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Percorso : HOME > Monachesimo agostiniano > Teologia dell'Ordine > MarianiTeologia dell'Ordine: SCRITTORI POLITICI AGOSTINIANI DEL SECOLO XIV
San Tommaso d'Aquino
SCRITTORI POLITICI AGOSTINIANI DEL SECOLO XIV
di Ugo Mariani
ed. Libreria Editrice Fiorentina, 1927
IL SECOLO D'ORO DELLA SCOLASTICA
Nel 1277, tre anni dopo la morte di Tommaso di Aquino, ardevano più che mai vive le controversie che agitavano le scuole filosofiche della Parigi dotta ed accademica del secolo XIII. La divulgazione delle principali opere di Aristotele, i commenti greci ed arabi avevano infuso nuove e più ardite correnti di pensiero nell'insegnamento speculativo dei maestri che nel Medio Evo prescolastico si erano ispirati ai principi che S. Agostino, dopo avere largamente attinto alla tradizione neo-platonica, aveva elaborato e posto come base della sua grande organizzazione della filosofia cristiana. L'occidente aveva avuto non soltanto la sorte di ritrovare i monumenti smarriti della sapienza greca, ma d'iniziarsi ancora ai sistemi dottrinali che il genio arabo aveva escogitato. Erano ormai lontani i tempi nei quali Abelardo poteva con ragione lamentarsi che di Aristotele non si conoscesse né la fisica né la metafisica. Ma il lavoro gigantesco di questi divulgatori e seguaci dello Stagirita non era riuscito ad imporsi, nella cerchia degli studi regolari ecclesiastici, senza grandi lotte e contrasti e proibizioni dell'autorità religiosa. Una serie di provvedimenti adottati in Parigi fra il 1210 e il 1215, e la dichiarazione di Gregorio IX con la quale nel 1231, fissando il suo regolamento fondamentale per l'Università parigina, ribadiva l'anatema che egli stesso tre anni innanzi aveva scagliato contro la metafisica aristotelica, mostrano quante diffidenze le nuove correnti filosofiche avessero suscitato negli ambienti ecclesiastici destinati a vegliare sull'ortodossia dell'insegnamento impartito nelle grandi università medioevali.
Ma il pontefice aggiungeva che la condanna doveva considerarsi duratura fino al giorno in cui, con un nuovo e più rigoroso esame, si fosse pronunziato un definitivo giudizio sulle opere di Aristotele. Si voleva evidentemente lasciare, per l'avvenire, un ponte di passaggio fra le vecchie e le nuove correnti intellettuali. Parigi era allora il centro del movimento culturale europeo. La vita accademica della grande metropoli non era disorganizzata come un secolo prima, ai tempi delle grandi lotte fra realisti e nominalisti. Allora Pietro Abelardo poteva scendere dalla nativa Bretagna e tenere le sue lezioni, disputatore insuperabile, sulla cattedra levata alle libere aure di S. Genoveffa. Ora invece l'insegnamento era ufficialmente impartito nelle quattro facoltà teologiche, dei decretisti, degli artisti, della medicina, di cui si componeva l'Universitas sorta fin dal 1200 come spontanea associazione fra maestri e studenti incorporati nelle scuole della cattedrale di Notre-Dame. Vi accorrevano ad insegnarvi i più reputati maestri della dottrina cristiana, provenienti da tutti i paesi e spesso da altre università. Perché la filosofia medioevale non aveva peculiarità nazionali, e lo scienziato di quel tempo, assorbito nel circolo della scienza universale, in ogni centro organizzato del sapere trovava lo stesso mondo intellettuale unificato da Roma, raccolto in una fede dal cristianesimo. Alberto Magno, Tommaso di Aquino, Bonaventura da Bagnorea levarono alto grido con il loro tentativo fortunato di una riforma della filosofia cattolica.
