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Contenuto Dottrinale

Milano: sant'Agostino in un dipinto di Foppa

sant'Agostino in un dipinto di Foppa

 

 

LA REGOLA: CONTENUTO DOTTRINALE

di p. Agostino Trapé

 

 

 

 

Capitolo secondo

CARITÀ E AMICIZIA

 

Sono i due pilastri della concezione spirituale, ecclesiale e monastica del Vescovo d'Ippona. Per scoprire la portata, la bellezza e la fecondità di questa concezione occorre studiarli insieme. Un errore sulla loro valutazione e sulle relazioni mutue potrebbe essere gravemente dannoso. Occorre evitarlo.

 

1. Carità

Quanto il Vescovo d'Ippona abbia parlato dell'amore e con quale acume psicologico si è detto sopra sia pure per sommi capi. Più lungamente e più profondamente ha parlato dell'amore che lo Spirito Santo diffonde nei nostri cuori, cioè della carità. Per riassumere il suo vasto pensiero vorrei servirmi delle parole con cui l'ho fatto altrove [72]. "La carità di Dio e del prossimo è il contenuto di tutte le Scritture [73], la sintesi della filosofia [74], il fine della teologia [75], l'anima della pedagogia [76], il segreto della politica [77], l'essenza e la misura della perfezione cristiana [78], la somma di ogni virtù, l'ispirazione della grazia [79], il dono da cui derivano tutti i doni dello Spirito Santo [80], la regola che distingue le opere buone da quelle cattive [81], la realtà con la quale nessuno può essere cattivo [82], il bene in cui si possiedono tutti i beni e senza il quale gli altri non giovano a nulla (Abbi la carità e avrai tutto, perché senza di essa a nulla giova tutto ciò che potrai avere) [83], la caparra o il principio della vita eterna [84]. È in questo contesto che si deve intendere il celebre aforisma agostiniano: Ama e fa' ciò che vuoi [85]". Se si volesse continuare, si potrebbe; soprattutto rilevando le proprietà di questo dono divino che il nostro dottore non cessa di approfondire. Eccole in sintesi: "l'inesauribile dinamismo, l'intransigente radicalità, il totale disinteresse, la forza progressiva dell'assimilazione, l'inseparabile compagnia dell'umiltà e in ultimo, ma non meno importante, la soprannaturalità" [86]. Ma non è un trattato sulla carità che voglio scrivere, anche se sarebbe bello, utile e consolante scriverlo. Mi limito pertanto a riportare qualche brano di un discorso di S. Agostino sulla carità.

"La carità - dice al suo popolo - con la quale amiamo Dio e il prossimo, possiede sicura tutta la grandezza e tutta l'ampiezza degli eloqui divini... se dunque non hai tempo di scrutare tutte le pagine sante, di svolgere tutti gli involucri della (divina) parola, di penetrare tutti i segreti della Scrittura, abbi la carità da cui tutto dipende; così possederai ciò che hai imparato nella Scrittura e ciò che ancora non hai imparato... In ciò che intendi della Scrittura, è la carità che ti si manifesta, in ciò che non intendi è la carità che resta occulta. Dunque chi possiede la carità nei costumi, questi possiede ciò che è aperto e ciò che è occulto nella parola divina. Perciò, fratelli, seguite sempre la carità, dolce e salutare vincolo delle anime, senza la quale il ricco è povero e con la quale il povero è ricco. La carità nelle avversità è tollerante, nella prosperità è temperante, nelle dure sofferenze è forte, nelle opere buone è ilare, nella tentazione è sicura, nell'ospitalità è larga, tra i veri fratelli è lieta, tra i falsi è paziente ... ".

Ricorda poi S. Agostino l'esempio dei santi del Vecchio e del Nuovo Testamento, le cui virtù, tanto diverse tra loro, non furono che modulazione dell'unica virtù della carità, cita le parole di S. Paolo nella lettera ai Corinti, della quale egli, Agostino, non potrebbe dire nulla di meglio, e continua: "Ma questa carità quanto è grande? Anima delle Scritture, forza delle profezie, salute dei sacramenti, base solida della scienza, frutto della fede, ricchezza dei poveri, vita dei morenti. Che c'è di tanto magnanime quanto il morire per gli empi? Che di tanto benigno quanto l'amare i nemici? Solo la carità non si duole della felicità altrui, perché non è invidiosa; solo la carità non si esalta per la felicità propria, perché non è gonfia dell'orgoglio; solo la carità non sente il rimorso della cattiva coscienza, perché non opera il male. Tra le ingiurie è sicura, tra gli odi benefica, tra le ire placida, tra le insidie difesa dalla sua innocenza, tra le iniquità geme, nella verità respira. Che cosa di più forte della carità non per ripagare, ma per curare le ingiurie? Che cosa di più fedele non verso le vanità (della terra), ma verso le cose eterne (del cielo)?" [87].

La citazione è lunga, ma meritava d'essere riportata come premessa del posto che occupa la carità nella concezione monastica del Vescovo d'Ippona. Questa sublime virtù, la sola che sia eterna con Dio, essendo l'anima e il cuore della vita cristiana, diventa per sua natura nel pensiero agostiniano - l'ho già accennato -, il fine, il mezzo e il centro della vita comune. La Regola v'insiste in tutte le sue pagine. Comanda fin dall'inizio: "La prima cosa per la quale vi siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella casa e che abbiate un sol cuore e un'anima sola protesi verso Dio" (n. 3). Vediamo di scandagliarne il pensiero.

