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CICLo AGOSTINIANo dI Carlisle

Cassiciaco: il mal di denti

Cassiciaco: il mal di denti di Agostino

 

 

MAESTRO DI CARLISLE

(1484-1507)

Cattedrale di Carlisle

 

L'episodio del mal di denti a rus Cassiciacum

 

 

 

Il soggetto è indicato con chiarezza: No worde for tothwark here mygth he say but wrate to the pepil for hym to pray. Agostino è inginocchiato davanti a un altare in una cappella. Il mal di denti è evidenziato da un fazzoletto che si porta alla guancia. Il suo viso esprime sofferenza, non riesce a parlare e per questo ha invitato gli amici a pregare per lui e con lui. Un libro è aperto sull'altare: dietro di lui si nota la madre Monica e poi cinque amici. Un analogo episodio si trova anche nel programma iconografico di Jacques Legrand e nella Historia Augustini. La scena del mal di denti sarà abbandonata dal XV secolo.

 

 

12. Quando avrò distillata in cuore tutta la memoria di quei liberi giorni? Ma non ho dimenticato e non tacerò l'asprezza del tuo staffile e la furia mirabile della tua misericordia. Mi tormentavi in quei giorni con il male ai denti, e quando fu tanto forte che non ero più in grado di parlare, mi affiorò in cuore l'idea di invitare tutti i miei amici presenti a scongiurarti in vece mia, Dio di ogni salute. E lo scrissi su una tavoletta e la diedi loro da leggere. Avevamo appena piegate le ginocchia in atteggiamento di supplica, che il dolore era sparito. E quale dolore! E come? Ne fui spaventato, lo confesso, mio Signore e mio Dio. In vita mia non avevo provato mai nulla di simile.

E questi cenni della tua potenza si insinuarono nel profondo di me stesso, e nella gioia della fede resi lode al tuo nome. E quella stessa fede non mi lasciava stare senza angoscia per i peccati commessi in passato, perché ancora non mi erano stati rimessi con il tuo battesimo.

Agostino, Confessioni 9, 4, 12

 

 

La felice vita di Cassiciaco

4.7. E venne il giorno in cui finalmente sarei stato di fatto libero dall'impiego alla scuola di retorica, come già lo ero nel pensiero. Venne: me ne sbrogliasti la lingua, come già me ne avevi sbrogliato il cuore, e già in viaggio verso la campagna con tutti i miei amici al colmo della gioia io ti rendevo grazie. Ciò che feci laggiù, scrivendo, al tuo servizio - ma in un modo che ancora sa di scuola della superbia, come l'ansito di chi si ferma a prender fiato - lo attestano i libri delle discussioni coi presenti e con me stesso, solo davanti a te; mentre quelle che ebbi con Nebridio assente sono attestate dalle lettere relative. E quando mi basterà il tempo per evocare sulla pagina tutti i grandi privilegi che ci accordasti a quel tempo, impaziente come sono di passare ad altri e più grandi. Perché già la memoria mi richiama, e mi è dolce, Signore, confessarti gli interni colpi di sperone con cui mi hai domato, e il modo in cui mi hai spianato abbassando i monti e i colli dei miei pensieri, e raddrizzando i miei sentieri tortuosi e smussando le mie asperità. E confessarti il modo in cui hai piegato Alipio, fratello del mio cuore, al nome del tuo unigenito, nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, che dapprima non voleva degnarsi di menzionare nei nostri scritti. Preferiva il profumo dei cedri delle scuole, ormai abbattuti dal Signore, a quello delle erbe mediche che crescon nelle chiese, buone contro i serpenti.

