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Giulio Belotti: L'educazione in sant'Agostino

 Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

 

 

 

Capitolo 6

LA DOTTRINA AGOSTINIANA DELL'ILLUMINAZIONE DIVINA IL "MAESTRO" INTERIORE

di Giulio Belotti

 

 

«Noli foras ire, in te ipsum redi;

in interiore homine stat veritas;

et si tuam naturam mutabilem inveneris,

trascende te ipsum. Sed, memento

cur te trascendis, ratiocinantem

animam te trascendere.

Illuc ergo tende, unde ipsum lumen

rationis accenditur ».

 

Approfondiamo anzitutto la natura e la portata dell'innatismo. Questa parola ci fa pensare subito a Platone. Egli concepì l'anima dotata fin dalla nascita delle idee già contemplate nell'al di là, e oscuratesi quando essa si unì al corpo, ma idee che la realtà esteriore viene poi ravvivando in seguito all'esperienza. Reminiscenza, quindi, e non apprendimento. Viene fatto di chiederci: Sant'Agostino, parlando nei suoi scritti di reminiscenza, ha voluto dare a questa parola il significato e il valore che le ha attribuito Platone, considerando cioè preesistente l'anima? Nei Soliloqui, scritti nel 387, leggiamo: «Tales sunt qui bene disciplinis liberalibus eruditi; siquidem illas sine dubio in se oblivione obrutas eruunt discendo, et quodammodo refodiunt ..." (Soliloquia, Il, 20, 35). E nel De Quantitate animae del 388: «Magnam omnino, magnam, et qua nescio utrum quidquam majus sit, quaestionem moves, in qua tantum nostrae sibimet opiniones adversantur, ut tibi anima nullam, miro contra omnes artes secum attulisse videatur; nec aliud quidquam esse id quod dicitur discere, quam reminisci et recordari." (De Quantitate animae XX, 34, t. 32, col. 1054). Non altrimenti s'esprime, un anno dopo, nell'Epistola VII ad Nebridium: «Nonnulli calumniantur adversus [78] Socraticum illud nobilissimum inventum, quo asseritur, non nobis ea quae discimus veluti nova inseri, sed in memoriam recordatione revocari; dicentes memoriam praeteritarum rerum esse, haec autem quae intelligendo discimus, Platone ipso auctore, manere semper, nec posse interire ac per hoc non esse praeterita: qui non attendunt illam visionem esse praeteritam, qua haec aliquando vidimus mente; a quibus quia defluximus, et aliter alia videre coepimus, ea nos reminiscendo revisere, id est, per memoriam» (Epistola VII ad Nebridium, t. 33, col. 68).

 

 

LA TEORIA DELLA REMINISCENZA

Stando a queste sue affermazioni, soltanto parzialmente e imperfettamente ritrattate poi, parrebbe proprio che Sant'Agostino ricalchi la dottrina platonica in tutto e per tutto, ritrattando soltanto in ultimo la preesistenza dell'anima. L'Alfaric sostiene che, quando scrisse il De Magistro, il suo pensiero era già mutato (ALFARIC, op. cit., pag. 497, nota 4); il Gilson si limita a dire, sostenendo la tesi dello Hessen (J. HESSEN. Die Begrundung der Erkenntnis nach dem hl. Augustinus, pag. 55, 62), il quale parla di una "inclinazione verso la dottrina della preesistenza dell'anima" che è perlomeno difficile provare il contrario. Le Ritrattazioni, infatti, non ci offrono elementi di giudizio sufficientemente probatori (SANT'AGOSTINO, Retractationes, VIII, 2. t. 32, col. 594): forse Sant'Agostino si riprometteva di precisare meglio il suo pensiero in opere successive, che non ha poi avuto il tempo per scrivere. Ma riprenderemo più oltre la ricerca. Invece, ripetiamo, non c'è dubbio sulla negazione nella dottrina agostiniana della preesistenza dell'anima, e ciò rende assai difficile spiegare come imparare possa identificarsi col ricordare, che è pur sempre la reminiscenza di un passato. L'anima, che ha contemplato le idee delle quali ora si ricorda, dovrebbe poter offrire all'uomo ogni conoscenza; ma già Socrate ha dimostrato che solo le conoscenze intelligibili sono possibili, mentre le arti pratiche esigono il sussidio dell'esperienza (SOCRATE, Menone), cioè vi sono reminiscenze solo per l'intelletto, mentre non ve ne sono per l'ordine sensibile.