  1. Carità e unità.  Questo primo precetto contiene in nuce tutte le prescrizioni che seguono. In esso S. Agostino ha espresso la sua persuasione più profonda e la sua esperienza più cara. In realtà, egli era innamorato di queste parole degli Atti degli Apostoli, e quindi del santo proposito che porta i fratelli ad unirsi insieme per viverle con pienezza. Il Dottore della carità, sapeva molto bene che il proposito di abitare insieme in santa concordia ha per sorgente la carità, per fine la carità, per esercizio quotidiano la carità. È interessante infatti notare che quando cita questo testo degli Atti - e lo cita molto spesso - vi aggiunge sempre il richiamo alla carità, cioè alla virtù che unisce ciò che la natura divide, che raccoglie ciò che il peccato disperde, che fa di molti individui, diversi e lontani, un sol corpo e una sola persona. Sarebbe troppo citarne tutti i passi. Eccone alcuni. " ... vivendo concordemente nella carità cristiana... avevano un sol cuore ed un'anima sola in Dio" [88]. " ... avevano una sola anima e un sol cuore fusi nel fuoco della carità" [89]. " ... erano come legni secchi che ardevano nella chiesa di Gerusalemme per il fuoco dello Spirito Santo quando avevano un solo cuore ed un'anima sola protesi verso Dio" [90]. Proprio così. La concordia fraterna non è frutto di coincidenza di interessi o di uguaglianza di sentimenti o di simpatia naturale, ma è frutto della carità con cui amiamo Dio e, per amore di Dio, il prossimo. "Non abitano insieme, afferma categoricamente S. Agostino, non abitano insieme (nella concordia) se non coloro nei quali la carità di Cristo è perfetta. Quelli invece nei quali la carità di Cristo non è perfetta, anche quando stanno insieme, sono odiosi, molesti, turbolenti; e con la loro inquietudine disturbano gli altri... simili a un giumento inquieto sotto il giogo, il quale non solo non tira, ma tormenta anche, con calci, il compagno" [91]. Così è: mentre il dissenso produce le divisioni "la carità produce l'accordo, l'accordo genera l'unità, l'unità mantiene la carità, la carità conduce alla gloria" [92]. Da questo accordo, che genera l'unità, proviene il nome di monaco. "Monos, spiega S. Agostino, vuol dire uno, ma non uno in qualsiasi modo; poiché anche nella massa uno è uno, ma, essendo egli insieme a molti, si può dire che è uno, ma non si può dire che è solo, cioè monos: monos infatti significa uno solo. Dunque coloro che vivono insieme in modo da formare un solo uomo, in modo che di loro si possa dire ciò che è scritto: avevano un'anima sola e un cuore solo; che sono cioè molti corpi, ma non molte anime, molti corpi, ma non molti cuori, giustamente si possono dire monos, cioè uno solo" [93]. Frutto dunque della carità è la concordia, frutto della concordia l'unità, frutto dell'unità la gioia. Ecce quam bonum et quam iucundum, esclama il salmista, habitare fratres in unum. S. Agostino osserva che questa voce di esultanza ha riempito i monasteri. "Queste parole del salterio, dice al suo popolo, questo dolce suono, questa soave melodia - è soave nel canto ed è soave nell'intelligenza - ha generato anche i monasteri. Risuonò per tutta la terra, e quelli che erano divisi si sono riuniti". "Per primi abitarono insieme quelli che (a Gerusalemme) vendevano tutto ciò che avevano e ne davano il Prezzo agli Apostoli, come si legge negli Atti degli Apostoli". "Dunque loro furono i primi ad ascoltare (queste parole): Ecco com'è bello, come giocondo, il convivere di tanti fratelli insieme: i primi ma non i soli. Infatti non giunse solo a loro quest'amore e questa unità dei fratelli: questa carità esultante giunse anche ai posteri ... " [94]. Ma per gustare la gioia di vivere insieme e di sentirsi fratelli, occorre prima di tutto che l'amore possegga tre prerogative essenziali: una spinta costante verso Dio, una coscienza viva della presenza di Dio nella comunità, un senso profondo della Chiesa.
  2. In Deum   Abbiate un'anima sola e un cuore solo in Dio, o più precisamente, protesi verso Dio, in Deum. Quest'aggiunta al testo biblico, è propria di S. Agostino: non c'è nella Scrittura, non c'è nei santi Padri prima di lui. Ed è molto significativa. Essa esprime il dinamismo profondo della carità, la ragione ultima della vita comune. Cuori protesi verso la ricerca di Dio e perciò uniti fra loro in una santa comunione di vita che è unità nella varietà. L'agostiniano quaerere Deum trova qui la sua applicazione più piena. "Perché, si chiede S. Agostino nei Soliloqui, desideri che le persone a te care vivano insieme a te?". Ecco la risposta: "Affinché possiamo occuparci insieme, concordemente, nella ricerca di ciò che riguarda le nostre anime e Dio. Di tal maniera che colui che avrà trovato per primo potrà condurre gli altri, senza fatica, allo stesso risultato" [95]. L'anima e Dio: le due sole cose che S. Agostino desiderava sommamente di conoscere [96], per scoprire sempre più ciò che Dio è per l'anima e ciò che l'anima è per Iddio e orientare così, di conseguenza, la vita. La ricerca di Dio significa dunque per il Vescovo d'Ippona molto di più della fredda indagine filosofica; significa fede, amore, culto, servizio di Dio; desiderio, tensione, ascesa, contemplazione; progressivo avanzamento nella somiglianza della SS. Trinità. Si capisce allora che coloro i quali sentono nel cuore questo fuoco di carità, che è dono dello Spirito Santo, imprimono alla vita un movimento che li porta ad unirsi e li solleva in alto. "Il tuo dono - scrive S. Agostino in un celebre passo delle Confessioni - il tuo dono (Signore) ci accende e ci porta verso l'alto. Noi ardiamo e ci muoviamo. Saliamo la salita del cuore cantando il cantico dei gradini. Del tuo fuoco, del tuo buon fuoco ardiamo e ci muoviamo, salendo verso la pace di Gerusalemme" [97]. Si attua così nel monastero in modo eminente quel che dice lo stesso Santo in un altro luogo: "Se amate Dio, trascinate all'amore di Dio i vostri congiunti e tutti coloro che sono nella vostra casa ... rapiteli a godere di Dio; dite loro: magnificate il Signore con me... Rapitene quanti più ne potete, esortando, sospingendo, pregando, discutendo, dando spiegazioni, con mansuetudine, con dolcezza; rapiteli all'amore, affinché se magnificano il Signore, lo magnifichino insieme nell'unità" [98]. Quell'in Deum non è dunque un'aggiunta al testo biblico messa lì per caso, ma è, invece, sommamente ricco di significato: contiene infatti tutte le ricchezze dell'amore di S. Agostino per la sapienza e rivela la prima grande sorgente da cui scaturisce l'unitas caritatis.
