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CICLo AGOSTINIANo di Marzio Ganassini a Viterbo

Affreschi di Ganassini nel chiostro della chiesa della SS. Trinità: Guarisce una indemoniata

Agostino guarisce una indemoniata

 

 

MARZIO GANASSINI

1610

Chiostro della Chiesa della SS. Trinità a Viterbo

 

Guarisce una indemoniata

 

 

 

L'iscrizione in margine al dipinto riporta: cum lachrimis orans extollit ad aethera palmas et mox foemineo de corpore cessit ocynnis. Anche questa scena deriva da una leggenda medioevale ripresa quasi certamente da Jacopo da Varagine, che a sua volta si rifà a Possidio. Al centro del dipinto c'è Agostino che indossa un saio nero, in compagnia di un frate. Con un gesto autorevole si rivolge a una donna, che è trattenuta da un uomo a viva forza. Alza la mano per benedire o esorcizzare la donna indemoniata: dalla sua bocca scappano e s'involano dei diavoletti. Sulla sinistra si nota un altare, mentre la scenografia è completata da un'ampia finestra centrale e da una cariatide disegnata sulla sinistra.

 

Liberò molti indemoniati e fece altri miracoli. Nel ventesimo libro della Città di Dio narra due miracoli che egli aveva fatti, come se fossero opera di un altro, dicendo che una donna si era imbellettata il viso e fu invasa da un demonio, ma rivoltasi piangendo ad un prete ne fu liberata; e nello stesso libro dice che egli sapeva di un vescovo che pregò per un giovane che non aveva mai visto e lo liberò da un demonio impuro. Non si può neppur dubitare che egli parli di se stesso, ma per modestia il suo nome.

JACOPO DA VARAGINE, Legenda Aurea

 

Sant'Agostino si sofferma spesso e a lungo sugli Oracoli profetici e illumina i suoi scritti con una esegesi sapiente quanto mistica; ma il miglior modo per comprendere il cristianesimo non è forse quello di lasciarsi illuminare dalle divine predizioni da cui è scaturito? Sant'Agostino sviluppa con linguaggio immortale l’argomentazione derivante dalla miracolosa diffusione del Vangelo e nello stesso tempo indugia a raccontare i prodigi operati dalle reliquie di Santo Stefano in terra d'Africa, davanti agli occhi del popolo. Molti cattolici, affetti da naturalismo, si chiederanno perché un genio tanto grande sciupi un argomento così solenne con aneddoti di tanto piccola portata. Indugeranno a recriminare che tali particolari gli fanno perdere di vista le idee generali! Sono loro ahimè, a perderle di vista, queste idee generali. Non capiscono la portata degli episodi miracolosi accaduti all'epoca del grande dottore.

Non si rendono conto che, dopo aver dimostrato la divinità del cristianesimo basandosi sulla sua diffusione avvenuta in contrasto con tutte le leggi della Storia e tutte le condizioni della natura umana, Sant'Agostino deve ora dimostrare che la società cattolica, alla quale appartiene e di cui è uno dei vescovi, è proprio il cristianesimo che Dio solo ha stabilito con la forza irresistibile del suo braccio. È il dono permanente dei miracoli a confermare questa identità; ecco perché Sant'Agostino non ritiene di derogare al vasto piano della Città di Dio, esaminando fatti in apparenza minimi di cui è stato testimone e a sostegno dei quali può invocare la testimonianza del suo popolo.

 

 

8. 23. Un solo miracolo è avvenuto dalle nostre parti, non più grande di quelli che ho ricordato, ma così celebre e famoso al punto da farmi ritenere che non vi sia alcuno degli abitanti d'Ippona che o non l'abbia visto o non ne abbia sentito parlare, e non v'è alcuno che per un qualsiasi motivo l'abbia potuto dimenticare. Dieci fratelli, di cui sette maschi e tre femmine, di Cesarea di Cappadocia, non di bassa estrazione fra i loro concittadini, in seguito alla maledizione della madre, che fu lasciata sola dopo la recente morte del loro padre e sopportò con grande amarezza il torto da loro ricevuto, furono puniti per volere di Dio di una pena tale che erano orribilmente scossi dal tremore delle membra. Non sopportando in simile sgradevole aspetto gli sguardi dei propri concittadini, andavano girovagando per quasi tutto il mondo romano in qualsiasi direzione sembrasse opportuno all'uno e all'altro.

