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LA RIFORMA DEI CANONICI

Monaci in una sala capitolare

Monaci in una sala capitolare

 

 

LA RIFORMA DEI CANONICI

 

 

 

Accanto alle riforme benedettine un'altra è da notare: quella fra i canonici (Una eccellente introduzione la presentano: J. C. DICKINSON, The origins of the Austin Canons and their introduction into England, London 1960; J. MOIS, Das Stift Rottenbuch in der Kirchenreform des XI-XII Jahrhunderts, München 1953; CH. DEREINE, Vie commune Règle de St. Augustin et chanoines reguliers au XIe siècle (con un commento), RHE 41 (1946), pp. 366-401; CH. GIROUD, L'Ordre des chanoines réguliers de Saint Augustin et ses diverses formes de régime interne, Martigny 1961; F. PAULY, Springiersbach Geschichte des KanoniKerstifts und seiner Tochtergründungen im Erzbistum Trier von den Anfängen bis zum Ende des 18 Jahrhunderts, Trier 1962 e Dictionnaire d'historie et de géographie ecclésiastique, Vol. 12, pp. 353-405). Le iniziative di Crodegango, vescovo di Metz, e del cosiddetto concilio d'Aquisgrana non ebbero un grande successo nel nono secolo.

Duecento anni dopo questo tentativo carolingio, un altro pervase i circoli canonicali: un tentativo attinto a quello dei monaci. La vita monacale aveva ripercussioni fra i canonici. Ed i papi della seconda parte del secolo XI, come Nicolò II, Alessandro II, Gregorio VII e Urbano II si dimostrarono animatori e propagatori di questa riforma. Come Pier Damiani, i papi desideravano una riforma, che chiamavano la vita apostolica: vivere come gli apostoli nella Chiesa primitiva. Tale desiderio corrispondeva ai desideri che pian piano si erano fatti strada fra il popolo basso: nella classe borghese ed operaia, che tentava liberarsi dai poteri feudali. La Chiesa non era contraria, ma quando questa rivoluzione arrivò ad eccessi non accettabili, essa prudentemente e chiaramente se ne distaccò e troncò uno sviluppo tanto pericoloso. Nell'Italia settentrionale il movimento rivoluzionario venne chiamato Pataria, e nella Toscana si sviluppò un movimento simile. L'allarme così dato per una riforma sociale e religiosa veniva accettato, e particolarmente negli ambienti canonicali quelle esigenze furono qua e là comprese. La riforma richiesta venne iniziata: in primo luogo nella Provenza, nella canonica di S. Rufo presso Avignone (1039), ed in altre come St. Martin des-Champs a Parigi e poi nelle canoniche di Reims, Cambrai, Soissons, Senlis, Tournai e Poitiers.

Trovò anche la strada verso la Lombardia e l'Italia centrale, raggiunse Roma, la penisola iberica e l'Inghilterra. Canoniche riformate che si unirono in corporazioni, ossia congregazioni, nel periodo 1050 - 1150, diedero inizio ai primi "Ordini" di Canonici Regolari: quello detto del Laterano, dopo il 1059, Arrouaise circa il 1090, i Vittorini di Parigi verso il 1113, la "Congregatio Portuensis" di Ravenna nel 1117, i canonici della S. Croce di Coimbra nel 1132, i Gilbertini di Sempingham nel 1135 ed altri come i Premonstratensi nel 1120. Il punto centrale di tutte queste riforme consiste nel combattere gli eccessi, che in forma di simonia e nicolaismo erano nati come conseguenze del feudalismo e dell'investitura laicale nel campo religioso. Testimoni contemporanei lo attestano chiaramente. Bruno da Segni lamenta nella Vita del Papa Leone IX: "Simon Magus ecclesiam possidebat, episcopi et sacerdotes voluptatibus et fornicationi dediti erant. Non erubescebant sacerdotes uxores ducere, palam numptias faciebant... Sed quos his omnnibus deterius est, vix aliquis inveniebatur, qui simoniacus non esset, vel a simoniaco ordinatus non fuisset " (Citato da J. MARX, Lehrbuch der Kirchengeschichte, Trier 10 1935, p. 354).