  3. La presenza di Dio nei fratelli   La prima sorgente, non l'unica. Insieme alla dimensione verticale che va verso Dio, la carità deve possedere la dimensione orizzontale che investe e abbraccia i fratelli. S. Agostino portò nella vita comune tutta la carica umana dell'amicizia. Sappiamo quale eco avesse nel suo animo questa cara e soave parola. Amicizia vuoi dire comunione, gioia, arricchimento: comunione di vita, gioia di dare e di ricevere, arricchimento di sapienza e di grazia. Nasce infatti dall'amore di un bene superiore e comune, che è la Verità - nessuno può essere amico di un altro se prima di tutto non lo è della Verità, sentenzia Agostino [99] -; suppone la stima, la fiducia, la benevolenza, il rispetto, la fedeltà; e richiede per mantenersi e crescere, molte cose: la presenza dell'amico, l'assenza dell'invidia, i frequenti colloqui, l'unità degli intenti, la cooperazione generosa, la scienza del chiedere e del concedere il perdono, ecc. Agostino ne descrive le manifestazioni con queste memorande parole: "I colloqui, le risa in compagnia, lo scambio di cortesie affettuose, le comuni letture di libri ameni, i comuni passatempi ora frivoli ora decorosi, i dissensi occasionali, senza rancore, come di ogni uomo con se stesso, e i più frequenti consensi, insaporiti dai medesimi, rarissimi dissensi; l'essere ognuno dell'altro ora maestro, ora discepolo, la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze festose di chi ritorna. Questi e altri simili segni di cuori innamorati l'uno dell'altro, espressi dalla bocca, dalla lingua, dagli occhi e da mille gesti gradevolissimi, sono l'esca, direi, della fiamma che fonde insieme le anime e di molte ne fa una sola" [100]. Ma nel monastero l'amicizia non è solo questo, perché non ha solo, o non ha affatto, fonti naturali, com'era l'amicizia di cui parla S. Agostino nel passo citato. Su questo punto il Santo è perentorio: non sia carnale, ma spirituale il vostro amore [101], il che vuol dire: non sia umano - nel senso deteriore della parola - ma divino; non naturale, ma soprannaturale. Nel monastero dunque l'amicizia deve avere fonti soprannaturali; deve scaturire cioè dalla carità, la virtù che ama, rispetta e venera nell'altro il tempio di Dio. Vivete dunque, così il Vescovo d'Ippona conclude il primo capitolo della Regola, vivete dunque unanimi e concordi e onorate mutuamente in voi stessi Dio, di cui siete templi. Con questo precetto egli dà il tono dell'amicizia cristiana e religiosa, inserendola nel mistero del soprannaturale. In questo modo l'amicizia, senza essere privata del calore umano che le è proprio, si arricchisce dei doni divini della grazia che purifica ed eleva la natura. Le parole della Regola, che abbiamo ricordate, contengono, riuniti insieme, due precetti paolini; quello di onorare Dio d'un sol cuore e d'una sola voce [102] e quello di prendere coscienza della nostra condizione di templi di Dio [103]. S. Agostino ha scritto molto su questi argomenti. L'inabitazione dello Spirito Santo nell'anima del giusto è, per esempio, uno dei temi più belli e più fecondi della sua teologia della grazia. Il religioso che è entrato in monastero per vivere questa verità in tutta la sua stupenda ricchezza deve conoscerla profondamente. Tra le opere agostiniane si legga almeno la Lettera [187], che è un trattato sulla presenza di Dio, un trattato la cui struttura essenziale si può riassumere in queste tre grandi affermazioni:
    • benché Dio sia dovunque e sia dovunque tutto, non abita in tutti, poiché è bensì dovunque con la presenza della divinità, ma non è dovunque con la grazia dell'inabitazione;
    • anche in coloro nei quali Dio abita, non ci abita nella stessa misura;
    • intanto si dice che Dio abita nell'uomo in quanto lo rende con la sua grazia "dilettissimo" o "beatissimo" tempio suo.
    Di questa mirabile e consolante dottrina vogliamo rilevare qui un solo particolare; cioè l'affermazione agostiniana che non solo i singoli religiosi sono templi di Dio, ma che la comunità in se stessa, dove i membri vivono in santa concordia, è un tempio di Dio: "Son diventati - scrive il Santo - templi di Dio; non soltanto templi di Dio i singoli, ma tempio di Dio tutti insieme" [104]. A nessuno può sfuggire l'immensa portata di questa affermazione: la comunità tempio di Dio. Compito della carità fraterna edificare a Dio, giorno per giorno, questo tempio: frutto della carità sentire ed amare Dio in esso. A questa affermazione se ne aggiunge un'altra non meno sorprendente. I fratelli uniti fra loro in quella carità che lo Spirito Santo diffonde nei cuori sono talmente uniti a Cristo da formare con Lui un'unica anima, l'anima, appunto, di Cristo. "La tua anima - scrive arditamente S. Agostino - non è più tua, ma di tutti i fratelli e le loro anime sono tue, o meglio, le loro anime insieme alla tua non sono più che un'anima sola, Christi unica" [105]. Tradurre in pratica attraverso la perfetta unione d'amore la realtà divina del Corpo mistico di Cristo, è la prerogativa che S. Agostino volle imprimere ai suoi monasteri. Da questa prerogativa proviene l'ascetismo della carità. Ma prima di parlarne dobbiamo fare un accenno alla terza sorgente da cui scaturisce l'unione dei cuori, che fonda e ricapitola la vita monastica agostiniana.
