oggi, quasi esistessero due culture, una scientifica e una letteraria: nessuna opposizione, nessuna distinzione fra esse, ma un solo valore e un solo nome hanno: quello di cultura generale. In che cosa consisteva, ora, per Cicerone, questa cultura necessaria al "doctus orator"? Ce lo dice lui stesso: l'educazione deve comprendere la "puerilis institutio", di carattere elementare (CICERONE, De Oratore, 1, 5-20, 48, 59-60, 71-73, 75, 158-159, 165; 2, 5; 3, 57-90, 120-143. De Oratore, 2, 1), e la "politior humanitas" (CICERONE, De Oratore, 3, 12). La prima comprende le arti liberali (CICERONE, De Oratore, 1, 187), cioè le discipline letterarie, la dialettica, le scienze matematiche, l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musica.

La seconda comprende invece studi superiori: la storia, il diritto, la filosofia. Tutto l'insegnamento si riduce alla teoria, e soltanto quando la lettura impone un chiarimento del testo, il grammatico e il retore fanno qualche accenno alle arti liberali. Osserva bene il Marrou: « Tout fut sacrifié à la rhétorique, comprise en un sens étroit et scolaire; la jeunesse, préoccupée avant tout de parvenir et de réussir, mit dans la rhétorique une confiance sans borne; elle regna sans partage sur toute l'éducation." (MARROU, op. cit., pag. 110). Da Quintiliano e da Svetonio (QUINTILIANO, Istit. Orat. 2, 1, 1-6) apprendiamo che i grammatici usurpano a poco a poco il programma riservato in principio al [100] retore (SVETONIO, De grammaticis, 4); mentre ai tempi di Sant'Agostino lo studio propriamente "grammaticale" della letteratura si faceva sotto la guida del retore (Confessiones, 6, 7, 11: Agostino fu retore a Cartagine, Conf. 6, 7 12: spiega gli autori, ecc.). Gli è che lo scolaro ha fretta di diventare "vir bonus dicendi peritus" per cui il grammatico è costretto, per non vederselo sfuggire, a trascurare la sua materia, cioè le arti liberali, e invadere il campo del retore. Educazione, come si vede, superficiale, che di scientifico non aveva neppure la parvenza. Se Sant'Agostino ha voluto farsi una cultura in tale senso, ha dovuto sforzarsi per proprio conto d'imparare: "che mi giovava - scrive nel Libro IV delle Confessioni - l'aver letto e capito da me (notisi: da me) ... quanti libri potei avere in mano, concernenti le arti così dette liberali?" (Confess., IV, 16, 30 e IV, 16, 28: "che mi giovava l'aver lette, a circa vent'anni, e capite da solo le cosiddette categorie d'Aristotele ..." ). E più avanti: "Tutto quanto nel campo dell'eloquenza e della dialettica, della geometria, della musica, dell'aritmetica, senza grandi difficoltà, senza maestro alcuno, imparai ... ».

Ecco in che cosa consisteva l'insegnamento scientifico! E se su queste basi era fondato l'insegnamento primario, è facile immaginare a che cosa si riducessero quegli studi superiori della "politior humanitas" che dei primi sarebbero dovuti essere il coronamento. Lentamente scompare l'interesse per lo studio del diritto e Sant'Agostino stesso dimostra una debole cultura giuridica (MONCEAUX, Afrique chrétienne, 3, pagg. 91-92), la filosofia diventa una disciplina autonoma (MARROU, op. cit., pagg. 169-173) e la storia la si studia più che altro per collezionare piccoli fatti. Cicerone aveva voluto riabilitare la retorica, ridare valore all'ideale culturale (CICERONE, De Oratore, I, 20-21; l, 75-81; l, 214); e, con l'esigere troppo dall'oratore, finisce col persuadere che la conclamata educazione è praticamente irrealizzabile. Ma nello stesso tempo, appunto in vista della complessità del lavoro preparatorio all'arte oratoria, Cicerone suggerisce di limitare le proprie conoscenze, specialmente filosofiche, al fine di non perder tempo: "ista discuntur facile, si et tantum sumas quantum opus sit!" (CICERONE, De Oratore, 3, 87). Conseguenza: tramonto dell'ideale dell'alta cultura, al quale subentra la ricerca di una cultura generale utilitaria.. Non più lo studio come formazione dello spirito, ma lo studio utile per diventare, nel minor tempo possibile e con le minori difficoltà, oratore, o, meglio, per dirla con Sant'Agostino "spacciatori di parole". Pratica e non [101] teoria.