Leggiamo nel De Trinitate: "Denique cur de solis rebus intelligibilibus id fieri potest, ut bene interrogatus quisque respondeat quod ad quamque pertinet disciplinam, etiamsi ejus ignarus est? Cur hoc facere de rebus sensibilibus nullus potest, [79] nisi quam isto vidit in corpore constitutus, aut eis quae noverant indicantibus credidit, seu litteris cuiusque, seu verbis. » (De Trinitate, XII, 15, 24, t. 42, col. 1011-1012). Ma negare la reminiscenza è negare l'innatismo. I pareri dei critici su questo punto sono alquanto discordi. Il Martin identifica i due termini: « La théorie de la réminiscence a souvent occupé Saint Augustin: or, pour lui, réminiscence signifie toujours innéité » (J. MARTIN, S. Augustin, II ediz., pag. 55).

Il Gilson cita le Confessioni (Confess., X, 12, 19) per dichiarare che quel passo «  allégué comme une défense de l'innéité, ne fait en réalité aucune allusion à cette doctrine. » (GILSON, Introduction à l'étude de Saint Augustin, Parigi, 1929, pag. 96) e conclude però che il Martin vuol parlare della dottrina dell'illuminazione e che, se un errore c'è, è nella scelta dei termini prefissisi. Sta di fatto che - lo abbiamo visto nell'analisi del De Magistro - l'uomo non impara da un altro uomo, bensì scopre in sé la verità, e l'esempio dello schiavo ignorante del Menone lo conferma. Ma non si scopre, non si trova se non ciò che già esiste; dunque nella mente esistono già le idee, che non vengono create e prodotte da essa.

Siamo di fronte, perciò, ad un assurdo, si chiede Sant'Agostino nel De immortalitate animae, di un'anima temporale che genera da sola verità eterne? Può la mente dare più di quel che può dare per la sua stessa natura? Di più: può - essa che è inferiore - generare ciò che le è superiore? "Sed curo vel nos ipsi nobiscum ratiocinantes, vel ab alio bene interrogati de quibusdam liberalibus artibus, ea quae invenimus, non alibi quam in animo nostro invenimus; neque id est invenire, quod facere aut gignere; alioquin aeterna gigneret animus inventione temporali; nam aeterna saepe invenit; quid enim tam aeternum quam circuli ratio, vel si quid aliud in hujuscemodi artibus, nec non fuisse aliquando, nec non fore comprehenditur?" (DILLON, Mortalitate animae, IV, 6, t. 32, col. 1024).

 

 

SOLLECITAZIONE DI UNA ATTIVITÀ MENTALE, NON «INSEGNAMENTO» DELLE VERITA'

Questo fenomeno è vero per tutti indistintamente gli uomini, di qualunque razza siano, qualunque lingua parlino; è vero che, per quanto ogni persona abbia un suo modo di pensare, una sua personalità nettamente distinta dalle altre, pure in tutti gli uomini vi sono delle verità identiche per tutti, delle leggi fisse, che tutti accettano, [80] per vere. Se qualcuno afferma, per esempio, in presenza d'altri, che è felice chi possiede la Sapienza, questa verità viene accettata per vera da tutti. dal che si deduce essere avvenuta una specie di comunicazione fra i loro spiriti, che si sono accordati sulla validità dell'affermazione. Accordo che sarebbe altrimenti impossibile ottenere (De libero arbitrio, II, 9, 27 e 10, 28, t. 32, col. 1255). Gli è che nella mente di ciascun uomo vi sono delle verità identiche per tutti, distinte per ognuno di essi (De libero arbitrio, II, 12 (33), t. 32, col. 1259) che egli scoprì quando rientrando in se stesso in seguito alle sollecitazioni che gli giungono dall'esterno per mezzo del maestro, può confrontare con esse la validità di ciò che gli viene insegnato. Nella nostra mente, ad esempio, è già insita quella verità matematica per la quale due più due fanno quattro. Il maestro crede d'insegnarla al suo alunno, mentre invece non fa che sollecitare la sua attività mentale a scoprire, da sola, quella verità.