  4. Il senso ecclesiale   Questa terza sorgente è il sensus Ecclesiae. Senso della Chiesa vuol dire, in questo caso, la persuasione profonda che la vita comune è inserita nella compagine ecclesiale e vi è inserita in tal modo che ne ricorda una manifestazione iniziale, ne esprime una realtà essenziale, ne annunzia la fase finale. Un senso ecclesiale dunque che ha le dimensioni del tempo e si proietta nell'eternità.
    • Ricordo. - Prima di tutto la comunità religiosa costituisce un ricordo, che è insieme una continuazione; il ricordo della prima comunità di Gerusalemme. Abbiamo detto ripetutamente che S. Agostino nel fondare i suoi monasteri guardò a quella comunità e la prese per esempio. Da essa la comunità agostiniana deve attingere perennemente la fermezza della fede apostolica, la freschezza spirituale dell'amore, l'ardore della preghiera, l'assiduità nella celebrazione dell'Eucaristia, la gioia della speranza cristiana, che sono, appunto, le prerogative di quella prima comunità. Leggiamo negli Atti queste parole che dipingono un quadro di mirabile bellezza: "Quelli adunque che accolsero la parola (di Pietro) furono battezzati e quel giorno furono aggregate alla Chiesa circa tremila persone. E tutti perseveravano nel farsi istruire dagli Apostoli, nella comunanza fraterna, nell'eucaristia, nella preghiera ... I fedeli intanto si tenevano uniti e avevano tutto in comune. E man mano che se ne sentiva il bisogno vendevano beni mobili e immobili e ne facevano distribuire fra tutti il ricavato. Ed ogni giorno frequentavano unanimi il tempio e spezzavano il pane di casa in casa, nutrendosene in esultanza e semplicità di cuore, lodando Iddio" [106].
    • Realtà. - A questo ricordo, da cui la comunità religiosa attinge una vena perenne di freschezza e di vigore, si aggiunge la coscienza che la vita comune, vissuta secondo l'ideale degli Atti degli Apostoli, è un segno di quell'unità che Cristo ha voluto che fosse una nota essenziale della sua Chiesa. Si sa che S. Agostino fu l'apostolo infaticabile dell'unità della Chiesa lacerata dai donatisti; ciò si riflette nella concezione dell'ideale monastico: la concordia fraterna dei religiosi è e dev'essere un segno, una manifestazione concreta di quell'omnes unum sint di cui ogni discepolo di Cristo deve sentire la forza e la gioia. Non fa dunque meraviglia che non amino questo sublime ideale di fraternità coloro che hanno spezzato l'unità della Chiesa separandosi dai fratelli. "Non a torto, dice S. Agostino contro i donatisti, non a torto deridono il nome di unità coloro che si staccano dall'unità della Chiesa; non a torto dispiace loro il nome di monaco, perché essi non vogliono abitare insieme con i fratelli ma, per seguire Donato, hanno abbandonato Cristo" [107]. La comunità religiosa è e dev'essere una piccola chiesa, la quale, unita non dalla carne e dal sangue, ma dalla carità di Cristo, dà testimonianza a favore dell'unità della Chiesa universale e ne offre un valido esempio. In essa infatti si compiono in modo eminente le parole: da questo appunto tutti riconosceranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri [108]. Nasce da qui il valore apologetico del segno, che si aggiunge a quello storico del ricordo, proprio di ogni comunità religiosa che viva sinceramente il suo ideale di unione.
    • Annuncio. - Ma occorre menzionare subito un terzo valore, che completa gli altri due e dà il pieno significato al senso ecclesiale d'una comunità religiosa agostiniana: il valore profetico di annuncio. L'unione che fa dei fratelli un solo cuore e un'anima sola sarà sempre qui in terra un abbozzo, un inizio, vorremmo dire un tentativo. La perfezione è altrove, là dove le conseguenze del peccato, che è essenzialmente divisione, saranno superate e vinte per intero e la carità avrà soggiogato a sé ogni pensiero ed ogni sentimento umano: nella città celeste, che è, secondo la celebre definizione di S. Agostino, "la ordinatissima e concordissima comunità di coloro che godono di Dio e mutuamente di se stessi in Dio" [109]. Solo in quella città Dio sarà pienamente tutto in tutti. E poiché Dio è carità, per mezzo della carità avverrà una cosa stupenda, inenarrabile: quello che avranno i singoli sarà comune a tutti, ut quod habent singuli commune sit omnibus. "In tal modo ognuno avrà anche ciò che non ha, perché (pur non avendolo egli stesso) lo ama nell'altro (e, amandolo, lo possiede). La diversità dello splendore non susciterà dunque invidia, perché regnerà in tutti l'unità dell'amore, l'unitas caritatis" [110]. A questo ideale s'ispira la vita comune e, ispirandovisi, lo preannuncia con crescente dinamismo, che è tensione, invocazione, speranza. E si badi che il senso profetico non sta solo nell'osservanza dei consigli evangelici, ognuno dei quali possiede, come è noto, un significato escatologico, ma sta anche nella vita comune come tale, in quanto essa, esigendo un esercizio quotidiano di carità, costituisce una comunione di vita che è l'inizio di quella consors differentia che sarà perfetta e beata nei cieli. La comunità religiosa, dunque, non vuole soltanto fare la Chiesa, cioè estenderne col suo apostolato l'azione, ma è Chiesa e si sente Chiesa, in quanto della Chiesa ricorda gli inizi, ricorda la perenne efficacia e annuncia gli eterni destini. Vivendo l'ideale dell'amore vive nel mistero della Chiesa, ed è essa stessa espressione di questo mistero: dell'amore, che è l'unica cosa eterna tra le cose temporali e sa compiere il miracolo di moltiplicare i beni dei singoli comunicandoli a tutti. Questo il significato ampio e profondo del senso ecclesiale che S. Agostino volle infondere nelle sue comunità religiose. Non v'è chi non veda di quanta freschezza spirituale e di quante energie interiori esso sia portatore.
     