E' facile ora pensare a quali risultati portasse una tale concezione di quegli studi: basta leggere Quintiliano per farcene una idea (QUJNTILIANO, Istit. Orat., I, 10, 36-37 dove è detto che la geometria serve a formare il giudizio intellettuale e I, 10, 32 dove dichiara utile l'aritmetica in quanto ci serve a non imbrogliarci nel numerare, ecc.): "Rerum enim copia, verborum copia gignit!" (CICERONE, De Oratore, 3, 125): è la subordinazione della cultura generale all'utile dell'oratore. Gli studi scientifici diventano nulla di più d'un elemento della tecnica grammaticale, e l'erudizione diventa fine a se stessa. Poco interessa, ormai, all'uomo intellettuale, l'arte dei classici: basta sapere ciò che dicono, appunto perché ciò che conta è accumulare materiale utile per parlare bene; forse soltanto per parlare di molte cose. Erudizione spicciola e non più cultura generale. Non avendoci lasciato Sant'Agostino una raccolta sistematica che sia il compendio del contenuto della sua scienza, non è facile inventariare le nozioni che costituiscono la sua erudizione. Qua e là nelle sue opere troviamo tuttavia numerosi elementi di giudizio che ci danno la possibilità di determinare le sue conoscenze un po' in tutti i campi.

Egli dimostra anzitutto di possedere una erudizione storica assai estesa, fonte preziosa alla quale hanno potuto copiosamente attingere gli studiosi della religione romana. Dobbiamo a Sant'Agostino se c'è rimasto, attraverso il De Civitate Dei (De Civitate Dei, 1, 4 e 1, 6), parte dell'opera Varroniana, al suo tempo assai poco conosciuta. Egli non studia però Varrone per semplice curiosità, ma associa a questa, che potremo definire una conoscenza «di lusso», il fine pratico di premunirsi d'elementi utili a combattere con un'aspra critica il paganesimo. La sua erudizione lascia largo campo anche alla mitologia (De Doctrina Christiana, II, 17, 27) alla quale fa frequenti allusioni, specie nel De Civitate Dei (De Civitate Dei, 18, 3; 13, 5; 18, 9; 18, 10), come pure fa uso di esempi storici, descrivendo scene o grandi personaggi e mettendo fatti e persone in relazione ad un tema morale. Quanto all'erudizione grammaticale Sant'Agostino vuol dimostrare che conosce assai bene le finezze della lingua classica (De Trinitate, 5, 7, 8; 13, 10, 14; 15, 1, 1; 9, 15, 16; 7, 4, 7) e l'etimologia, della quale fa molto uso (De Civitate Dei, 18, 21). Nel De Doctrina Christiana ci dà una definizione della geografia dalla quale possiamo arguire ch'essa doveva essere semplicemente descrittiva: "Est etiam narratio demonstrationi similis, qua non praeterita, sed praesentia indi [102] cantur ignaris. In quo genere sunt quaecumque de locorum situ, naturisque animalium, lignorum, herbarum, lapidum, aliorumque corporum scripta sunt" (De Doctrina Christiana, 2, 29, 45); di essa si conosceva più che altro la nomenclatura, come ci è dimostrato dal Dizionario Geografico di Vibius Sequester (SCHANZ, op. cit., 3, 2, paragrafo 1059). In base alla sua esperienza, Sant'Agostino enumera e descrive fatti e fenomeni che potremmo definire oggetto della storia naturale.

