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Percorso : HOME > Monachesimo agostiniano > Teologia dell'Ordine > MarianiTeologia dell'Ordine: SCRITTORI POLITICI AGOSTINIANI DEL SECOLO XIV
Bonifacio VIII
di Manno Bandini
(1287-1316)
SCRITTORI POLITICI AGOSTINIANI DEL SECOLO XIV
di Ugo Mariani
ed. Libreria Editrice Fiorentina, 1927
BONIFACIO VIII (1294-1303)
Dieci giorni dopo l'abdicazione di Celestino V, secondo le disposizioni gregoriane ristabilite dal papa-eremita, il conclave si radunò nel Castelnuovo di Napoli il 23 dicembre 1294; fu brevissimo, perché già il 24 si raggiunse la maggioranza dei due terzi e fu eletto il cardinale Benedetto Caetani, che assunse il nome di Bonifacio VIII. Ci fu probabilmente simonia; Dante ne era certo, categorico come fu nel destinare Bonifacio a far compagnia tra i simoniaci a Niccolò II (Inferno, XIX, 52-57) e mettendo in bocca a Guido da Montefeltro l'espressione «lo principe de' novi Farisei» (Inferno, XXVII, 85).
Chiaramente si era accordato con i suoi elettori da quando aveva «consigliato» Celestino V ad abdicare. Nato nel 1235 ad Anagni, apparteneva alla nobile famiglia dei Caetani, discendente da Gelasio II, una famiglia che però solo con questo papa era destinata a raggiungere un'enorme importanza in seno allo Stato della Chiesa con l'acquisto di grandi proprietà terriere e notevoli mezzi finanziari. Esperto di diritto, grazie agli approfonditi studi a Todi e Bologna, aveva fatto una rapida carriera ecclesiastica con missioni di fiducia presso le corti di Francia e Inghilterra, entrando a far parte del collegio dei cardinali nel 1287. Come primo atto del suo pontificato, egli si affrettò a riportare a Roma la residenza papale da Napoli, per sottrarre la Curia all'influsso di Carlo II, che aveva chiaramente condizionato il suo inesperto predecessore. Per questo Bonifacio VIII dichiarò nulle le decisioni affrettate prese da Celestino V, pur riservandosi di condurre a buon fine le trattative già avviate dall'Angioino con Giacomo d'Aragona per il recupero della Sicilia.
Bonifacio VIII fu incoronato in S. Pietro il 23 gennaio 1295 in un'atmosfera di grandiosa sontuosità, con la cornice di tutti i nobili romani e la presenza del re Carlo e suo figlio Carlo Martello. Ma su quella fastosa cerimonia incombeva minacciosa, pur nella sua umiltà, l'ombra di Celestino V; probabilmente Bonifacio non si sentiva tranquillo finché lo sapeva libero nell'eremo sul Morrone. Qualcuno avrebbe sempre potuto insinuare che il cardinale Caetani avesse fatto pressione su quel «povero cristiano» spingendolo ad abdicare; voci in tal senso avrebbero fatto presto a circolare, accreditate dai cardinali francesi contrari a Bonifacio VIII, fino a sostenere nulla quella bolla di abdicazione. Era meglio soffocare ogni sospetto e far presente all'ingenuo eremita che «un papa abdicatario non aveva più alcun diritto di essere libero», facendogli intendere, secondo quanto ipotizza il Gregorovius, «che i doveri della pietà religiosa esigevano dopo la rinuncia alla tiara, quella della libertà». A comunicare questo messaggio si prestò in pieno Carlo II, con un atto di cortese vassallaggio, al quale invano Pietro da Morrone cercò di sottrarsi con la fuga, restio ovviamente ad espletare certi estremi «doveri» inventati e perversamente impostigli da Bonifacio VIII. Come già ho ricordato nella sua biografia, catturato il 16 maggio 1295 dal connestabile del regno, Guglielmo l'Estendard, e consegnato al papa, avrebbe trovato la morte nella rocca-prigione di Fumone. Il sospetto che egli sia stato assassinato per ordine di Bonifacio resta, e a lungo se ne è sempre discusso senza però giungere ad una conclusione certa, in una situazione che ricalca per molti aspetti quella verificatasi più di sette secoli prima con i pontefici Silverio e Vigilio.