  5. Su tutte le cose si elevi la carità che permane   Ma non basta il precetto iniziale per richiamarci al tema centrale e inesauribile della carità. Nel cuore stesso della Regola il legislatore ne propone il programma con queste parole: in tutte le cose di cui si serve la transitura necessità, si elevi l'unica che permane: la carità [111]. Programma solenne, ma difficile; si sa che la carità è la più ardua e la più vulnerabile di tutte le virtù. Per aiutare i suoi discepoli a metterlo in pratica S. Agostino enuncia alcuni principi, destinati a creare solide convinzioni, dai quali poi nasce quel deciso orientamento che permette il trionfo della carità.
    • ... meglio aver meno bisogni che aver più cose - Il primo principio lo abbiamo ricordato sopra: è meglio aver meno bisogni che aver più cose. Possiamo chiamarlo il principio della libertà dal bisogno, non nel senso corrente dell'espressione, ma in un altro molto diverso, anzi opposto. La libertà dal bisogno può significare, e significa correntemente, libertà di soddisfare il bisogno; suppone perciò l'impegno di promuovere l'aumento dei beni per poterlo soddisfare. È il principio della società del benessere; utile, anzi, dentro certi limiti, necessario, soprattutto se si pensa di soddisfare i bisogni dei più disagiati, dei meno abbienti o, come oggi si dice, dei sotto sviluppati; ma principio anche pericoloso, perché può entrare, ed entra molto spesso, in quella terribile spirale, che è l'aspirazione alla libertà dal bisogno che promuove l'aumento del benessere, e l'aumentato benessere che provoca l'aumento dal bisogno. Nella Regola invece, libertà dal bisogno significa non soddisfazione, ma limitazione del bisogno stesso, nei limiti, s'intende, che il dovere consente. Ora, questa limitazione è fonte autentica di libertà. È risaputo, infatti, che ogni bisogno di cose temporali e caduche per chi, come l'uomo, è destinato alle cose imperiture ed eterne, costituisce una servitù. La servitù, poi, genera la necessità, e la necessità, quando non sia soddisfatta, genera indigenza, inquietudine, tormento. Ma anche quando sia possibile soddisfarla, la necessità è sempre necessità, mai libertà. "Tu fabbrichi la casa - dice S. Agostino al suo popolo - perché, se non la fabbricassi, resteresti senza abitazione: la necessità ti costringe a fabbricare la casa, non la libera volontà" [112]. Lo stesso vale per le vesti e i cibi: tutto ciò che si fa per procurarseli, si fa per necessità non per libertà. Il religioso quindi, il quale, attraverso la temperanza, la parsimonia e l'austerità evangelica, limita, per quanto gli è possibile, i suoi bisogni, conquista progressivamente la libertà interiore e s'immerge nell'amore delle cose celesti. Si stima perciò felice non di avere più cose - in realtà, chi entrava nel monastero da bassa condizione trovava in esso più cose di quelle che avesse - ma si stima felice di aver meno bisogni. Senza dire che, limitando i propri bisogni, il religioso mette la comunità in grado di venire incontro ai bisogni altrui. Il principio agostiniano non ha dunque solo un valore comunitario, in quanto crea nella comunità quel clima spirituale e soprannaturale che facilita il trionfo della carità, ma possiede anche un valore sociale di stimolo e di aiuto.
    • ... la carità ... antepone le cose comuni alle proprie - Il secondo principio, non meno luminoso del primo, viene enunciato dalla Regola con queste parole: nessuno mai lavori per se stesso ma tutti i vostri lavori tendano al bene comune e con maggiore impegno e più fervida alacrità che se ciascuno li facesse per sé. Infatti, la carità di cui è scritto che non cerca il proprio tornaconto, va intesa nel senso che antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Per cui vi accorgerete di aver tanto più progredito nella perfezione quanto più avrete curato il bene comune anteponendolo al vostro [113]. Parole d'oro, che indicano nell'amore del bene comune - o bene sociale - il progressivo svuotamento dell'egoismo, e perciò la misura del progresso nella carità. La distinzione tra amore privato e amore sociale è fondamentale nella dottrina agostiniana: sta alla base delle due città in cui è diviso il genere umano, ed è più ampia e più profonda di quella notissima tra l'amore di sé e l'amore di Dio [114]. Ecco un testo importante: "Due amori... dei quali uno sociale e un altro privato... distinsero le due città sorte nel genere umano ... una dei giusti e un'altra degli iniqui" [115]. Amore privato vuol dire amore di cose proprie. È considerata ed è cosa propria, in questo caso, tutto ciò che si possiede o si desidera in opposizione agli altri o con esclusione degli altri; quindi le ricchezze, la gloria, il potere. L'amore privato nasce dalla cupidigia, dall'egoismo, dalla superbia e conduce al peccato, che è, essenzialmente, una rinuncia, e perciò una privazione, del bene totale, comune a tutti, e un'adesione al bene parziale, che è il bene proprio. Il peccato degli Angeli, spiega S. Agostino, consiste proprio in questo, cioè nella volontà di separarsi da un bene superiore comune a tutti e di aderire a un bene inferiore, proprio di ognuno, e quindi parziale e privato. Con quali conseguenze? Disastrose. Ebbero il fasto dell'orgoglio, ma perdettero l'eternità, che è eccelsa; ebbero l'astuzia della vanità, ma perdettero la verità, che è certissima; ebbero la parzialità, ma perdettero la carità, che è indivisibile, che abbraccia cioè il tutto e non può ridursi mai ad una parte. In altre parole, privati della partecipazione dell'eternità, della verità, della carità, che è Dio, bene di tutti, divennero superbi, fallaci, invidiosi, e perciò soli, poveri e miseri [116]. Invece l'amore sociale è l'amore del bene comune. Per comune s'intende quel bene che può essere tutto di tutti in modo da escludere tra gli amanti ogni ombra d'invidia e ogni possibilità di opposizione, come il bene della sapienza, come ogni altro bene spirituale, universale ed eterno. In definitiva l'amore sociale è l'amore di Dio e l'amore di se stessi e del prossimo in Dio. C'è dunque tra l'amore sociale e l'amore privato la stessa opposizione che corre tra l'umiltà e la superbia, tra la carità e la cupidigia. Ecco come S. Agostino esprime questa opposizione: "Uno provvede all'utilità comune in vista della società celeste, l'altro per un arrogante desiderio di dominio fa servire a sé anche il bene comune; uno è suddito a