Egli osserva, si meraviglia e, colpito dalla caratteristica dell'animale, della pianta, dell'elemento naturale, descrive e spiega princìpi di fisica (De Civitate Dei, 21, 5, 1; Enarratio in Psalmum, 103, 3, 4, pagg. 410-417 e 101, 7, 8) e di chimica (De Doctrina Christiana, 2, 16, 24 e De Genesi contra Manicheos, 2, 10, 14), di mineralogia (De Civitate Dei, 21, 5, 1), di botanica (Enarratio in Psalmum, 91, 13; 57, 20; De Nuptiis et concupiscentia, 1, 19, 21; Contra ]ulianum Pelagianum, 6, 7, 21; Lettera 194, 10, 44; Sermoni, 77, 8, 22; Enarratio in Psalmum, 50, 12) e di zoologia (De Quantitatae animae; 31, 62; De Civitate Dei, 21, 4, 1; De Genesi ad Litt., 3, 8, 12). Della medicina dobbiamo dire che era insegnata dagli stessi medici, ma si trattava di una "disciplina" "quam pauci assequuntur" come leggiamo nel De anima et ejus origine (De anima et ejus origine, 4, 6, 7). Sant'Agostino discuteva coi medici questioni astrologiche (Confessiones, 4, 3, (5), «Viveva in quel tempo un uomo accorto, molto esperto nella medicina ...» (Vindiciano) e Conf. 7, 6, 8) e ne conosceva le divisioni in anatomia e fisiologia (De anima, 4, 6, 7), le principali teorie (De Genesi ad litteram, 3, 4, 6-7) e i metodi (De Civitate Dei, 22, 24, 4).

Nel De Doctrina Christiana, egli ci parla di questioni astrologiche (De Doctrina Chrlstiana, 2, 22, 34) e sarebbe interessante vedere i molti passi sparsi in varie sue Opere riguardanti la fisica. Ma basterà dire che al tempo di Sant'Agostino v'erano due modi per studiare questi problemi: una fisica dei filosofi, che s'occupavano delle teorie, e una degli eruditi che s'interessavano dei fatti, come ci viene testimoniato dallo studio del Duhem (DUHEM, Sistème du monde, 2). E non aggiungiamo altro, per ora, rimandando all'ordine degli studi che Sant' Agostino fisserà nel De Doctrina Christiana e nel De Cathechizandis rudibus. Quanto abbiamo detto a proposito di tutte queste discipline che abbiamo elencato nell'ordine tradizionale delle arti liberali, ci [103] ha confermato nella convinzione che l'erudizione di Sant'Agostino non era frutto di uno studio organico e ordinato, regolare e sistematico, bensì un insieme di nozioni apprese qua e là sui pochi testi allora esistenti e soprattutto di esperienze vive che, colpendo l'immaginazione del Nostro, lo induceva a tramandarle. Si tratta d'un tipo di erudizione che non può dirsi letteratura, né di scienza nel significato che noi diamo a questa parola; più che scienza è ricerca e conoscenza disinteressata, è il sapere per il sapere, è curiosità. Conoscenza dei fatti, la definisce Sant'Agostino (De Vera Religione, 49, 94) "et omnis illa quae appellatur curiositas, quid aliud quaerit quam de rerum cognitionem laetitiam", scrive nelle Confessioni (Confessiones, X, 8, 15): "...Vanno ad ammirare le vette delle montagne, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, la distesa dell'oceano, i giri degli astri ..." e, lo abbiamo già notato, un po' in tutte le sue opere Sant'Agostino stesso ci si rivela acuto osservatore di fatti, avido, meticoloso e infaticabile ricercatore di particolari di tutte le scienze, allo scopo di acquisire conoscenze sempre più vaste e varie, animato da un'inquieta passione della scoperta per il gusto d'una erudizione disinteressata.

Queste conoscenze non sono però fra loro collegate, non costituiscono, nello spirito di chi le possiede un tutto organico, non sono coordinate né soggette a una legge che le regoli, le ordini, le inquadri e le indirizzi a un fine preciso; sono conoscenze di ogni ordine, possedute dallo spirito a titolo individuale: questa è la scienza dello studioso del secolo. Collezionare: ecco tutto. S'era ormai spento il bell'ideale dell'Ellenismo e i termini erano ormai capovolti: non multum, sed multa. Ci si accontenta di conservare le conquiste intellettuali dei predecessori, e scompare l'anelito al progresso.

"Illa sufficiunt quae nos quosque possumus experiri et eorum testes idoneos non difficile est invenire", scrive il Nostro nel De Civitate Dei (De Civitate Del, 21, 6): l'esperienza ha cessato d'essere una tecnica di verifica, che segue all'ipotesi, e serve ora soltanto a perfezionare le nozioni che sono utili ad analizzarla, a stabilire che la realtà è meravigliosa. Su una base che sospetta del razionale e considera come reale l'esperienza, non meraviglia che questa cultura diventi libresca, e segni l'accentuarsi della decadenza in atto.