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Percorso : HOME > Monachesimo agostiniano > Storia dell'Ordine > Magna Unio > L'età delle RiformeLA VITA EREMITICA
Innocenzo IV riceve i Carmelitani
LA VITA EREMITICA
Fra i canonici e i laici conversi, cioè i fedeli che si sentivano attirati ad una vita monacale, l'ideale della vita eremitica veniva realizzato in forme corrispondenti alle circostanze ed alle consuetudini in uso tra i frati minori e i frati predicatori (Un esempio di un tale sviluppo si trova nell'articolo: "Het kruishcrenideaal en de intensivering van de volkszielzorg in de dertiende eeuw, Het Oude Land van loon", 16 (1961), pp. 135-147). Volentieri i membri di tale rinnovamento accettarono il nome di "eremita".
Quando si usavano le parole: "eremita" "eremitico", "vita eremitica", non si dava ad esse il significato secondo la descrizione, per esempio, di Umberto de Romanis: "Ci sono dei religiosi, specialmente in alcuni territori d'Italia, che portano il nome di eremiti a causa del fatto che lasciano il mondo, abitano in eremi per realizzare la loro forma di vita, vivendo totalmente o in parte del loro mestiere e lavoro; non vivono come solitari, come prima in Egitto, ma in comunità, sebbene queste abbiano talvolta pochi membri, sotto un superiore e nella stessa casa" (Secondo L. OLIGER, Regulae tres reclusorum et eremitarum Angliae saec. XI1I-XIV, "Antonianum" 3 (1928), p. 166). Alla vita di tali eremiti è applicabile il programma contenuto in una canzone d'un trovatore: "Eremitae boni, in fide stabiles, /Qui semper fugiunt hominum facies, / Nisi solliciti pro mundo fierent / Et iram Domini prece mitescerent" (E. WERNER, op. cit., p. 79).
Lo stesso pensiero si trova anche nella formula usata per la professione di vita eremitica. Il vescovo consegna un vestito semplice di colore grigio ed esorta a non cercare di farsi notare in vestiti di lusso, ma ad astenersi dall'uso di biancheria di tela o lino e di calzature di cuoio, allo scopo di raggiungere la vita eterna: "Fratello, consegnando questo vestito eremitico, ti esortiamo a vivere tanto casto, semplice e santo nelle tue vigilie, digiuni e mortificazioni, nel tuo lavoro, nelle orazioni ed opere di misericordia, che tu raggiunga la vita eterna e la beatitudine celeste" (Citato da L. GOUGAUD, Ermites et reclus. Etudes sur d'anciennes formes de vie religieuse, Ligugé 1928, p. 7). Da questo segue che l'eremita di tale tipo, sia prete o monaco o laico (P. DOYÈRE, Erémitisme en Occident, "Dictionnaire de Spiritutalité", IV. pp. 953-982, e "Dictionnnaire de Droit Canonique", V, pp. 412-429 (con una amplissima bibliografia); lo stesso autore in diversi articoli ed in modo speciale: Complexité de l'Erémitisme, "La Vie Spirituelle", 87 (1952). pp. 243-254; J. LECLERQ, La crise du Monachisme aux XIe et XIIIle siècles, "Bollettino dell'Ist. Stor. Ital. per il M. E. e Arch. Muratoriano, 70 (1958), pp. 19-41), che vive secondo 1'Ordo eremiticus, ha soltanto uno scopo: la santificazione personale per mezzo d'una vita semplice ed austera nella solitudine o nella separazione dal mondo in comunità. La vita solitaria individuale venne soltanto concessa a uomini di carattere maturo; ai giovani venne sconsigliata per ragione di temibili conseguenze, aforisticamente indicate in un detto antico: "Jeune ermite, vieux diable".