In seguito Sigieri di Brabante, Matteo d'Acquasparta, Riccardo di Middleton, Goffredo di Fontaines, Egidio Romano, Giacomo da Viterbo, Enrico di Gand, una folla di grandi, illustrarono quella scuola famosa. E Scoto, professore ad Oxford, a Parigi, a Colonia, dottore sottile e pungente, vi teneva lezione, nei primi anni del secolo XIV, a numerosi discepoli, maneggiando mirabilmente contro Tommaso l'arme terribile dell'ironia. Nel 1308 anche Dante, dopo una lunga dimora nel Casentino, nella corte dei conti Guidi, con nel cuore e nella carne l'amaro ricordo della passione che la donna di pietra vi aveva scatenato, si recava a Parigi e si dava, dice il Boccaccio, "allo studio della filosofia e della teologia, ritornando ancora in sé dell'altre scienze ciò che forse, per gli altri impedimenti avuti, se n'era partito". Tre grandi scuole filosofiche si contrastavano il terreno a Parigi nella seconda metà del secolo XIII: l'antica scolastica o sistema pretomistico, il peripatismo della scuola albertino-tomista, l'aristotelismo averroistico di cui Sigieri di Brabante, elogiato da Pietro du Bois ed immortalato nel paradiso dantesco, era il propugnatore più acclamato. L'averroismo negava l'individualità spirituale asserendo che l'intelletto onde s'illumina ogni uomo è uno, sosteneva una Provvidenza ristretta al solo governo generale, lo svolgersi progressivo delle intelligenze che informano gli astri, il fatalismo negli avvenimenti del mondo, l'eternità della materia, l'emanazione da Dio.
La polemica più ardente si svolgeva fra i seguaci dell'agostinismo e i tomisti. Questi ultimi battevano in breccia i capisaldi della dottrina così detta agostiniana, nella quale mancava una distinzione formale tra l'ordine delle verità rivelate e quelle naturali, tra il dominio della teologia e quello della filosofia, era definita la preminenza della nozione del bene su quella del vero e il conseguente primato della volontà sull'intelligenza, l'impossibilità della creazione del mondo ab aeterno, la necessità che alcuni atti intellettuali dell'uomo siano prevenuti da un'azione illuminatrice da parte di Dio, la positiva attualità per quanto infima ed embrionale della materia prima indipendentemente da ogni informazione sostanziale, l'individuazione dell'anima per virtù propria, non in conseguenza dell'unione col corpo, in modo che nel composto umano la materia è come lo sfondo del quadro, la forma come il contorno e il disegno (Cfr. MAURIZIO DE WULF, Storia della filosofia medioevale, trad. it. Del sac. Alfredo Baldi, vol. II, p. 39; FELICE TOCCO, Le correnti del pensiero filosofico nel secolo XIII, in Conferenze Dantesche,II, Arte e Scienza e Fede ai giorni di Dante). In opposizione alla scuola agostinista, il tomismo accettava la dottrina aristotelica della potenza e dell'atto, da cui l'Aquinate traeva molte tesi che differenziano il suo sistema dagli altri indirizzi filosofici dell'epoca. Il grande dottore sosteneva inoltre l'esatta e precisa differenza tra natura e supernatura, tra fede e scienza, teologia e filosofia, concepiva la materia prima come qualche cosa di puramente potenziale, rigettava la teoria della pluralità delle forme sostanziali sino ad allora generalmente ammessa, riteneva quale principio d'individuazione la materia quantitate signata.
Erano queste le principali dottrine intorno alle quali ferveva la lotta delle due correnti filosofiche. Ma come notava argutamente il Card. Francesco Ehrle (In Xenia Thomistica, Romae 1925, in Pont. Collegio Angelico, vol. III, pag. 529) con la distinzione delle due tendenze dottrinali non si vuole affermare l'esistenza di partiti dei quali l'uno non seguisse che opinioni del grande vescovo d'Ippona e l'altro che teorie di Aristotele. Nel campo teologico regnava sempre S. Agostino, autorità indiscussa da tutte le scuole dell'epoca. Le divergenze esistevano soltanto nel campo filosofico con riflessi molteplici sul teologico. Ma si finì per stabilire esattamente la distinzione formale tra il dominio della filosofia e quello della teologia, dopo che quest'ultima fu arricchita delle verità naturali. Ma a questi risultati si pervenne soltanto dopo molti anni e lunghe discussioni. L'assimilazione dell'Aristotelismo nei circoli scientifici di Europa, con processo lento e vivaci contrasti, si protrasse per tutto il secolo XIII e parte del XIV, perché la Chiesa previdente sottoponeva lo Stagirita al vigile controllo della fede soprannaturale e dell'amministrazione carismatica della tradizione cristiana. Per l'ardore che dimostravano nel prendere parte a queste controversie si distinguevano gli Ordini Mendicanti, Francescani e Domenicani sopra tutti. Anche gli Eremitani di S. Agostino, sebbene da appena due decenni usciti dall'ombra dei cenobi e riuniti in un sol corpo da Alessandro IV, presero la loro posizione in quelle interminabili polemiche. E nella lotta così importante per la fissazione delle forme intellettuali della tradizione cristiana, Egidio Romano, il più illustre rappresentante del giovine Ordine, fece udire e, spesso con esito decisivo, la sua parola. Il 7 marzo 1277, Stefano Tempier, vescovo di Parigi, compilò una lista di 219 proposizioni che egli considerava eretiche e proibì di difenderle, pena la scomunica. Diretto principalmente contro l'averroismo, questo sillabo colpiva anche il peripatismo tomistico condannando cinque teorie fondamentali di questo sistema riguardanti l'unità del mondo (Prop. 34, 77), l'individuazione delle sostanze spirituali e materiali (Prop. 96, 81, 191, 27, 97), la localizzazione delle sostanze separate e il loro rapporto con il mondo fisico (Prop. 69, 218, 219), la dipendenza dell'anima dalle condizioni del corpo nelle sue operazioni intellettuali (Prop. 187, 124), il determinismo sotto il quale la volontà compie i suoi atti (Prop. 173, 163, 129. Cfr. DENIFLE, I, pag. 544 ss).