Come il migliore rimedio veniva indicata la vita comune sulla base della povertà, come scrisse Leone IX ai "canonici conversi" di Lucca: "qui caste ac regulariter sancto altari servire desiderant... oportet in canonicum usum victus ac vestitus accipere, ne dum ista pro necessitate quaeritant, culpam vagationis incurrant... Si Dominus Deus... ecclesiam vestram ab uxoratis presbyteris... liberaverit, pro incestis casti... restituantur et bona quae habent ecclesiastica, quae illi luxuriose vivendo dissipant, in communem usum canonice habitantium redigantur " (P. MANDONNET-H. M. VICAIRE, Saint Dominique, vol. II, Paris 1937, p. 176, nota 25). Una richiesta che diventò un comandamento sotto Alessandro II, e venne emanato nel sinodo romano del 1063: "Et praecipientes statuimus ut hi praedictorum ordinum qui praedecessori nostro obedientes castitatem servaverunt, iuxta ecclesias quibus ordinati sunt, sicut oportet religiosos clericos, simul manducent et dormiant et quidquid eis ab ecclesiis competit communiter habeant. Et rogantes monemus ut ad apostolicam, scilicet communem vitam summopere, pervenire studeant, quatenus perfectionem consecuti, cum his qui centenario dicantur in caelesti patria mereantur adscribi (P. MADONNET, op. cit., p. 177, nota 29. Cfr. Gregorio VII nella sua lettera Cum apud vos, del 28 novembre 1078, ai canonici di S. Martino, che non furono fedeli, MPL 148, 519). Che la vita comune sia tanto importante, lo spiegò Pier Damiani, poi creato cardinale, nel suo trattato Contra canonicos regulares proprietarios: "Clericus, qui captus est amore pecuniae, nequaquam idoneus est ad ministranda verba doctrinae. Quod etiam in eo, quod superius proposuimus, apostolico declaratur exemplo. Nam cum Scriptura praemittat: Multitudinis credentium erat cor unum et anima una, moxque subjungit: nec quisquam eorum, quae possidebat, aliquid suumn esse dicebat; sed erant illis omnia communia; protinus addidit: Et virtute magna reddebant apostoli testimonium resurrectionis Jesu Christi Domini nostri, et gratia magna erat in omnibus illis: deinde subinfert: Nec quisquam enim egens erat inter illos. Quid autem sibi vult, quid hujus sacrae scriptor historiae, dum de continentia loquitur apostolica et communi vita...? ... nisi ut patenter ostendat, quia illi dumtaxat idonei sunt ad praedicationis officium, qui nullum terrenae facultatis possident lucrum: et dum aliquid singulare non habent, communiter omnia possident? Nihil scilicet habentes et omnia possidentes. Ii nimirum, dum nullis terrenarum rerum praepediuntur obstaculis, expediti stant pro Dominicis castris in campo certaminis; et quia rebus exuti, solis virtutum armis accincti, gladio spiritus, adversus vitiorum dimicant acies, idonei bellatores sunt obluctantium hostium obtruncare cervices " (Cap. 6, MPL. 145, 490; cfr. anche dello stesso autore De communi vita clericorum, MPL 145, 503-512. Cfr. P. Damiani, V. CAPITANI, S. Pier Damiani e I'Istituto eremitico, in L'Eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII, Milano 1965, pp. 122-163).