La pratica di ritirarsi dal mondo si diffuse notevolmente nel secolo XII. Ciascuno assunse il nome generico di eremita. Questo aveva però nuovo significato. Gli eremiti, che si chiamavano spesso, nel Duecento: fratres, frati, ossia fratelli, professavano la vita vere apostolica, sebbene conservassero l'abito eremitico di colore grigio, come per esempio, gli eremiti d'Umbria (poi chiamati i frati minori), gli eremiti di Toscana, di Brettino e di Giovanni Buono. Il loro nome indica più la distanza dei loro monasteri dai centri urbani, la rottura con il mondo, che la santificazione personale tramite una vita solitaria. Essi invece accettavano la "vita attiva", si applicavano alla cura delle anime. Il cambiamento semantico della parola è stato notato anche in quel tempo; per esempio in un itinerario si legge sotto la voce: L'eremitaggio presso Chetwode: "Il popolo chiama questo luogo eremitaggio a causa della distanza e dell'isolamento, non perché ivi abitasse per certo tempo qualche eremita" (DICKINSON, op. cit., p. 143; cfr. anche DU CANGE, Glossarium Mediae et Infimae latinitatis, sotto le voci: "eremita" ed "eremus"); l'autore si distaccò allora dalla tradizione paltristica. La parola: "eremo" nell'antica lingua toscana ha lo stesso significato: eremo è una canonica nella campagna, è una fondazione monacale per la cura religiosa del vicinato. Tale eremo portava anche il nome di "cella", "prioratus", "rectoratus", e gli abitanti di esso venivano indicati come "eremiti", "frati" in servizio d'una chiesa di cui avevano accettato o ricevuto la custodia.
Erano sacerdoti, chierici con la cura delle anime d'una villa o di un vico o borgo, di una pieve o di un comune rurale (L. NANNI, La parrocchia studiata nei documenti lucchesi dei secoli VIII-XIII, Roma 1948, pp. 8-9). Nel Duecento tali eremi venivano sempre di più accettati da "canonici" che desideravano una vita più contemplativa: questi introdussero una osservanza stretta del loro ordo, cioè tenore di vita, secondo l'ideale della "sublimatio", basato sulla Regola di S. Agostino. Fecero la stessa cosa anche "monaci" di consuetudine benedettina o di quelle localmente professate, che cercavano una pratica di "vita" che poi venne indicata col nome: "mixta". In modo speciale tali eremi sono stati eretti nell'Italia Centrale e nella Valle Padana. Tra loro esistette una grande diversità per cause di carattere locale, e perciò mancava nel movimento una centralizzazione che avrebbe dato unità e avrebbe raccolto le forze per ottenere una migliore efficacia. Questo gran numero e le diversità di valore secondario non sembravano utili alla Chiesa, la quale era in pieno sviluppo verso una centralizzazione imposta dal primato culturale-morale che si affermava parallelamente a quello nelle istituzioni chiericali e monastiche. L'unificazione di questa corrente eremitico-attiva fu uno dei principali punti nel programma ecclesiastico del Duecento.
Le direttive vennero promulgate da papa Innocenzo III nei canoni 12 e 13, del concilio di Laterano del 1215. Questi decreti prescrissero l'organizzazione di tali fondazioni e la giurisdizione su di esse da parte dei vescovi diocesani. Venne indicato che ogni tre anni si celebrasse un "capitolo generale" secondo le consuetudini cistercensi; che i decreti in esso accettati dalla maggioranza ed approvati dai quattro presidenti del capitolo fossero obbligatori per tutti; che dei visitatori venissero nominati per visitare i conventi ed eremi, li riformassero secondo le esigenze e riferissero al vescovo diocesano se avessero trovato per caso dei superiori inadatti. (Al vescovo spettava il controllo supremo; egli aveva la sorveglianza, l'ispezione e l'autorità). Ed in fine i decreti del IV Concilio lateranense prescrissero che nuovi ordini potessero formarsi soltanto dopo l'approvazione della Regola e delle Costituzioni da parte della Sede Apostolica. Decreti che negli animi seguenti si moltiplicarono e vennero perfezionati, in modo particolare negli anni 1235-37 sotto il pontificato di Gregorio IX. Questi prescrisse un capitolo annuale, aumentò il potere dei visitatori e desiderò l'introduzione della vita comune sulla base della povertà e della clausura. Decretò che nessuno potesse fare la professione prima di 18 anni compiuti e proibì ai monaci solitari di reggere un convento o chiesa rurale (COUSIN, op., cit., pp. 368-369) . La curia papale introdusse l'unificazione, l'organizzazione e l'incorporazione del nuovo movimento secondo le direttive contenute nella Carta Charitatis, tanto spesso applicate dai papi e dai loro legati.