Due di essi, un fratello e una sorella, Paolo e Palladia, vennero anche dalle nostre parti, perché conosciuti in molti altri luoghi in quanto la condizione infelice ne spargeva la voce. Vennero una quindicina di giorni prima della Pasqua, frequentavano la chiesa in cui era la reliquia del martire Stefano, pregando affinché alfine Dio fosse benigno con loro e restituisse la salute di una volta. E lì e dovunque andavano attraevano l'attenzione della cittadinanza. Alcuni che li avevano visti altrove e conoscevano la causa del loro tremore la indicavano ad altri, a chiunque potevano. Arrivò la Pasqua e il giorno stesso di domenica, alla mattina, quando già un popolo numeroso era presente, il giovane pregando afferrava l'inferriata dell'edicola, in cui era la reliquia del martire. All'improvviso si sdraiò a terra e rimase disteso proprio come chi dorme, non tremando però come era solito anche nel sonno. Nello stupore dei presenti, dei quali gli uni tremavano, gli altri compiangevano, poiché alcuni volevano rialzarlo, altri lo impedirono e dissero che preferibilmente si doveva attendere il normale svolgimento. Ed egli all'improvviso si alzò e non tremava più perché era guarito ed era in piedi incolume fissando quelli che lo fissavano: chi in quel momento si trattenne dal lodare Dio? La chiesa si riempì delle voci di coloro che gridavano manifestando la propria gioia. Di lì si venne di corsa da me, dove sedevo pronto a comparire in pubblico; si precipitarono l'uno dopo l'altro, quello dietro per riferire la medesima cosa di quello davanti. Mentre io gioisco e in me ringrazio Dio, anch'egli entra con molti altri, si prostra alle mie ginocchia, si rialza per un mio bacio. Avanzammo verso il popolo, la chiesa era piena e risuonava di voci di gioia, poiché nessuno taceva e dall'una e dall'altra parte gridavano: "Grazie a Dio, lodi a Dio". Salutai il popolo e di nuovo gridavano con voce più fervorosa le medesime acclamazioni.

Ottenuto finalmente il silenzio, furono letti i testi liturgici della sacra Scrittura. Quando si giunse al momento della mia omelia, espressi pochi concetti relativi al giorno di festa e alla pienezza di quella gioia. Preferii che non ascoltassero ma intuissero nell'opera divina una determinata eloquenza di Dio. L'uomo pranzò con noi e ci narrò con precisione tutta la storia della disgrazia sua, dei fratelli e della madre. Il giorno seguente dopo la omelia promisi che all'indomani sarebbe stata letta la redazione del suddetto racconto a me consegnata. Poiché questo doveva avvenire al terzo giorno dalla domenica di Pasqua, feci stare in piedi i due fratelli, mentre si leggeva la loro redazione, sui gradini del coro, da cui in una posizione più alta io parlavo. Tutto il popolo dell'uno e dell'altro sesso osservava l'uno che rimaneva in piedi senza movimento anormale, l'altra che aveva convulsioni in tutto il corpo. E coloro che non conoscevano il fratello scorgevano nella sorella quel che per la bontà di Dio era avvenuto in lui. Vedevano di che rallegrarsi per lui, che cosa chiedere nella preghiera per lei. Letta frattanto la loro redazione, ordinai che i due si allontanassero dalla vista del popolo e cominciavo a esporre un po' più diligentemente il caso, quando all'improvviso, mentre parlavo, dalla cappella del martire si odono altre voci di un altro rendimento di grazie. I miei uditori si voltarono da quella parte e cominciarono ad accorrere. La giovane infatti, appena scesa dai gradini, sui quali stava in piedi, si era diretta verso il santo martire per pregare. Appena toccò l'inferriata, dopo essere caduta in coma come il fratello, si levò in piedi guarita. Mentre chiedevamo che cosa era avvenuto, per cui si era levato quel festoso schiamazzo, i presenti entrarono con lei nella basilica per accompagnarla guarita dalla cappella del martire. Si levò allora dall'uno e dall'altro sesso un grido di ammirazione così potente da sembrare che la voce, unita al pianto senza interruzione, non potesse aver termine. Fu condotta in quel posto in cui poco prima era stata in piedi tremante.

Esultavano che era simile al fratello, poiché erano rimasti afflitti che era rimasta dissimile, e facevano notare che non erano state innalzate preghiere per lei, eppure la volontà che le precorreva fu così presto esaudita. Esultavano nella lode di Dio senza parole, ma con un frastuono così grande che le nostre orecchie potevano appena sopportare. E che cosa v'era nel cuore di coloro che esultavano se non la fede di Cristo, per la quale era stato versato il sangue di Stefano?

AGOSTINO, Città di Dio, XXII, 8, 23