Dio, l'altro emulo di Dio; uno tranquillo, l'altro turbolento; uno pacifico, l'altro sedizioso; uno preferisce la verità alle lodi degli adulatori, l'altro preferisce in qualunque modo le lodi alla verità; uno amichevole, l'altro invidioso; uno che vuole al prossimo il bene che vuole a sé, l'altro che vuole assoggettare a sé il prossimo; uno che regge il prossimo per l'utilità del prossimo, l'altro che lo regge per la sua utilità" [117]. La Regola ammonisce il religioso a frenare l'amore privato, che è causa di tanti mali, anteponendo sempre le cose comuni alle proprie. In questo modo si svuoterà a poco a poco dall'egoismo e dilaterà il cuore in quella carità che non cerca il proprio tornaconto [118] ma cerca in tutte le cose e sempre il bene del Vangelo, imparando a vivere non più per sé, ma per Gesù Cristo, che è morto per tutti [119]. A condizione, ovviamente, che non sostituisca all'egoismo individuale un egoismo collettivo che è, anch'esso, una triste forma di amore privato. Il primo infatti antepone le cose proprie a quelle comuni, il secondo le cose di un gruppo a quelle di tutti. Questa pericolosa e non infrequente sostituzione avverrebbe, per esempio, se il religioso anteponesse il bene del proprio monastero al bene dell'Ordine o il bene dell'Ordine al bene della Chiesa. Per evitare questo pericolo è necessario spingere fino in fondo l'amore sociale, amare cioè nel proprio monastero l'Ordine, nell'Ordine la Chiesa, nella Chiesa Cristo, che è Dio benedetto nei secoli [120] che dobbiamo amare, perciò, in tutti e sopra tutto. È naturale allora che S. Agostino indichi come misura del progresso spirituale l'amore delle cose comuni. Primo frutto di questo amore è la concordia fraterna: "una cosa molto grande e pur molto rara tra le cose umane; una cosa lodata da tutti e conservata da pochi". "Ma perché è tanto difficile che i fratelli vivano in concordia? Perché litigano di cose terrene, perché vogliono essere terra... I fratelli dunque se vogliono vivere concordi non amino la terra. Ma se non vogliono amare la terra, non siano terra. Cerchino una possessione che non si può dividere, e saranno sempre concordi" [121]. Questa possessione è l'eredità celeste. "Per questa eredità non si litiga. Altre eredità si acquistano litigando, questa litigando si perde" [122]. Il secondo frutto dell'amore sociale è l'orientamento costante dell'animo verso la celeste città e la preparazione ad essa. "Quella gloriosissima città, infatti,... non avrà cittadini dei quali ognuno goda delle cose proprie (come di cose private), perché Dio sarà tutto in tutti. Chiunque in questo terreno pellegrinaggio desidera fedelmente e ardentemente questa società con Dio, si abitua a preferire le cose comuni alle proprie, cercando non ciò che è suo, ma ciò che è di Gesù Cristo" [123].
    • "Uti" e "frui" - V'è finalmente un terzo principio, la cui meditazione può educare l'animo al trionfo della carità. La Regola lo accenna con quelle parole: su tutte le cose di cui si serve la transitura necessità... Si tratta dunque dell'uso delle cose, d'un uso che nasce dalla necessità, d'una necessità destinata a sparire. Sotto queste parole v'è la celebre distinzione agostiniana tra usare (uti) e godere (frui). Usare vuol dire amare una cosa come mezzo, e quindi non per se stessa, ma in ordine al fine e nella misura che conduce ad esso; godere significa, invece, amare una cosa per se stessa, come il termine in cui il cuore si riposi, come il fine. Da queste nozioni nasce il principio: la legge suprema dell'ordine vuole che si usi delle cose di cui si deve usare e si goda delle cose di cui si deve godere: il contrario è perversione e peccato. Ma quali sono le cose di cui ci si deve solo servire? Tutte quelle legate alla condizione della vita presente, destinate quindi a passare con la vita stessa: quelle che riguardano il sostentamento del corpo - vitto, vestiario, riposo, lavoro - che riguardano la formazione della mente - educazione, scuola, scienza, arte - che riguardano l'organizzazione sociale - diversità di compiti e molteplicità d'uffici che riguardano la vita spirituale nella fase presente: sacerdozio ed opere di misericordia. È noto infatti che nel regno di Dio non ci sarà più, come funzione, il sacerdozio, perché non vi saranno più uomini da salvare, né vi saranno più le opere di misericordia, perché non ci saranno più uomini miseri. Tutte queste cose devono essere stimate per quel che sono e, di conseguenza, amate per quel che sono. L'amore retto richiede un giudizio retto. "Giustamente e santamente vive solo chi è un imparziale stimatore delle cose, cioè chi ama ordinatamente" [124]. Ma l'amore non è ordinato se non si conforma all'ordine stesso delle cose. Ora le cose di cui stiamo parlando sono mezzi a nostra disposizione in vista del fine da raggiungere, mezzi necessari, sì, ma sempre e soltanto mezzi. Sarebbe dunque deplorevole, oltre che stolto, trasformarli in fine, arrestarsi ad essi, o anche lasciarsi solo frenare da loro nel movimento verso la patria. In questo caso saremmo simili a quel viandante che, avendo a disposizione una carrozza per raggiungere più presto e più comodamente la meta, si lascia attrarre tanto dall'interesse per quello strumento che rallenta il passo o, peggio, dimentica la meta e si ferma. Le cose invece di cui possiamo e dobbiamo godere sono quelle eterne, cioè Dio e coloro che insieme a noi possono essere partecipi di Dio: il prossimo. Ma del prossimo possiamo goderne a condizione che lo amiamo in Dio e che in esso amiamo Dio, a somiglianza di ciò che avviene nella città celeste, che è, secondo la celebre definizione agostiniana, "la società ordinatissima e concordissima di coloro che godono di Dio e godono l'uno dell'altro in Dio" [125]. Ideale più sublime, più umano, più pieno non ci poteva presentare: vi brilla la carità in tutte le sue forme, la carità una e molteplice, contemplante ed operante, che abbraccia Dio, noi stessi, gli uomini, gli Angeli. Abbiamo ricordato rapidamente tre fecondi principi, la cui meditazione può aiutare il religioso a mettere in pratica l'arduo programma della Regola, quello di far trionfare in tutte le cose che passano la luce divina della carità, che permane. Il primo lo aiuta a restringere i propri bisogni, il secondo a svuotarsi dall'innato, inguaribile egoismo, il terzo a sentire la strumentalità delle cose temporali e ad immergersi sempre più nell'eterno.
     