Gli eremiti del Duecento, cioè i membri della nuova corrente nella Chiesa, sono da porsi in relazione con ha mancanza di cura religiosa per i semplici fedeli; una mancanza denunciata da movimenti laicali, come quelli dei patarini, dei catari, dei valdesi, ecc. Gli eremiti di vita mista cercavano luoghi eremitici, però popolati, per portare assistenza religiosa alla gente che vi viveva quasi senza personale della Chiesa. Le parole: eremo ed eremita venivano allora più applicate al carattere eremitico, per così dire, del luogo dove un gruppo d'uomini religiosi viveva in comunità, che alla vita eremitica nel senso patristico. Gli eremiti che formavano tali comunità, provenivano sia dall'ambiente laicale e monacale che da quello canonicale. Questi "nuovi" eremiti avevano consuetudini particolari e locali, e si svilupparono poi nel Duecento, fra altri in "eremiti neri" con la Regola di S. Agostino, che vennero uniti in un solo ordine giuridico. Essi ebbero la loro culla nei territori settentrionali del Patrimomium Petri, nella Marca Anconitana, nella Toscana e nella Lombardia e si estesero presto oltre le Alpi in Spagna, in Inghilterra, in 'Ungheria e in Germania. In questo "nuovo" senso usiamo le parole: eremita, eremo etc. come emerge dalle ricerche di S. Bellandi, N. Concetti, E. Esteban, S. Lopez e di qualche altro scrittore, che occasionalmente hanno trattato il nostro periodo prima del padre F. Roth, a cui dobbiamo molte notizie e correzioni e che ha raccolto tanti documenti intorno alla storia di S. Agostino, che fino al 1963 portava il nome originale: Ordo Fratrum Eremitarum S. Augustini.
Spesso però correggeremo anche in punti essenziali i dati da loro forniti (S. BELLANDI, L'Ordine Agostiniano, BSA 3 (1926), pp. 10-13; Documenti di vita agostiniana anteriori al 1256, BSA 1 (1931) pp. 39-42, 67-72, 99-101; 2 (1925), pp. 35-36, 68; 3 (1926), pp. 99-103; N. CONCETTI, De titulo Ordinis commentarium, AA 1 (1905), pp. 274-276; E. ESTEBAN, Esistenza dell'Ordine Agostiniano... prima dell'Unione del 1256, BSA 5 (1928), pp. 33-38; F. ROTH, Cardinal Richard Annibaldi. First Protector of the Augustinian Order, Estratto da "Aug.", Leuven 1954 ed in "Cor Unum", 4 (Würzburg 1959), p. 20ss., 44ss e 76ss. Una bibliografia quasi completa offre K. ELM, Neve Beitrüge zur Geschichte des Augustiner-Eremitenordens in 13 und 14 Jahrhundert Ein Forschungsbericht, "Archiv für Kulturgeschichte", 42 (1960), pp. 357-387. S. Lopez, Apuntes historicos sobre la provincia augustiniana de Umbria, "Archivo Agustiniano", 20 (1933). fasc. 2, pp. 113-119; Diplomas pratentes agustinianos, "Archivi d'Italia", Serie II, 1 (1933), pp. 128-137; D. KNOWLES, The religiosus Orders in England, vol, I, Cambridge 1950, pp. 19-203 e R. KUITERS, "Licet Ecclesiae Catholicae", commentario, "Aug." 6 (1956), pp. 14-36; A. ZUMKELLER, Das Mönchtum des heiligen Augustinus, Würzburg 1968, p. 132).