L 'alunno, infatti, ascolta, giudica, dopo aver raffrontato la parola che suona al di fuori con la verità immutabile del di dentro, e se c'è corrispondenza, l'accetta. In questo senso, concepito come mezzo per risvegliare l'attenzione e per offrire elementi di valutazione da compiersi però con lavoro del tutto personale, il linguaggio usato dal maestro ha la sua importanza. Se questo lavoro l'alunno non compie, le parole di colui che çomunemente chiamiamo "maestro" restano vuote di significato e improduttive. In rapporto all'uomo, nessun'altra similitudine meglio di quella della luce illustra il suo venire in contatto con la Verità divina. Come la terra, pur essendo visibile, in atto non può essere veduta, se non è illustrata dalla luce, così tutte le cose che s'insegnano nelle scienze e che ciascuno intende, sono senza dubbio vere, ma non possono essere intese, se non sono illustrate dal proprio sole.

E l'anima intellettuale appare essa stessa librata in un'atmosfera luminosa, avendo sede come in una luce incorporale (Soliloquia, I, 8, De Trinitate, XII, 15, 24).

 

 

LA DIMOSTRAZIONE DELLA TEORIA AGOSTINIANA

In rapporto a Dio, la Verità emana da Lui, come dalla propria fonte: nella sua intelligenza, infatti, esistono le idee e i principi formali delle cose, platonicamente individuati come specie su cui [81] si odellano gli esseri creati, ciascuno dei quali ha il suo vero posto preordinato nel cosmo intellettuale divino (De diversis quaest. 46, 2). Dunque la Verità, unica nel suo principio, unitaria nella sua azione, illustrante, si moltiplica nel sistema organico delle idee; ragioni eterne che presiedono alla creazione e alla stessa contemplazione intellettuale che riproduce in qualche modo l'attività del creare (DE RUGGIERO, op. cit.).

Ma un'altra ragione di natura diversa e tuttavia non meno probante, ci dà Sant'Agostino nel De Trinitate: « Voi non amate che il buono. Amate la terra perché essa è buona con le sue alte montagne, con le sue colline, e con le sue pianure; amate la figura dell'uomo perché essa è buona per l'armonia delle forme, del colore e dei sentimenti; voi amate l'anima del vostro amico, buona per l'incanto d'una intima armonia e di un fedele amore; voi amate la parola, buona perché essa insegna con dolcezza; i versi, buoni per la melodia del numero e per la solidità del pensiero. In tutto ciò che amate, voi ritrovate il carattere del Bene; sopprimete ciò che distingue le cose, e troverete il Bene stesso. Noi paragoniamo questi beni ed in qual modo se non mediante un'idea del Bene perfetto ed immutabile, mediante la comunicazione del quale, tutto è buono? Se in tutti questi beni particolari non vedete che questo Bene supremo, voi vedete Dio » (De Trinitate, L. 8, cap. III).

 

 

LA VERITÀ

La Verità è Dio. Dio è il « Maestro interiore»: « Admonitio autem quaedam, quae nobiscum agit, ut Deum recordemur, ut eum quaeramus, ut eum pulso omni fastidio sitiamus, de ipso ad nos fonte veritatis emanato Hoc interioribus luminibus nostris jubar sol ille secretus infundit » (De vita beata, IV, 35, t. 32, col. 876. 329). Questa Verità, sapienza eterna di Dio, è Cristo: «De universis autem quae intelligimus non loquentem qui personal foris, sed intus ipsi menti praesidentem consulimus veritatem, verbis fortasse ut consulamus admoniti. Ille autem qui consulitur, docet, qui in interiore homine dictus est Christus (Ephes. III, 16, 17) id est incommutabilis Dei virtus atque sempiterna Sapientia » (De Magistro, XII, 38, t. 32, col. 1216). Anche per San Tommaso il maestro che parla ha la funzione di aiutare lo scolaro nella sua personale attività di formazione dei concetti e ritiene con [82] Sant'Agostino necessario da parte dello scolaro uno sforzo senza del quale le parole stimolatrici dell'insegnante restano prive di frutti, ma v'è una differenza sostanziale fra i due De Magistro.

