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Percorso : HOME > Iconografia > Cicli > Settecento > Basilio PachecoCICLo AGOSTINIANo di Basilio Pacheco a Lima
Agostino guarisce Innocenzio
BASILIO PACHECO
1744-1746
Monastero agostiniano degli Eremitani di Lima
Agostino guarisce Innocenzio
La scena ci porta a Cartagine, dove Agostino è tornato: qui trova Innocenzio che ne sarebbe il governatore. L'incisione di Bolswert ha servito da modello per Pacheco, che tuttavia ha concepito la scena in modo più drammatico. Innocenzio non è più seduto sul letto, ma osserva il male della sua gamba. Un inserviente lo aiuta ad alzare la gamba, mentre un infermiere sta preparando una cura. Ai piedi del letto Agostino, in saio nero, lo sta benedicendo. A destra un gruppo di donne piange fra cui la giovane moglie di Innocenzio. Varie persone cercano di consolarla in una scena che si presenta molto viva e dinamica. La didascalia riporta: "Pasa Augustino à Africa, y llegando à Cartago se hospeda en casa de Ynocentio Teniente Gobernador de dicha Ciudad, a quien da milagrosam salud etiando para cortarle una piernaque tenia acancerada."
Nel XXII libro della Città di Dio Agostino ricorda un episodio, che ha del miracoloso: la guarigione di Innocenzio. Il fatto venne ripreso dalla agiografia agostiniana medioevale che lo considerò come uno dei tanti miracoli attribuiti al santo. Il fatto accade a Cartagine quando Agostino ritorna in Africa. In questa città incontra Eulogio, già suo scolaro e ora retore, il quale aveva avuto in sogno da lui la spiegazione di un difficile passo ciceroniano. Agostino nel breve soggiorno fece nuove conoscenze fra i cattolici, e specialmente quella del diacono Aurelio, presente anch'egli, come Agostino, alla guarigione miracolosa della fistola di un funzionario imperiale di nome Innocenzio.
8. 3. Invece a Cartagine soltanto pochissimi conoscono la guarigione che si verificò in Innocenzo, già avvocato alla viceprefettura; fummo presenti e lo costatammo con i nostri occhi. Egli, siccome con tutta la sua famiglia era molto devoto, aveva accolto me e il mio confratello Alipio, non ancora chierici ma già servi di Dio, che provenivamo da oltre il mare e avevamo preso alloggio presso di lui. Era curato dai medici per le emorroidi, che aveva numerose e aggrovigliate nella parte posteriore e più bassa del busto. I medici lo avevano già operato ed eseguivano con unguenti le rimanenti operazioni della propria professione. Nell'intervento aveva sofferto prolungati e forti dolori. Ma fra le molte una di quelle varici era sfuggita ai medici che non la ravvisarono, sebbene avrebbero dovuto inciderla col ferro chirurgico. Quindi essendo tutte guarite quelle che i medici già incise curavano, era rimasta quella sola e le si applicava inutilmente la cura. Innocenzo, stimando ingiustificate quelle dilazioni e temendo di essere operato un'altra volta, perdette il controllo. Infatti lo aveva preavvertito il medico di casa che gli altri non avevano convocato quando fu inciso la prima volta, affinché vedesse almeno come operavano. Innocenzo adirato lo aveva cacciato di casa e a stento ve lo aveva riammesso. Disse: "Mi opererete un'altra volta? Dovrò andare incontro alle previsioni di colui che non avete voluto presente?".