- 8. Che sospiri Dio mio, quando leggevo i salmi di Davide, queste canzoni di fede! Musica della devozione, di fronte a cui si sgonfia ogni superbia... Ancora principiante nel tuo autentico amore ero, catecumeno ancora e in tempo di vacanza, in campagna, con Alipio catecumeno anche lui e mia madre che non si staccava da noi: con le sue maniere di donna e la sua maschia fede, la pace della sua età e il suo amore di madre, con tutta la sua cristiana devozione. Che sospiri mettevo in quei salmi e di che incendio bruciavo per te, che voglia di recitarli, se avessi potuto, in faccia al mondo intero, alla boria del genere umano! E li si canta, per il mondo intero, non c'è chi possa sfuggire alla tua vampa. E come era violento e doloroso e amaro lo sdegno che provavo verso i manichei, e poi di nuovo la pietà per loro, che ignoravano quei sacri misteri e quei farmaci e infierivano come pazzi contro una medicina in cui avrebbero ritrovato la salute! Avrei voluto allora che fossero lì, a mia insaputa, e mi guardassero in volto e mi ascoltassero leggere il salmo quarto nella pace di quel ritiro e nei miei toni di voce sentissero l'effetto che avevano su di me quelle parole: Ti ho invocato e mi hai ascoltato, Dio della mia giustizia; ero angosciato e m'hai reso ampio respiro.Abbi pietà di me Signore, ascolta se ti prego. Fossero stati lì ad ascoltarmi! Ma a mia insaputa, perché non credessero che per loro dicessi le parole che intercalavo a quelle del salmo. E non le avrei dette in effetti, o non con quel tono, se avessi sentito d'esser visto o ascoltato da loro; e se anche le avessi dette non le avrebbero accolte così come le dicevo a me stesso alla tua presenza, come mi venivano in quella nostra dimestichezza dal fondo del cuore.

- 9. Rabbrividii di paura e al tempo stesso di febbrile speranza e di gioia per la tua indulgenza, Padre. E questi opposti sentimenti si aprivano un varco attraverso gli occhi e la voce quando arrivavo al punto in cui il tuo spirito buono dice rivolto a noi: Figli dell'uomo, fino a quando questo cuore pesante? Perché vi attira il vuoto e l'illusione? Certo, avevo amato il vuoto e cercato l'illusione. E tu, Signore, avevi già riempito di gloria il tuo diletto, richiamandolo dai morti e facendolo sedere alla tua destra, affinché dal cielo mantenesse la sua promessa di inviare il Paracleto, lo spirito di verità. E già l'aveva inviato, ma io non lo sapevo. L'aveva già mandato, perché già l'aveva glorificato la sua resurrezione dai morti e la sua ascesa al cielo. Prima, invece, non c'era ancora il dono dello spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. Grida il profeta: Fino a quando questo cuore pesante? Perché vi attira il vuoto e l'illusione? E sappiate che il Signore esalterà il suo diletto. Grida fino a quando, grida sappiate, e io per tanto tempo avevo amato il vuoto e cercato l'illusione, e non sapevo, ed è per questo che tremai a sentirlo: eran parole rivolte a persone come me, come io ricordavo d'esser stato. In quei fantasmi che avevo preso per veri non c'era che vuoto e illusione. E l'angoscia della mia memoria risuonava a lungo, profonda e forte, nella mia voce. Magari l'avessero udita quelli che tuttora amano il vuoto e cercano l'illusione: forse ne sarebbero rimasti sconvolti al punto di vomitare tutto questo, e tu li avresti ascoltati levare a te il loro grido, perché di vera morte corporale è morto per noi chi intercede per noi presso di te.

- 10. Leggevo: Fremete e non peccate. E come ne ero scosso, Dio mio, io che avevo appena appreso a fremere d'ira sulle colpe passate, per non peccare più in futuro, e d'ira giusta, perché non era la natura estranea di un popolo di tenebra a peccare in me, come dicono quelli che non s'infuriano con se stessi e così ammassano per sé un tesoro d'ira per il giorno dell'ira, in cui sarà svelato il tuo giusto verdetto! E ormai non eran più fuori di me i miei beni, non li cercavo più con gli occhi della carne nella luce di questo sole. Perché chi cerca gioia fuori di sé facilmente svapora e si sperde nelle cose visibili del tempo, e il pensiero affamato non arriva che a lambirne le immagini. Magari chiedessero, spossati dalla fame: chi ci mostrerà qualcosa di buono? Ascoltino la nostra risposta: stampata è in noi la luce del tuo volto, Signore. Non siamo noi infatti il lume che illumina ogni uomo venuto a questo mondo, ma da te abbiamo luce, finché saremo luce in te noi che pure un tempo eravamo oscurità. O se nel loro interno vedessero l'eterno che io gustavo! E fremevo di non poterglielo mostrare, se fossero venuti da me col loro cuore che s'affaccia agli occhi e ti volta le spalle, chiedendo: chi ci mostra qualcosa di buono? Perché là dove m'ero infuriato con me stesso, nel segreto del mio letto, dove esaminavo con dolorosa attenzione la mia coscienza, dove ammazzavo e ti sacrificavo la mia vecchiezza, e avevo incominciato la meditazione sperando in te per la mia rinascita, là per la prima volta sentii la tua dolcezza e il dono della tua contentezza nel cuore. E uscivo in grandi esclamazioni, che dentro erano riconoscimenti: e non volevo più moltiplicarmi nei beni terreni, divorando il tempo e dal tempo divorato, perché possedevo nella semplicità dell'eterno altra sorta di grano e vino e olio.