Ma in ogni caso la prigionia di Celestino V, certamente voluta da papa Caetani, è già di per sé una colpa gravissima assolutamente inconfutabile, che da sola condanna questo pontefice. Una volta messo in carcere Celestino V, comunque Bonifacio VIII si sentì più sicuro sul trono e si affrettò a ripagare a Carlo il favore. Il 20 giugno 1295 Giacomo II d'Aragona con la pace di Anagni rinunciava ai diritti sulla Sicilia a favore della Chiesa, che la riassegnava a Carlo II. Ma il passaggio delle consegne non ci fu, perché i Siciliani non vollero rinunciare alla loro autonomia e riconobbero come unico signore Federico, già governatore dell'isola da quando il fratello Giacomo II regnava in Aragona. Il 25 marzo del 1296 veniva incoronato re nel duomo di Palermo; in pratica la politica pontificia si avviava ad una sconfitta, che fu sanzionata ufficialmente nella pace di compromesso firmata nel 1302 a Caltabellotta tra Roberto, figlio di Carlo II, e Federico che, vita natural durante, otteneva dalla Chiesa la Sicilia come feudo col titolo di re di Trinacria. Ma in realtà l'isola non fu più restituita agli Angioini, legata agli Aragonesi come avamposto della futura espansione spagnola nel Mediterraneo, che il papato non avrebbe mai potuto frenare.
L'episodio della Sicilia non costituisce comunque un caso a sé nella storia delle relazioni tra la Chiesa e gli Stati; non è l'unico smacco subito da Bonifacio VIII nel contesto europeo. Egli era destinato a chiudere il bilancio di simili relazioni in modo umiliante per lui e la Chiesa, non per debolezza o inabilità personale, ma per l'anacronismo dell'ideologia da cui si lasciò guidare. Attraverso una serie di bolle appare infatti chiaro come, secondo Bonifacio VIII, la sfera del potere ecclesiastico dovesse dilatarsi fino ad assorbire quello temporale dei principi, perché la sovranità papale non poteva conoscere limiti, essendo «plenitudo potestatis» per la sua origine divina.
Era una concezione tutta medievale spinta alle estreme conseguenze logiche, in un'epoca in cui però il Medio Evo volgeva al tramonto e si profilavano le grandi nazioni. Tutto cominciò con la pubblicazione della bolla Clericis laicos del 25 febbraio 1296; proibiva ai laici, sotto la minaccia di scomunica e interdetto, d'imporre qualsiasi tassa e imposta agli ecclesiastici senza il consenso della Chiesa di Roma, e inoltre vietava agli ecclesiastici, sotto uguali pene, di versare tali contributi. La bolla stigmatizzava su un piano storico l'ostilità tra laicato e clero e «si impostava così la grande questione», secondo le parole del Seppelt, «se oltre al papato, padrone assoluto dei beni della Chiesa in virtù del suo potere giurisdizionale, spettava anche allo Stato un diritto autonomo di esazione tributaria dalle sue chiese e dai conventi». Per lo Stato era in gioco addirittura la sua stessa esistenza. In Germania il nuovo re Adolfo di Nassau, temendo un'opposizione di alcuni principi e vescovi alla propria candidatura imperiale, non si oppose all'applicazione della bolla; in Inghilterra Edoardo III non l'avrebbe voluto tenerne conto, ma dovette arrendersi di fronte alla ferma opposizione dei vescovi al pagamento di nuove imposte.