E quelli continuavano a beffare il medico inesperto e a calmare con buone parole e con promesse la paura dell'uomo. Passarono molti altri giorni e non serviva a nulla quel che si faceva. Comunque i medici persistevano nella loro promessa che avrebbero guarito la varice non con lo strumento chirurgico ma con gli impiastri. Invitarono anche un altro medico, ormai anziano, molto celebrato nella tecnica chirurgica, Ammonio, che era ancora in vita. Egli, esaminata la parte, promise con attenzione alla loro diligenza e competenza il medesimo buon esito come gli altri. Tranquillizzato dalla sua autorità, con fine umorismo si burlò, come se fosse già guarito, del suo medico di casa che aveva previsto un altro taglio. Che dire di più? Passarono tanti giorni inutilmente, sicché i medici, stanchi e sfiduciati, confessarono che poteva guarire soltanto con un intervento. Si spaventò, divenne pallido, sconvolto dallo spavento e appena si riprese e poté parlare, comandò ai medici di andarsene e di non farsi più vedere da lui. Spossato dalle lacrime e costretto da quella ineluttabilità non gli venne in mente altro che rivolgersi a un certo Alessandrino, che allora era considerato un chirurgo molto efficiente, affinché egli facesse quel che adirato non voleva fosse fatto dagli altri. Ma dopo che questi venne e da esperto osservò nelle cicatrici l'opera dei medici, adempiendo un dovere di persona perbene, convinse l'individuo che essi piuttosto, i quali si erano tanto impegnati per lui, come egli poteva costatare con ammirazione, godessero del risultato della sua guarigione. Aggiunse che davvero, se non veniva operato, non poteva guarire e che ripugnava molto al suo temperamento strappare, per quel poco che rimaneva, l'onore di un lavoro così eccellente ad uomini, dei quali notava con ammirazione nelle sue cicatrici l'opera professionalmente molto valida, l'impegno, l'accuratezza. I medici riebbero la sua fiducia e si venne all'accordo che alla presenza dello stesso Alessandrino essi aprissero con lo strumento chirurgico la varice che ormai, col consenso di tutti, si riteneva inguaribile in altro modo. L'intervento fu rimandato al giorno dopo. Ma quando i medici se ne andarono, dalla grande angoscia del padrone si manifestò in quella casa un dolore così forte che a stento da noi si reprimeva il pianto come per un decesso. Lo visitavano quotidianamente uomini di santa vita: Saturnino di beata memoria, allora vescovo di Uzalis, il prete Guloso e i diaconi della chiesa di Cartagine. Fra di essi vi era anche Aurelio, il solo rimasto in vita, oggi vescovo, da nominarsi con noi col dovuto rispetto. Ricordando le meraviglie delle opere di Dio ho spesso parlato con lui di questo fatto e ho riscontrato che egli ricordava assai bene ciò che sto richiamando alla memoria. Mentre essi, come erano soliti, la sera precedente erano in visita da lui, li pregò con lacrime struggenti che alla mattina seguente si degnassero di essere presenti al suo funerale anziché al suo dolore. L'aveva infatti assalito una paura così grande a causa delle precedenti sofferenze che non dubitava di dover morire fra le mani dei medici. I chierici lo consolarono e lo esortarono ad avere fiducia in Dio e ad accettare virilmente la sua volontà. Poi andammo a pregare e lì, mentre al solito piegavamo i ginocchi e ci prostravamo a terra, egli si gettò giù come se fosse stato prosternato dalla violenta spinta di qualcuno e cominciò a pregare. Chi potrebbe esprimere a parole con quali gesti, con quanta passione, con quale sentimento, con quale fiume di lacrime, con quali gemiti e singulti che scuotevano tutto il suo corpo e ne impedivano quasi il respiro? Non sapevo se gli altri stessero pregando o se la loro attenzione fosse rivolta a questi particolari. Io certamente non riuscivo a pregare; dissi soltanto dentro di me queste brevi parole: "O Signore, quali preghiere dei tuoi figli esaudisci, se non esaudisci queste?".
Mi sembrava infatti che non potesse avvenire altro se non che egli spirasse pregando. Ci alzammo e, ricevuta la benedizione del vescovo, ci allontanammo, mentre Innocenzo pregava che la mattina seguente fossero presenti, ed essi lo esortavano che si facesse coraggio. Spuntò il giorno temuto, erano presenti i servi di Dio, come avevano promesso, entrarono i medici, furono preparati gli strumenti che la circostanza richiedeva, furono tirati fuori i tremendi ferri chirurgici nello sbalordimento e ansia di tutti. Mentre quelli che hanno maggiore influenza cercano di lenire la sua mancanza di coraggio con parole di conforto, il corpo viene disposto sul lettuccio a portata della mano del chirurgo, si sciolgono i nodi delle fasciature, viene scoperta la parte, il medico guarda e cerca, armato e intento, la varice da recidere. Esplora con gli occhi, palpa con le dita, si adopera poi in tutti i modi: trova una solidissima cicatrice. La grande gioia, la lode e il ringraziamento a Dio onnipotente e misericordioso che sgorgò dalla bocca di tutti con accenti di giubilo soffusi di lacrime non sono da affidare alle mie parole; vi si pensi e non se ne parli ... e il tumore alla mammella di Innocenza.
AGOSTINO, Città di Dio, XXII, 8, 3