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Percorso : HOME > Iconografia > Cicli > Seicento > ViterboCICLo AGOSTINIANo di Marzio Ganassini a Viterbo
Chiostro della chiesa della SS. Trinità con la posizione degli affreschi di Ganassini
MARZIO GANASSINI
1610
Chiostro della Chiesa della SS. Trinità a Viterbo
Storia della Vita di sant'Agostino
La Chiesa della SS. Trinità è nota in città anche come Santuario della Madonna Liberatrice, perchè fu oggetto di preghiere negli eventi calamitosi e drammatici. La chiesa e il convento furono costruiti dai padri eremitani agostiniani nel XIII secolo e il complesso fu consacrato da Alessandro IV nel 1258, come ricorda una lapide gotica nel Chiostro. Da un bel portale laterale in bugnato (1625) si accede al chiostro rinascimentale, che fu commissionato nel 1513 dal card. Egidio Antonini a Pier Domenico Ricciarelli. Vi utilizzò 36 colonne: imponente nella struttura si sviluppa su due piani. Al centro c'è una fontana, mentre sulle pareti laterali si sviluppa un imponente ciclo iconografico della vita di Agostino dipinto agli inizi del Seicento dal manierista romano Marzio Ganassini. Questo imponente ciclo di affreschi pare sia stato finanziato con un lascito di Giacomo Nini.
Giacomo Nini, uomo d'arme, munifico signore e nobile viterbese, in data 5 dicembre 1594 faceva un primo testamento per i rogiti del notaio Rosino Pennacchi stabilendo, tra i vari legati, un lascito di duecento scudi a favore dei frati della chiesa della SS.Trinità di Viterbo con obbligo di erogarli in dipingendum claustrum dicti conventus ubi dipingi debeat vita sancti Augustini. Il 22 agosto 1601 dettò per lo stesso notaio un secondo atto di ultime volontà confermando quanto già espresso nel documento precedente. Il Nini cessò di vivere il 24 aprile 1605 ricevendo sepoltura nella cappella che la famiglia possedeva in quella chiesa e di lì a poco i frati dell'ordine eremitano di Sant'Agostino, residenti nel convento contiguo, secondo la volontà espressa dal testatore, promossero la decorazione del chiostro. Le fonti locali ignorano anno e circostanze in cui l'impresa decorativa venne affidata ai pittori Giacomo Cordelli, viterbese, per le lunette e a Marzio Ganassini, romano, per le scene relative alla vita del santo. Le lunette opera del viterbese Giacomo Cordelli ricordano le province agostiniane sparse in tutto il mondo. Il ciclo, piuttosto ampio e complesso, dà grande risalto alla vita milanese del santo e alle tradizioni che ancora sopravvivono in questa regione, specialmente a Pavia.
Ganassini a Viterbo
Sembra che per l'artista romano il ciclo pittorico del chiostro della Trinità rappresenti la prima committenza in ambito viterbese, pur mancando, come riferito, la certezza cronologica. Un sostegno a tale ipotesi potrebbe offrirlo la lettura di un documento d'Archivio del 30 settembre 1606 con il quale donna Bernardina Sterparelli dettava il proprio testamento nella chiesa della SS. Trinità alla presenza testimoniale di Marzio Ganasino romano, pictore e Antonio suo padre, Stefano Fibidomo romano, Antonio Garigaio romano, Ascanio Santoro e Rosato Parentezza di Viterbo, m° Giuseppe Bilieno muratore e m° Giovan Paolo Tolomeo muratore. Quale giustificazione sarebbe possibile attribuire alla presenza dei due artisti e dei muratori in quel convento e in quell'anno? Si potrebbe credere che i due Ganassini sotto quella data già avessero iniziato l'impresa decorativa con Marzio intento a dipingere le scene, il padre Antonio i fregi e le grottesche e Cordelli le lunette, venendo supportati da quei mastri muratori nel lavoro di preparazione delle grandi pareti da affrescare. Due anni dopo, esattamente nel novembre 1608, il Ganassini, insieme a Filippo Caparozzi, accettava di dipingere le tre pareti della cappella del Palazzo Comunale di Viterbo, secondo il progetto del notaio e storico Domenico Bianchi, per un compenso di cinquanta scudi. Nell'ottobre 1613, come scrive Attilio Carosi, i due ricevono una secca intimidazione per aver abbandonato, incompleta, l'opera che nell'aprile 1615 non era stata ancora portata a termine. E proprio il 1615 era stato l'anno in cui il Ganassini aveva lavorato a Bagnaia prima nella decorazione della loggia della palazzina Montalto, quindi nella chiesa di san Giovanni Battista dove dipinse una Madonna tra San Giovanni Battista e San Giuseppe nella cappella dedicata a quest'ultimo santo. Nel 1755 l'affresco era stato celato da uno strato d'intonaco ed al suo posto figurava una tela con l'immagine del titolare della cappella. Dopo questo breve intervallo fuori città, la Comunità viterbese, quantunque i complicati trascorsi, nel dicembre 1622 si affidava ancora all'artista romano per fargli continuare la pittura delle pareti della cappella, (evidentemente la diffida del 1613 al duo Ganassini-Caparozzi non aveva ottenuto alcun effetto) e nel giugno 1623 lo stesso, pur avendo riscosso ben centocinquanta scudi, lavorava sempre più alla stracca. Questo procedere alla stracaca, cioè in maniera lenta e svogliata, imputato al Ganassini in questo suo nuovo intervento nella cappella del Palazzo Comunale, trova pure un qualche riscontro e giustificazione nella scarsa salute che assisteva l'artista in quel periodo, come chiaramente si evince dal suo testamento del 5 luglio 1623 rogato nello studio del notaio Tommaso Casini: - Sig. Marzio fu Antonio Ossini de' Ganassini romano pittore nella ill.ma città di Viterbo, sano per grazia di Dio di mente, di senso, di parola e intelletto corpore languens (cioè indebolito nel fisico), tra le altre disposizioni vuole se dovesse morire in Viterbo essere sepolto nella chiesa di Santa Maria della Quercia. In coscienza ricorda di aver ricevuto da Giovan Vincenzo Benamati tubicina dei Conservatori della Città di Viterbo in più volte centoventotto scudi per la decorazione del Palazzo come risulta da più ricevute da lui firmate. Confessa di essere debitore dei mercanti viterbesi Cristoforo e Tomaso Tomasi di scudi quindici per abiti acquistati nel loro fondaco per se e suoi figlioli e di essere debitore degli avvocati Vincenzo Pucitta e Ottavio Merlini. Dota le proprie figlie Aurora e Lorenza avute dalla fu Lavinia con quattrocentocinquanta scudi. In tutti i suoi beni fa eredi i figli maschi Belisario e Alfonso in eguale porzione che se dovessero morire senza figli dovranno subentrar loro le figlie femmine.