L'accento sulla povertà è anche un pensiero paolino, non sconosciuto ai riformatori: "Niente abbiamo portato in questo mondo e niente senza dubbio possiamo portar via. Quando abbiamo dunque il nutrimento e di che vestirci, di questo contentiamoci. Ma quelli che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell'inganno e in molti desideri insensati e dannosi, che travolgono gli uomini nella rovina e nella perdizione. La cupidigia del denaro, infatti, è la radice di tutti i mali " (1 Tim. 6, 7-10a). Pier Damiani non non ne dubita, quando mette in evidenza che l'Ordo, lo stato dei chierici, è in primo luogo l'Ordo Canonicorum, cioè il ceto di coloro che vivono secondo una norma di vita basata sulla bibbia e sulla tradizione ecclesiastica, ed è, di conseguenza, in modo particolare 1'Ordo praedicantium. La base e la norma dei membri deve essere la "conversatio primitivae Ecclesiae", cioè l'imitazione della vita degli apostoli in "verbis et factis" (Cfr. ciò che Anselmo da Havelberg scrisse di S. Norberto: ad perfectionem apostolicae vitae verbo et exemplo informavit, MPL. 188, 1155). Secondo lui, questa vita apostolica veniva realizzata nell'ideale monastico, e di conseguenza egli faceva eccellere la vita monastica sopra quella clericale e sosteneva che il monaco ha gli stessi diritti, per quanto riguarda la predicazione e l'insegnamento, che il prete secolare, perché gli apostoli vivevano addirittura come monaci e non come canonici secolari (Apologeticus monachorum adversus clericos, MPL. 188, 1155; i testi della S. Scrittura ai quali riferisce, sono: Lc. IX, 3-4; Mt. X, 5. 10; Mc. VI, 8-10 e particolarmente Atti I. 14, 42-47; IV, 32-36; VI, 2-4). Simili appelli come quello di Pier Damiani, sia venuti da dentro che da fuori dei circoli clericali, portavano frutto e facevano nascere il desiderio d'una norma bene delineata.

Ci si mise alle ricerche consultando le collezioni patristiche come i Florilegia Patrum. Speciale attenzione cadde sulla vita e le gesta di S. Agostino, vescovo d'Ippona; il quale aveva introdotto per il suo clero una maniera di vita, propriamente basata su quel testo degli Atti degli Apostoli che descrive la vita comune professata dai primi ed intimi discepoli e seguaci di Cristo. Questa vita, da lui anche brevemente commentata, corrispondeva bene ai piani riformatori. Questa cosiddetta Regola di S. Agostino era però tanto andata in oblio, che si nota nei circoli canonicali, per esempio nella canonica di S. Rufo, una incertezza riguardo l'accettazione di una regola "sconosciuta" (Per quanto riguarda la storia e gli ultimi studi su questa Regola cfr. J. MOIS, op. cit. 216-265; U. DOMINGUEZ DEL VAL, La Regla de S. Autgustìn y los ultimos estudios sobre la misma, in Revista Española de Teologia 17 (1937), pp. 481-529; L. VERHEJEN, La Règle de Saint Augustin, I. Tradiction manuscrite, II. Recherches historiques, Paris 1967). La Regola di S. Agostino si presentò però molto adatta alla riforma canonicale, perchè metteva in rilievo i punti salienti: la vita comune basata sulla povertà ed annessa alla cura animarum.

Tramite la accettazione d'una regola, ed in particolare di questa regola, i sacerdoti-canonici-secolari diventarono canonici regolari: canonici con una norma di vita che seguiva un canone, cioè il canone scritturistico, ossia biblico. Inoltre quella norma era canonicale nel senso che era canonicamente approvata dalla Chiesa. L'accettazione della regola significava una perfezione della vita finora professata e venne perciò intitolata come la sublimatio o conversio; e coloro che l'accettavano vennero chiamati canonici conversi. Accettandola, si lasciò l'Ordo antiquus (la norma antica basata sui Decreta Patrum), l'Ordo patristicus, e si seguì da allora in poi l'Ordo novus, cioè opostolicus. I canonici riformati non accettavano la regola nella interpretazione monacale, perchè essi non desideravano essere considerati monaci. Secondo i circoli canonicali il monaco non apparteneva al clero; e l'opinione comune circa il 1000 era che il prete-monaco, ed ancor più il laico-monaco, era di un valore inferiore al prete-canonico ed allo stato clericale. Come prima conseguenza essi impedivano ai preti-monaci di entrare nel campo della vita apostolico-parrocchiale fuori delle abbazie. I monaci già animati dal nuovo ideale di vita attiva non erano d'accordo con queste limitazioni che si intendevano loro imporre; e una vivace e talvolta violenta polemica s'iniziò: ambedue le parti volevano qualificarsi come l'Ordo superior e dalle proprie concezioni derivavano delle conseguenze.