La dottrina di S. Tommaso dell'unicità delle forme tanto violentemente combattuta, non era stata compresa fra le proposizioni vietate, ma il Tempier ed i suoi partigiani trovarono ugualmente il modo di raggiungere il loro intento. A dì 18 marzo dello stesso anno, Roberto Kilwardby, arcivescovo di Canterbury, primate d'Inghilterra, cui spettava il diritto di vigilanza sull'Università di Oxford, proibì una serie di tesi grammaticali, logiche, fisiche, colpendo numerose dottrine tomiste, non esclusa quella della unicità della forma o della passività della materia prima nei corpi. Egidio Romano, allora baccelliere, prese la penna per difendere energicamente il suo maestro Tommaso di Aquino ed anche se stesso, perché non poche delle teorie colpite erano da lui caldeggiate. Scorrendo gli scritti del filosofo agostiniano, noi possiamo conoscere soltanto alcune delle tesi che, proibite dai vescovi di Parigi e di Canterbury, erano state da lui propugnate.
L'articolo 96 condannato da Stefano Tempier sosteneva che Dio non può moltiplicare gli individui sotto una sola specie senza materia: a questa sentenza invece inclinava Egidio Romano (Cfr. AEGIDII COL., Quodlibeta revisa, correcta etc. studio P. D. Coninck, Lovanii typ. H. Nempaei, 1646, p. 65. "Respondeo dicendum (intorno alla questione: utrum Deus possit facere plures angelos in eadem specie) quod de hoc sit articulus parisiensis, in quo dicitur quod error sit dicere quod quia intelligentiae non habent materiam, Deus non possit plures eiusdem speciei facere. Optandum vero foret quod maturiori consilio tales articuli fuissent ordinati, et adhuc sperandum quod forte de iis in posterum sit habendum sanius. Hinc in praesenti, quantum possumus, et ut possumus, articulum sustinemus"). Aveva anche difeso l'altra opinione ugualmente condannata dal sillabo, che le anime nell'atto della creazione siano ineguali quantum ad sua naturalia, e nel suo In secundum Sententiarum, dedicato a Re Roberto, si rammarica che tale proposizione sia stata a Parigi proibita (Ediz. di Venezia 1580, pag. 471). Nel suo trattato Contra gradus et pluritates formarum non dubita di asserire che il pluralismo, inculcato dal Tempier, contradice alla fede (Ediz. di Venezia 1502, fol. 211), e biasima coloro che vogliono ad ogni costo trovare errori in quei grandi che furono i campioni del pensiero cristiano. Il vescovo, avendogli indarno domandato una ritrattazione, proibì che gli si desse il dottorato e lo sospese dall'insegnamento nell'Università: la carriera scolastica di Egidio era spezzata.
Ma l'Ordine non rinnegò il suo giovane a già illustre alunno, lo colmò anzi di onori. Nel giugno del 1279, il baccelliere parigino fu nominato definitore della Provincia Romana per il Capitolo Generale che doveva celebrarsi, due anni dopo a Padova (Capitulum provinciale de Perusio primum: "Diffinitorem eligendum reservavit sibi (Francesco da Reggio, priore generale degli Eremitani), scilicet, prope Capitulum Generale: fecit fratrem Egidium Romanum, Beccellarium parisiensem". Cfr. ANALECTA AUGUSTINIANA (1907), II, pag. 230), ed egli si affrettò a tornare in Italia.