In Francia le cose presero un'altra piega; il re Filippo il Bello rispose alla bolla con due editti nei quali si vietava a clerici e laici l'esportazione di oro, argento e preziosi, e proibiva agli stranieri la residenza nel suo regno, il che significava l'impossibilità per la Curia di inviare oltralpe i legati per la riscossione dei tributi. Il papa cominciò ad essere malvisto in Francia, dove circolavano libelli contro di lui; i vescovi, come i cardinali in conclave, erano perlopiù ostili al suo comportamento, e questo poteva rinfocolare sentimenti di autonomia in seno alla Chiesa francese. Allora Bonifacio si rese conto di dover venire ad un accomodamento della legge emanata nella Clericis laicos; autorizzò pertanto Filippo il Bello a riscuotere le imposte del clero in caso di estrema necessità, anche senza consultazione papale.
Il re da parte sua revocò gli editti e la pace tra Francia e papato fu ulteriormente concretizzata dalla solenne canonizzazione di Luigi IX, nonno di Filippo, il 17 agosto del 1297. Questo improvviso mutamento nei rapporti con la Francia, con un cedimento in pratica umiliante della Chiesa di fronte a uno Stato, si spiega con la precaria situazione in cui venne a trovarsi il papa a Roma per il carattere dispotico del suo potere. Infatti si era inimicato molti membri dell'aristocrazia romana e in particolare i Colonna; i due cardinali di questa famiglia, Giacomo e Pietro, lo criticarono apertamente in Curia dichiarando che la sua elezione non era legittima perché non valida, a sua volta, l'abdicazione di Celestino V. Si erano fatti promotori di un'aspra opposizione di una parte del clero e del popolo di Roma e della Campagna circostante, trovando sostegno negli Spirituali francescani; portavoce di quest'ultimi era Jacopone da Todi, che in una delle sue veementi laudi arrivò a chiamare il papa «novello anticristo». La lotta si concretizzò il 10 maggio 1297 nella sottoscrizione di un memoriale, il cosiddetto «manifesto di Lunghezza», da parte dei Colonna e di diversi Spirituali, che dichiarava decaduto il pontefice e intimava ai fedeli di negargli l'obbedienza.
La reazione di Bonifacio fu violenta e tempestiva; i due cardinali furono destituiti, con un'apposita bolla che sottolineava gli oltraggi della loro «dannata stirpe e del loro dannato sangue», che avrebbe voluto sterminare «perché essa sollevava in ogni tempo il suo capo pieno di superbia e di disprezzo». " Alla bolla i due cardinali reagirono con un nuovo memoriale, protestando per l'ingiusta condotta del papa; Bonifacio VIII da parte sua ordinò la confisca dei loro beni. In effetti i Colonna speravano in un intervento di Filippo il Bello, ma il re non se la sentì di complicare la situazione dei rapporti con Roma, dal momento che il papa lo aveva in fondo accontentato sulla questione dei tributi ecclesiastici.
Le rocche dei Colonna caddero una dietro l'altra: Zagarolo e Palestrina furono distrutte. Jacopone fu imprigionato in un convento e scomunicato; solo dopo la morte di Bonifacio sarebbe stato riabilitato. I due cardinali Colonna, scomunicati, furono espulsi dallo Stato della Chiesa e ripararono presso Filippo, alla cui corte avrebbero seguitato a tramare contro il papa; i beni confiscati ai Colonna vennero divisi tra i Caetani e i loro tradizionali nemici, gli Orsini. Roma raggiunse una pace apparente; e in questo clima di armistizio Bonifacio VIII decise di celebrare il primo giubileo della storia. La bolla con cui fu indetto l'Anno Santo è del 22 febbraio 1300, la Antiquorum habet fidem; essa decretava un'indulgenza plenaria per tutti coloro che nell'anno in corso e in ogni futuro centesimo anno avessero visitato le basiliche di S. Pietro e S. Paolo a Roma. L'avvenimento fu veramente eccezionale: tutti i cronisti del tempo concordano nel riferire l'afflusso a Roma di un enorme numero di pellegrini.