I principali scrittori (RUPERTO DI DEUTZ, Altercatio monachi et clerici, quod liceat monacho praedicare, MPL 170, 537-542; ROBERTO, Qua ratione monacorum ordo praecellit ordinem clericorum; ib. 663-668; UGO DA ROVEN, Dialogorum libri sex, in ultimo libro, ib.1219; ANONYMUS VICTORINUS, Dialogorum libri sex, de Vita vere aposlolica. ib. 611-664) che difendevano l'opinione monastica furono Ruperto di Deutz, Ugo da Roven, un certo Roberto con un Vittorino anonimo, il quale in una succinta frase, presa dalla prima lettera di S. Paolo ai cristiani di Corinto (15, 4) e da lui commentata, mise in rilievo i valori dei diversi "stati di vita": "Alia claritas solis, alia claritas lunae et stella a stella diffrt in claritate... ita alia est claritas monachi, alia est claritas canonici, alia claritas laici. Unde qui vivit ut bonus laicus, facit bene; melius est canonicus, peroptime qui est monachus" (ANONYMUS VICTORINUS, op. cit., MPL 170, 664). Altri invece, e specialmente fra i canonici regolari, non erano d'accordo con una tale gerarchia di "meriti". I moderati accettavano una certa ugualità tra loro, perché, come dicevano, ambedue gli Ordini (dei chierici e dei monaci) hanno lo stesso scopo, però lo raggiungono in modo differente. Il monaco cerca di vincere il mondo fuggendolo, il chierico addirittura accettando la lotta con il mondo, rimanendo in esso.

Il prete-monaco deve perciò lasciare al canonico l'amministrazione dei sacramenti. Un canonico non deve mai farsi monaco, eccetto che in caso di penitenza per una vita peccaminosa. Se qualcuno lasciasse per altri motivi l'istituto canonicale facendosi monaco, ma, pentendosi poi di questo passo, desiderasse rientrare nella canonica, egli deve occupare l'ultimo posto come un figlio prodigo che merita essere degradato. Questi moderati sono d'accordo nel ritenere che la sublimatio è un passo in avanti e che essa deve essere promossa; ma credono tuttavia che soltanto il canonico regolare, ed in particolare quello che è un esempio nella osservanza della povertà, meriti e debba essere il pastore delle anime (Fra gli altri: GERHOH DA REICHERSBERG, Liber de Aedificio Dei (cap. 3, 4 e 28), liber epistolaris ad Innocentium, II seu dialogus de eo quid distet inter clericos saeculares et regulares, MPL 194, 1178-1336; 1375-1426; ARNO DA REICHERSBERG, Scutum canonicorum, ib. 1493-1528; ANSELMO DA HAVELBERG, Liber de Ordine canonicorum regularium (modo speciali: cap. 25 e 36), Epistola apologetica pro Ordine canonicorum regularium, MPL 188, 1091-1118; 1119-1140; FILIPPO DI HARVENGT, MPL 203, 1771). La coscienza di una superiorità rispetto allo stato monacale sparisce fra i canonici soltanto verso la fine del secolo decimo secondo, quando in genere l'ideale monastico viene considerato come una vita più osservante e perciò superiore ad altre forme.

Un testimone di questa opinione conciliante è il vescovo di Lincoln, Ugo, che scrisse: "De excellentia vitae solitariae et dignitate heremiticae, nec non quod sanctorum canonum auctoritate et Sacrae Scripturae assertione et Sanctorum Patrum exemplo liceat unicuique ad arctiorem vitam transire".