Quello tomista ha per fine la determinazione delle possibilità dell'insegnamento dal punto di vista scientifico, quello agostiniano, invece, mira principalmente a risolvere il problema dal punto di vista pratico. Per Sant'Agostino, lo abbiamo visto, la felicità per l'uomo consiste nella beatitudine, la quale s'acquista con lo "studium sapientiae" e con una vita ordinata a tal fine: "vivere bene", per "vivere beate". Lo scopo suo consiste nello studiare in qual modo può passare dalle tenebre alla luce, dall'errore alla verità, l'uomo in cerca di felicità.

 

 

L'ILLUMINAZIONE DIVINA

Ora, la natura umana è corrotta; non basta dunque né la dialettica né la ragione per far conoscere la Verità; occorre qualcosa di superiore, ed ecco la luce intellettuale illuminatrice dell'anima, luce di Dio. Onde ecco il monito della speculazione agostiniana: «sapiens seipsum in semetipsum colligit" (Contra Acad., I, 23); "i quaeras ubi inveniat ipsam sapientiam respondebo in semetipso" (Contra Acad., III, 31); "redire animas in semetipsas et respicere patriam"l (Contra Acad., III, 41).

Osserva l'Abbagnano: "L'ispirazione cristiana interviene qui a trasformare il sistema platonico della Verità, in una forza attiva operante nella più profonda coscienza dell'uomo e rivolge un appello irresistibile alla religiosità umana; e la ricerca di essa diventa desiderio ardente del possesso: amore" (SANT'AGOSTINO, Confess., a cura di Abbagnano, pag. 4). Perché la Verità si manifesti all'anima che la cerca, deve intervenire la volontà, occorre il "fiat" interiore dell'alunno. Essa si rivela, anzi, secondo la misura della buona o cattiva volontà di colui che la consulta. Nel Santo Vangelo sta scritto: «Unus est magister vester, Christus" (Matt. XXIII, 10). Cristo, Sapienza di Dio, luce di verità che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (come ha interpretato San Paolo), fa sì che gli uomini siano accomunati in una stessa verità, educati dallo stesso Maestro, in una sola scuola: «in una schola communem magistrum in coelis habemus" (Sermo, 299, I, t. 38, col. 1367). Resta da completare quanto [83] abbiamo detto a proposito della dottrina platonica in rapporto a quella agostiniana.

 

 

AGOSTINO E PLATONE

Secondo Platone, della Verità ci si ricorda come se si trattasse d'una conoscenza passata: per Sant'Agostino, invece, essa è sempre pronta a manifestarcisi quando noi, aiutati dalla grazia divina, pronunciamo il "fiat" interiore, che fa efficienti le possibilità della educazione. Il santo Dottore usa si gli stessi termini di Platone, ma vi dà un significato diverso. "Cogitatio" è per lui il movimento per il quale la mente raccoglie tutte le conoscenze latenti in essa per poterle scrutare: "Quocirca invenimus nihil esse aliud discere ista, quorum non per sensus haurimus imagines, sed sine imaginibus, sicuti sunt per seipsa intus cernimus, nisi ea, quae passim atque indisposite memoria continebat, cogitando quasi colligere, atque animadvertendo curare, ut tamquam ad manum posita in ipsa memoria, ubi sparsa prius et neglecta latitabant, jam familiari intentioni facile occurrant ... Nam cogo et cogito sic est, ut ago et agito, facio et facto. Verum tamen sibi animus hoc verbum proprie vindicavit, ut non quod alibi, sed quod in animo colligitur, id est cogitur, cogitari proprie jam dicatur. » (Confessiones, X, II, 18). Esclusa la preesistenza platonica, è altresì escluso che Dio abbia deposto una volta per sempre idee sempre valide che all'uomo basta cercare nella mente per trovare. Le sensazioni sono necessarie, ammesso pure che esse vengano dal di dentro. L'anima conosce per mezzo dei sensi corporei quanto appartiene all'ordine corporeo e per essa tutto ciò che appartiene all'ordine del pensiero: "mens ipsa, sicut corporearum rerum notitias per sensus corporis colligit, sic incorporearum rerum per semetipsam, ergo et semetipsam per seipsam novit, quoniam est incorporea." (De Trinitate, IX, 3, 3, t. 42, col. 962-963).