Villani ne calcolò duecentomila. Di pellegrini in massa a Roma parla anche Dante, una prima volta per la «Veronica» e una seconda per il giubileo; in un sonetto della Vita Nova (XL, 24) che inizia:
Deh preregrini, che pensosi andate,
forse di cosa che non v'è presente,
venite voi da sì lontana gente,
com'a la vista voi ne dimostrate
e nell' Inferno, rievocando l'afflusso di un «esercito molto», a significare la continua processione di gente che entrava e usciva dalla città (XVIII, 28 e 31-33):
che dall'un lato tutti hanno la fronte
verso 'l castello e vanno a Santo Pietro;
dall'altra sponda vanno verso il monte.
L'avvenimento costituì per Bonifacio VIII, a parte gli abbondanti proventi finanziari derivanti dalle offerte e dall'incremento turistico, un rafforzamento del proprio prestigio scosso dalle recenti lotte con i Colonna e dalle mortificanti insinuazioni rivolte alla legittimità del suo pontificato. Il giubileo, in questo senso, servì a rinvigorire in lui la consapevolezza dell'ostentato primato tra i sovrani della terra: «in quei giorni poté assaporare nella sua pienezza il senso della propria potenza quasi divina» come nota il Gregorovius, vedendo «affluire a migliaia da tutte le parti del mondo, pellegrini che giungevano fino al suo trono per gettarsi nella polvere davanti a lui come di fronte a un essere soprannaturale». Mancarono in verità tra i pellegrini i grandi sovrani, a parte il principe Carlo Martello, ma Bonifacio non ci badò, recitò in pieno la sua parte tanto da mostrarsi più volte ai «romei» nello splendore delle insegne imperiali, esclamando: «lo sono Cesare, io sono l'imperatore».
E commenta il Seppelt: «Egli voleva riunire nelle sue mani ambedue le spade del potere spirituale e temporale, e non voleva riconoscere come la sua reale potenza fosse illusoria». Tutto ciò però si evidenziò, appena terminato l'Anno Santo, nella lotta che ricominciò con la Francia. Infatti anche Filippo il Bello impersonava un concetto nuovo di sovranità: «non riconosceva nessuno al di sopra di sé», come nota il cronista Pierre Dubois, e aspirava ad una posizione di preminenza in Europa, senza contare che «nel suo regno egli si considerava imperatore». Non a caso dal 1299 aveva stretto un'alleanza di amicizia e di pace con Alberto d'Asburgo, nuovo re di Germania, accusato però apertamente dal papa di aver assassinato Adolfo di Nassau e invitato a comparire a Roma per giustificarsi del delitto di lesa maestà. Un sovrano così cosciente della propria potenza e così chiaramente anticleri. cale come Filippo non poteva non farla da padrone anche nei confronti della Chiesa francese, con usurpazioni di beni ecclesiastici, che portarono a un nuovo conflitto tra lui e Bonifacio VIII. Il 4 dicembre 1301 il papa con la bolla Salvato, Mundi abolì i privilegi concessi al re, di cui questi aveva abusato, e il giorno seguente in un'altra bolla, Ausculta fili, convocò per il 10 novembre dell'anno seguente a Roma l'episcopato francese insieme a Filippo per un concilio, nel quale si definissero una volta per tutte i rapporti tra Stato e Chiesa. In quest'ultima bolla Bonifacio esponeva chiaramente il concetto che solo il papa era stato posto da Dio al di sopra di qualsiasi sovrano, per cui Filippo non poteva presumere di non avere alcun superiore; egli era sottomesso al papa, col quale doveva discolparsi.