2. Amicizia

 

Ho detto non certo molto, ma almeno qualcosa della carità. Non dispiaccia al lettore se mi trattengo un poco sull'amicizia che, insieme alla carità, fu la grande passione del cuore del Vescovo d'Ippona. All'amicizia secondo S. Agostino sono stati dedicati non pochi studi che non è il caso ora di recensire. Qui, per riassumere, si può dire che tre cose sono certe:

1) che S. Agostino sentì profondamente il bisogno dell'amicizia e ne ebbe il culto;

2) che contribuì decisamente a trascrivere l'ideale classico dell'amicizia nella concezione della vita cristiana, dimostrando che in essa, nella vita cristiana, quell'ideale trova il perfezionamento e l'inveramento;

3) che introdusse questo ideale così inverato nell'organizzazione della vita monastica.

Per chiarire queste affermazioni basteranno pochi accenni.

  • Il bisogno e il culto dell'amicizia. S. Agostino non sa concepire la vita senza amicizia. Una vita simile gli sarebbe sembrata vuota, insipida, tenebrosa. Nella pienezza degli anni, dopo una bella pagina sulle consolazioni dell'amicizia, scrive questo celebre aforisma che rivela il suo animo e quello degli uomini: "in quibuslibet rebus humanis nihil est bomini amicum sine homine amico"; in tutte le cose umane nulla è caro all'uomo che non abbia un amico [126]. Difatti, l'amicizia fiorì spontanea intorno a lui, e non fu mai solo. Dall'innominato amico della gioventù la cui improvvisa morte gli suggerì pagine memorabili nelle Confessioni [127] all'amicizia "dolcissima" con Alipio, Nebridio, Evodio, Severo, Profuturo, Possidio e tanti altri in Africa e oltre il mare, fino alla morte, quando intorno al suo letto si raccolsero tanti vescovi suoi colleghi ed ammiratori, fu sempre circondato da amici che amò e dai quali fu riamato. Per portare qualche testimonianza, scrive di Nebridio: "Anche Nebridio aveva lasciato il paese natio, nei pressi di Cartagine, e poi Cartagine stessa, ove lo s'incontrava sovente, aveva lasciato la splendida tenuta del padre, lasciata la casa e la madre, non disposta a seguirlo, per venire a Milano con l'unico intento di vivere insieme a me nella ricerca ardentissima della verità e della sapienza" [128]; e di Severo: "Tu mi conosci come io conosco me stesso... essendo tu un'altra anima mia, anzi l'anima mia e tua non sono più che un'anima sola" [129]; e di Alipio, "fratello del mio cuore" [130]: "Chi ci conosce potrebbe dire che io e lui siamo due (persone) non quanto all'animo ma quanto al corpo; solo, beninteso, per la nostra concordia e amicizia fedelissima, non per i meriti, in cui egli mi supera" [131]. Del resto egli sentiva vere e approvava le parole di Orazio che aveva definito l'amico (Virgilio) metà dell'anima sua [132], come pure approvava la definizione dell'amicizia data da Cicerone: "L'amicizia - afferma egli e lo afferma giustamente - è il perfetto accordo su tutte le cose divine e umane, accompagnato da benevolo affetto" [133].
  • L'ideale cristiano dell'amicizia. Egli si sentiva inserito, per elezione e per indole, nella corrente dell'ideale classico dell'amicizia, di cui conosceva bene le opere, molte e pregevoli, a cominciare da quella a lui più vicina e più cara: L'Amicizia di Cicerone [134]. Divenuto però cristiano, il suo sforzo fu quello di mostrare inverato nel cristianesimo questo grande ideale umano. Lo fece approfondendo la nozione, la proprietà, il fine. Osserva che non può esserci vera amicizia se non sul fondamento della verità. "Nessuno può essere amico dell'uomo se prima di tutto non sia amico della verità" [135]. Osserva poi che se l'amicizia importa - secondo la definizione classica - l'accordo nelle cose umane e divine, non può esserci pieno accordo in, quelle umane se c'è disaccordo in quelle divine. "Questo accade perché è inevitabile che stimi le cose umane diversamente da quel che si conviene colui il quale disprezza le cose divine, e che non sappia amare rettamente l'uomo chiunque non ama Colui che ha creato l'uomo" [136]. Il fondamento dunque dell'amicizia è l'amore di Dio. S. Agostino v'insiste: "Ama veramente l'amico chi ama Dio nell'amico o perché Dio è in lui o perché sia in lui" [137]. Ne segue che l'amicizia vera è è quella che Dio annoda con la sua grazia. "Non c'è vera amicizia - scrive nelle Confessioni - se non quando l'annodi tu fra persone a te strette col vincolo dell'amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato" [138]. Da quella premessa deriva un'altra conseguenza importante: la vera amicizia trova solo nel Cristo il suo vincolo e la sua forza. S. Agostino lo scrive al papa Bonifacio, proponendo insieme e la nozione dell'amicizia e il posto che in essa occupa l'amore per Cristo. "Benché sia molto in alto, non disdegni d'essere amico degli umili e di rendere l'amore a chi te lo ha offerto, che ti viene reso. E che altro è l'amicizia se non questo? L'amicizia che non ha preso il nome se non dall'amore e non è fedele se non nel Cristo, solo nel quale può essere eterna e felice?" [139]. Dunque l'amicizia è amore reciproco - amore offerto e reso - e solo nell'amore di Cristo resta fedele e diventa eterna. Queste due prerogative - fedeltà ed eternità - appartengono alla natura stessa dell'amicizia. Su di esse S. Agostino insiste commentando la definizione classica alla luce dei precetti cristiani dell'amore di Dio e del prossimo. "Nel primo comandamento, scrive, c'è il perfetto accordo sulle cose divine, nel secondo quello sulle cose umane, accompagnato da affettuosa benevolenza. Se insieme con me li osserverai con la massima fedeltà, la nostra amicizia sarà sincera ed eterna e ci unirà, non soltanto l'uno all'altro, ma anche allo stesso Signore" [140]. Le altre due prerogative che mette in rilievo sono la fiducia e la libertà: sull'una e sull'altra le pagine agostiniane sono commoventi. Si veda la corrispondenza con S. Girolamo, particolarmente le Lettere 73 e 82: la prima sulla fiducia [141], la seconda sulla libertà. "Ci piaccia nelle nostre mutue relazioni non solo la carità, ma anche la libertà dell'amicizia" [142].
  • L'ideale cristiano dell'amicizia e la vita monastica. Dopo aver mostrato l'inveramento dell'amicizia nell'ideale cristiano - in esso infatti l'amicizia può essere, come dev'essere per natura, non solo sincera ma anche fedele e perpetua, fiduciosa e libera -, S. Agostino non poteva non inserirla nell'ideale monastico che di quello cristiano è, sul piano della tendenza, la perfezione. Ve lo inserì di fatto ponendo come fondamento la perfetta vita in comune - Tutto sia comune tra voi (n. 4) -, come centro la carità - Vivete unanimi e concordi (n. 9) -, come aspirazione la piena comunione o amicizia: un solo cuore e un'anima sola in Deum (n. 3). L'aggiunta in Deum, verso Dio, che indica intenzione, tensione e movimento, è essenziale, perché solo in Dio, e nella sua città, i fratelli possono costituire quella concordissima e ordinatissima società i cui membri godono di Dio e l'un dell'altro in Dio" [143]. Non c'è chi non riconosce in queste parole la definizione agostiniana della Città di Dio nella sua condizione escatologica e definitiva, quando cioè ha raggiunto la piena comunione o la vera e piena amicizia. Questo inserimento nacque ben presto nell'animo di Agostino. Un passo dei Soliloqui, scritti prima del battesimo, ce lo assicura. Vi si parla della ricerca della sapienza e nota che la presenza degli amici non solo non ne costituisce un impedimento, ma un aiuto per trovarla prima e meglio. "Voglio chiederti però perché desideri che le persone a te care vivano e convivano con te. Agostino risponde: affinché possiamo indagare in concorde collaborazione sulla nostra anima e su Dio. Così colui che per primo avrà risolto il problema, indurrà senza fatica al medesimo risultato anche gli altri." [144].