 

 

IL LOGOS DIVINO

Con la metafora dell'illuminazione divina, Sant'Agostino vuol aiutarci a capire la sua dottrina. Come l'occhio vede i corpi, così - dice il santo Dottore - l'atto del pensiero conosce la Verità. [84] Troviamo nel De Ordine: "Menti hoc est intelligere, quod sensui videre" (De Ordine, II, 3, 10, tomo 32, col. 999); e nei Soliloqui: "Ego autem ratio ita sum in mentibus, ut in oculis est aspectus." (Soliloquia, I, 6, 12, tomo 32, col. 875). Però, nonostante le sue facoltà, l'occhio se non ha il sussidio della luce, non può vedere; e così è per le Verità scientifiche, le quali si manifestano solo quando una specie di luce le illumina, permettendo così alla mente di percepirle. Ora, questa luce è Dio. È Dio che fa intelligibili le scienze del pensiero: "Nam mentis quasi sui sunt oculi sensus animae; disciplinarum autem quaeque certissima talia sunt, qualia illa quae sole illustrantur, ut videri possint, veluti terra est atque terrena omnia: Deus autem est ipse qui illustrat." (Soliloquia, I, 6, 12, t. 32, col. 875).

"L'illuminazione immediata dell'individuo per opera della divinità - scrive il Windelband, - fu considerata come una conquista superrazionale della Verità divina di cui l'uomo partecipa nel contatto immediato con la divinità." (WINDELBAND, Storia della Filosofia, vol. I, 1937). E fa un po' la storia dell'origine di questa idea. «Le radici di una concezione siffatta vanno cercate - spiega il Windelband - in Filone il quale insegnò che ogni virtù può sorgere e conservarsi nell'uomo soltanto per l'azione del Logos divino, e, che la conoscenza di Dio consiste per l'uomo nell'uscire di sé, rinunziando alla propria individualità e passando nell'essere divino medesimo (FILONE, Leg. All. 48 e, 55 d, 57 b (53-62 M)).

La conoscenza dell'Altissimo è contatto immediato, unificazione di vita con Lui. L'uomo che voglia intuire Dio, deve farsi Dio. Posizione spirituale in cui l'anima deve lasciarsi andare, affatto passiva e ricettiva (Cfr. PLUTARCO, De Pjth. orac. 21 e segg. (404 e s.)), allontanando da sé ogni sua attività autonoma, ogni pensiero proprio, ogni sentimento di se stessa. Affinché sull'uomo ricada la beatitudine della visione di Dio, anche la ragione deve tacere: nell'estasi lo spirito stesso di Dio inerisce nell'uomo, che in questo stato d'animo è profeta della sapienza divina, antiveggente e taumaturgo." (WINDELBAND, op. cit.) La dottrina dell'illuminazione di Sant'Agostino ha dato luogo a infinite ricerche e studi sul significato che ha voluto dare a vari aspetti della dottrina stessa, ma i pareri sono stati e sono oltremodo discordi. Per quanto si sia fatto, ad esempio, per inserire l'astrazione nell'illuminazione, nessun risultato sicuro è stato ottenuto. « Toutes les voies, scrive il Gilson, furent tentées: Dieu intellect agent, suppression de [85] l'intellect agent au profit du seul intellect possible, fusion des deux intellects, identification de l'intellect agent avec l'illumination divine elle même, autant de solutions qui pourront toutes se réclamer d'Augustin précisément parce qu'il n'a soutenu aucune d'elles ... » (E. GILSON, op. cit., pag. 117).

E così per altri particolari aspetti. Sarebbe interessante approfondire la discussione sulla dottrina dell'illuminazione, ma essa esige uno studio apposito e a sé del tutto particolare, assai serio e impegnativo, anche perché deve tener conto oltre alle testimonianze delle opere del Santo, dei molti contributi apportati dagli studiosi e dai critici all'argomento, con studi non sempre approdati a buon fine; a noi, che anche di questa dottrina dobbiamo parlare solo per quel tanto che interessa l'educazione, basterà quel che abbiamo detto. Mentre invece sottolineeremo, com'è nostro compito, le regole che ne derivano in campo morale - educativo, le deduzioni che se ne possono trarre per l'educazione.