Filippo fece diffondere in Francia un riassunto delle due bolle, in gran parte deviante dagli originali, e per rafforzare il fine tendenzioso d'inasprire l'opinione pubblica contro il papa, mise in circolazione una sua lettera di risposta a Bonifacio, in realtà mai inviata a Roma, nella quale si dichiarava che il re, nelle cose temporali, non era suddito di nessuno. Nell'aprile 1302 Filippo riuniva poi a Parigi gli Stati Generali che approvarono il suo comportamento; venne redatta nell'occasione una lettera al papa approvata all'unanimità, e quindi anche dal clero, nella quale si protestava per l'atteggiamento offensivo di Bonifacio verso il re di Francia, che da parte sua proibiva all'episcopato francese di partecipare al concilio a Roma. Ciononostante trentanove vescovi francesi andarono ugualmente a Roma e vennero poi puniti da Filippo con la confisca dei beni; frutto dell'assemblea fu in pratica la famosa bolla Unam Sanctam, emanata il18 novembre 1302. Essa ribadiva in termini dogmatici che «nella potestà della Chiesa sono distinte due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa, quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote», perché «la potestà spirituale deve ordinare e giudicare la potestà temporale». Pertanto «chi si oppone a questa suprema potestà spirituale, esercitata da un uomo ma derivata da Dio nella promessa di Pietro, si oppone a Dio stesso.
È quindi necessario per ogni uomo che desidera la sua salvezza assoggettarsi al vescovo di Roma». Per tutta risposta Filippo convocò al Louvre il 12 marzo 1303 il suo consiglio di Stato, nel quale Guglielmo di Nogaret espose per la prima volta delle accuse circostanziate contro il papa, confortate dal memoriale dei cardinali Colonna presenti a Parigi; Bonifacio era ritenuto papa illegittimo, eretico e simoniaco, per cui il re si sentì autorizzato a convocare un concilio generale a Parigi, che in pratica sarebbe stato un vero e proprio processo contro il papa. Occorreva però la presenza di questi all'assemblea, per cui Guglielmo di Nogaret ricevette dal re l'incarico segreto di arrestarlo e condurlo a Parigi. Bonifacio VIII si rese conto che la situazione precipitava e si affrettò a comunicare con uno scritto a Filippo di essere incorso nella scomunica per aver impedito all'episcopato francese di recarsi a Roma per il concilio; era in realtà un modo per prendere tempo in attesa degli eventi. Comunque il latore dell'epistola fu arrestato per ordine del re e la lettera non ottenne alcuno scopo. Il papa cercò allora di guadagnarsi l'appoggio di Alberto d'Asburgo; si conciliò con lui e in un concistoro del 30 aprile lo riconobbe re di Germania, nonché monarca sovrano di tutti i re della terra, in previsione di una sua incoronazione imperiale. Era un modo efficace per spezzare l'alleanza franco-tedesca, e in effetti Alberto promise solennemente al papa protezione e difesa contro tutti i suoi nemici; ma poi, al momento opportuno, questa promessa non ebbe una pratica attuazione.