- 11. E il verso successivo strappava al mio cuore un alto grido: In pace! Nell'identico! E quelle parole: mi addormenterò e prenderò sonno... Chi ci resisterà quando si attuerà la parola che fu scritta: la morte è stata assorbita nella vittoria? E tu veramente sei l'identico, tu che non sei soggetto a mutamento e in te è il riposo senza più memoria di fatica, perché non c'è un altro con te e non c'è moltitudine di cose da cercare fuori di te, ma tu, Signore, nella speranza mi hai rifatto uno. Leggevo e in quel mio fuoco non trovavo il modo di agire su quella gente assordata dalla morte in mezzo a cui ero stato, peste e cane dal latrato amaro e cieco contro il miele celeste delle tue dolci scritture, luminose del tuo lume. E il pensiero dei loro nemici mi nauseava fino a consumarmi.

- 12. Quando avrò distillata in cuore tutta la memoria di quei liberi giorni? Ma non ho dimenticato e non tacerò l'asprezza del tuo staffile e la furia mirabile della tua misericordia. Mi tormentavi in quei giorni con il male ai denti, e quando fu tanto forte che non ero più in grado di parlare, mi affiorò in cuore l'idea di invitare tutti i miei amici presenti a scongiurarti in vece mia, Dio di ogni salute. E lo scrissi su una tavoletta e la diedi loro da leggere. Avevamo appena piegate le ginocchia in atteggiamento di supplica, che il dolore era sparito. E quale dolore! E come? Ne fui spaventato, lo confesso, mio Signore e mio Dio. In vita mia non avevo provato mai nulla di simile. E questi cenni della tua potenza si insinuarono nel profondo di me stesso, e nella gioia della fede resi lode al tuo nome. E quella stessa fede non mi lasciava stare senza angoscia per i peccati commessi in passato, perché ancora non mi erano stati rimessi con il tuo battesimo.

5.13. Trascorse le vacanze vendemmiali diedi le mie dimissioni - se ne trovassero un altro di venditore di parole per i loro studenti, i milanesi, dato che io da un lato avevo scelto di servire te e dall'altro per le mie difficoltà di respirazione e il dolore al petto non sarei stato in grado di riprendere l'insegnamento. E informai per lettera il tuo vescovo, quell'uomo divino che era Ambrogio, dei miei passati errori e della mia decisione attuale, per ottenerne un consiglio su quale dei tuoi libri leggere in primo luogo per prepararmi e dispormi a ricevere tanta grazia. Ma lui mi invitò a leggere il profeta Isaia, credo perché preannuncia più apertamente di tutti gli altri il Vangelo e la chiamata dei gentili. Io però cominciai a leggere senza capire e pensando che fosse tutto come l'inizio lo lasciai per tornarvi una volta che fossi più pratico del linguaggio del Signore.

6.14. Poi quando venne il momento di dare il mio nome lasciammo la campagna e ritornammo a Milano. Alipio decise di rinascere anche lui in te, con me. S'era già rivestito dell'umiltà che si addice ai tuoi sacri misteri, e col perfetto dominio che aveva sul suo corpo non si peritava di camminare a piedi nudi sulla terra ghiacciata d'Italia, con audacia rara. Prendemmo con noi anche Adeodato, il ragazzo nato da me, dalla mia colpa.