 

 

CONSIDERAZIONI

La pedagogia di Sant'Agostino - scrive il Boyer - è una conclusione della sua filosofia, sorretta dalla fede cristiana. Il principio fondamentale, che il pedagogo non deve mai perdere di vista, è quello dell'illuminazione, e cioè che il maestro principale è l'interiore. Ne segue che il maestro non solo non deve attribuirsi i buoni risultati della educazione, come se fosse egli il creatore della Verità, ma principalmente che egli deve aver cura che il discepolo sia attivo e faccia veramente suo quanto gli viene insegnato (C. BOYER. Sant'Agostino, pag. 46). Il maestro deve riconoscere umilmente la sua incapacità d'insegnare, in senso assoluto, le cose, e deve vedere nell'alunno affidato alle sue cure non un vaso da riempire, ma una pianticella da coltivare. Egli non dovrà quindi forzare la natura libera del fanciullo, imponendogli il suo sapere, bensì lasciargli la piena libertà di osservazione della realtà, di discussione su quanto vede e sente, deve insomma vedere in lui l'uomo futuro, già in formazione in quel piccolo essere, pur dotato d'una personalità in via di sviluppo. Egli quindi sarà come un buon giardiniere che coltiva amorosamente le sue piante, favorendone lo sviluppo, col creare poco alla volta il terreno favorevole e adatto alla loro crescita. Il giardiniere vigila le sue piante e previene con attente [86] cure le malattie che possono minare la salute dei teneri alberelli, e uccide con i mezzi di cui dispone gli insetti dannosi.

Il maestro farà come lui: lascerà che il fanciullo liberamente sviluppi la sua personalità in via di formazione, ma vigilerà per prevenire deviazioni e pericoli morali, correggendo gli immancabili errori, frutti del seme d'Adamo, e farà uso, per ottenere questo scopo buono, dei mezzi a sua disposizione. Anzitutto dell'amore, di quella carità che conquista l'anima del fanciullo, ottenendo in lui la "convinzione" della bontà di quanto per il suo bene l'educatore gli suggerisce; poi, se l'ammonimento non è sufficiente, intervenga pure il castigo, nei limiti e con le riserve che abbiamo enunciato nei capitoli precedenti. Ecco il primo compito dell'educatore: aiutare il fanciullo a formare il terreno favorevole alla sua integrale educazione. Ma noi sappiamo che, perché la Verità si manifesti all'uomo, occorre ch'egli pronunci il « fiat » interiore, e che Dio illumini la sua mente: « Dammi, o Signore, ch'io sappia e intenda ... » (Confessiones, I, 1).

Ma come si può ottenere da Dio questa grazia? Con la preghiera. Ecco quindi affermata una necessità insostituibile per chiunque voglia scoprire la Verità, e che l'educatore deve sempre tener presente. Abbiamo già notato come Sant'Agostino ricorresse alla preghiera per invocare da Dio uno scampo alle busse e alla classica « ferula » (Vedasi cap. II, parte I, di questo studio); vedremo in seguito come, nel De Doctrina Christiana, dedichi un intero capitolo alla necessità della preghiera per capire le Sacre Scritture (De Doctrina Christiana, III, 37 (56)) e come ne parli in tante altre parti. A noi basta inquadrarla in quell'insieme di disposizioni morali necessarie all'alunno che, sotto lo stimolo del maestro umano, vuole trovare la Verità. « Cercare la Verità per amore di essa - scrive il Boyer - è già pregare». Sant'Agostino parla dell'illuminazione divina come di una grazia. Essa è un dono di Dio, di natura in quanto è comune a tutti gli uomini, dono specialmente gratuito od anche conquista della preghiera, quando manifesta il vero secondo una benevolenza particolare di Dio o secondo il merito della creatura. La rivelazione cristiana offre a Sant'Agostino due ragioni d'invocare il soccorso del lume divino e cioè l'ignoranza ereditata col peccato originale e la destinazione dell'uomo a un fine soprannaturale (C. BOYER, op. cit., pag. 47).

Da una siffatta concezione del magistero umano e di quello divino, derivano alcune regole, [87] così ben riassunte dal Boyer: cioè «che non si deve discutere sulle parole (Contra Academicos, I, 3, 8), che si deve concedere all'avversario di riprendersi e correggere ciò che ha mal detto, che non bisogna pretendere di sapere ciò che non si sa, che bisogna cercare la Verità con tutte le forze, fiduciosi che a chi l'ama essa non si nasconderà ». (De Moribus Eccl., c. 17).