A metà giugno al Louvre si ebbe una nuova assemblea degli Stati Generali, una sorta di istruttoria contro Bonifacio VIII; sostituiva nella pubblica accusa il Nogaret, partito per Roma nella missione segreta, il suo amico Guglielmo di Plasian. Il papa fu accusato di essere sodomita e assassino di Celestino V, di negare l'immortalità dell'anima e di aver costretto alcuni sacerdoti alla rottura del segreto confessionale. Il re si disse convinto della necessità di convocare il concilio ecumenico che destituisse il papa; nonostante l'opposizione di numerosi appartenenti agli Ordini minori, che finirono in prigione, la massa del clero e del popolo francese manifestò compatta la sua adesione alle decisioni del re. Alla notizia degli avvenimenti, il papa, che si trovava ad Anagni, respinse in un concistoro tutte le accuse e preparò una bolla di scomunica del re, la Super Petri solio, che doveva esser proclamata 1'8 settembre 1303, ma il giorno precedente scoppiò il complotto che ne impedì la pubblicazione. Guglielmo di Nogaret, in Italia dalla primavera di quell'anno, si era messo in contatto con la famiglia Colonna, nemica mortale del papa, e il cui capo era allora Sciarra; si organizzò una congiura che si estendeva dalla borghesia di Anagni a una parte del collegio dei cardinali. La mattina del 7 settembre i congiurati fecero irruzione nella cittadina al grido di «Viva il re di Francia e i Colonna!» e spinsero gli abitanti all'assalto del palazzo pontificio, che la sera cadeva nelle mani dei congiurati. Bonifacio VIII, abbandonato dagli stessi servitori, rivestì le insegne della sua dignità e, con la tiara in testa, attese gli aggressori seduto sul trono. Quando Nogaret e Sciarra Colonna entrarono nella sala gli intimarono di reintegrare i due cardinali Colonna nelle loro funzioni, di abdicare e consegnarsi prigioniero se voleva aver salva la vita: «Ecco la mia nuca, ecco la mia testa!», gridò il papa, respingendo indignato quelle condizioni. Se è solo frutto di fantasia il fatto che Nogaret abbia schiaffeggiato il papa con il suo guanto di ferro, certamente fu maltrattato, ingiuriato e specialmente da Sciarra Colonna, che avrebbe desiderato la sua morte.
L'affronto riempì di sdegno anche molti avversari della sua politica come Dante, che considerò l'offesa come rivolta a Cristo stesso (Purgatorio, xx, 86-90):
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, e nel vicario suo Cristo esser catto. Veggiolo un'altra volta esser deriso; veggio rinovellar l'aceto e 'l fele. Nogaret non voleva la morte di Bonifacio; era deciso a portare il papa alla presenza del suo re, al contrario del Colonna.
E questo contrasto di opinioni salvò la vita al papa; dopo tre giorni di prigionia, la borghesia di Anagni improvvisamente si volse a difesa del concittadino e con un rinnovato assalto al palazzo pontificio il 9 settembre mise in fuga i congiurati e liberò Bonifacio. La sera di quello stesso giorno il papa benedì il popolo e lo perdonò, ma certo non si sentiva più al sicuro nel paese natale; sotto la protezione degli Orsini il 25 settembre tornava a Roma, stroncato nel fisico e nel morale, un'ombra ormai del grande papa che si era illuso di essere. Morì l'11 ottobre del 1303 e fu sepolto in S. Pietro, nella cappella Caetani che si era fatto appositamente costruire da Arnolfo di Cambio; essa però fu poi abbattuta quando venne edificata la nuova basilica e le sue spoglie finirono allora nelle grotte del Vaticano. È indiscutibile che quella tomba «è il monumento del papato medievale, che le potenze dell'epoca seppellirono con lui», come nota.il Gregorovius; «fu l'ultimo papa a concepire l'idea della Chiesa gerarchica dominatrice del mondo».
Questa mania di grandezza è confermata anche dal suo mecenatismo: dietro la fondazione dell'università della Sapienza a Roma, e del duomo di Orvieto e Perugia, affiora una follia «cesarea» che si concretizzò in una narcisistica idolatria. Nessun papa prima di lui si fece immortalare ancor vivo in un così gran numero di statue in marmo e bronzo, tuttora visibili a Orvieto, Bologna, Firenze, Anagni e nel Laterano, senza contare l'affresco di Giotto, che lo tramandò ai posteri mentre leggeva dalla loggia di S. Giovanni la bolla di proclamazione del giubileo.
Questa mania non costituisce un semplice peccato di debolezza, nel segno di una smodata ambizione della fama postuma; è boria e superbia in un'autentica divinizzazione della propria persona. La colpa più grave in cui potesse incorrere colui che in effetti avrebbe dovuto essere, secondo le parole di S. Gregorio Magno, "servus servorum Dei".