3. Carità e amicizia

 

Ma a questo punto s'impone la necessità di chiarire un equivoco o, se si vuole, di sciogliere un problema che le relazioni tra la carità e l'amicizia non permettono di eludere. In questi ultimi tempi si è parlato spesso dell'amicizia come espressione fondamentale del carisma monastico agostiniano, anzi qualcuno ha spezzato non una lancia ma quante credeva di averne a disposizione per sostenere questa tesi: la vera amicizia, si è detto, è l'essenza dell'ideale monastico agostiniano. Ma in questo modo o si parla con troppa imprecisione creando confusioni pericolose, o si lasciano indietro molte cose che pur il Vescovo d'Ippona ha insistentemente inculcato. Prima di tutto bisogna fare un'affermazione di fondo: l'amicizia non s'identifica con la carità anche se non può prescindere da essa. Addurre dunque i testi che parlano della carità e intenderli come detti dell'amicizia può diventare, e diventa di fatto, una ignoratio elenchi. Non la commettiamo e sarà tanto di guadagnato per l'autenticità dell'ideale monastico agostiniano.

Non cito autori perché non amo far polemiche con i confratelli. Ho scritto altrove a proposito d'un santo agostiniano che ebbe profondo e delicato il senso dell'amicizia: "Spesse volte, parlando della vita comune, particolarmente comune come Agostino l'intese - un solo cuore ed un'anima sola -, si confonde tra carità ed amicizia.

La seconda non può stare senza la prima, ma la prima non s'identifica con la seconda. Tutt'altro! Quando ci si comanda di amare i confratelli anche se non ci sono simpatici, di sopportarne i difetti anche se sono fastidiosi, di dissimularne le stranezze anche se sono frequenti, non si tratta di amicizia, si tratta di carità. Di quella carità che è, secondo S. Paolo, paziente, benigna, non invidiosa..., che non tiene conto del male ricevuto..., tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (1 Cor 13, 4-7)" [145]. In altre parole, la carità, è amore oblativo, l'amicizia amore reciproco, e, per di più, fiducioso, confidente, stabile, sicuro, gioioso. La carità tende a creare questa bella amicizia, ma non sempre, anzi pienamente mai, qui in terra ci riesce. E quando non ci riesce o per colpa o senza colpa devono soccorrere le prerogative della carità descritte dall'Apostolo. S. Agostino lo sa e lo mette in pratica e lo raccomanda ai suoi discepoli. Nel passo dei Soliloqui citato sopra, egli continua così. "E se essi (gli amici che desiderava e prevedeva sarebbero vissuti insieme a lui) non volessero indagare su tali argomenti (cioè ricercare con tutta l'anima la sapienza)? Li convincerò a volere. E che avverrebbe se tu non lo potessi o perché ritengono che sono già arrivati o che tali conoscenze non si possono raggiungere o perché sono ostacolati dal pensiero e dal desiderio di altre cose?".

Ed ecco la risposta degna di attenta meditazione: Habebo eos, et ipsi me, sicut possumus; staremo insieme come potremo [146]. Altro che amicizia! Qui si tratta di carità, solo di carità, e per di più d'una carità forte, generosa, paziente. Senza queste prerogative la carità viene meno affatto, e con la carità viene meno ogni speranza di stabilire l'amicizia.

S. Agostino raccomanda, l'ascetismo della carità nella Regola, nelle Lettere, nei Discorsi [147]. Basterà rileggere l'insistenza della Regola sulla correzione fraterna e sul perdono delle offese e il commento al salmo [99] sulla sopportazione dei "falsi fratelli". Questo commento, tenuto dopo molti anni di esperienza monastica, rivela la profonda conoscenza che S. Agostino aveva del cuore umano e il suo realismo che professava nei riguardi dell'ideale monastico, del quale pur era innamorato. Vivere solo tra i buoni il cristiano non lo può, neppure ritirandosi nel monastero. Certo il monastero è un porto, ma anche nel porto entra il vento. Dove dunque la quiete? La risposta è secca e tagliente: Hic nusquam; quaggiù in nessuna parte [148]. S. Agostino lo sa per esperienza: gode dell'amicizia quando gli riesce di stabilirla [149], soffre quando le necessità ecclesiastiche costringono gli amici a starsene lontani da lui [150], geme per gli scandali di chi non comprende l'ideale monastico o lo tradisce [151], pronuncia sulla condotta dei "falsi" monaci giudizi che per la loro crudezza fanno trasecolare [152]. Perciò, raccomanda di non lodare la vita monastica imprudentemente - costituirebbe un inganno per chi vuole abbracciarla e produrrebbe un'amara delusione -, come pure, s'intende, di non biasimarla ingiustamente [153].

Un uomo simile, parlando della vita monastica che ama, difende e diffonde, non può mettere l'accento sull'amicizia, non perché questo concetto contenga qualcosa di meno nobile o, come qualcuno potrebbe pensare, di pericoloso per la vita religiosa - si tratta sempre infatti di amicizia comunitaria, cioè aperta a tutta la comunità senza esclusioni e fondata sull'amore di Cristo -; ma perché sa che questo ideale è molto lontano e non è mai raggiungibile, pienamente, quaggiù. Metterà l'accento piuttosto, come lo mette di fatto, sulla carità che promuove l'unità di mente e di cuore, che cerca di stabilire, con umiltà, pazienza e generosità, quella corrispondenza di affetti che si avvicina progressivamente all'amicizia che regna tra i santi nel cielo, quando essa, la carità, avrà compiuto il suo più grande miracolo che è questo: escludere ogni ombra d'invidia, fare in modo che sia comune a tutti quello che è proprio dei singoli [154]. Perciò, come raccomandazione fondamentale di S. Agostino a coloro che vivono insieme nei suoi monasteri, valgono queste sapienti parole le quali, partendo da una costatazione negativa, ne indicano il rimedio positivo: "i recipienti di fango si procurano angustie a vicenda.

Sed si angustiantur vasa carnis, dilatentur spatia caritatis; se si trovano nella angustie i recipienti di carne, si dilatino gli spazi della carità" [155]. Proprio così. Spesso - non voglio dire: troppo spesso, per non apparire pessimista - i recipienti di carne, cioè la nostra povera, fragile, malridotta natura umana, simile ad un vaso di terracotta, anche nel monastero, si sente stretta, urtata, pungolata, e rischia d'infrangersi. Si allarghino allora gli spazi della carità, e tutto sarà salvo. Sarà salva l'unitas caritatis che costituisce il fine stesso della vita monastica e la preparazione migliore alla vita eterna dove questa unitas sarà perfetta e imperturbabile e con essa piena ed eterna la vera amicizia, perché pieno ed eterno il reciproco amore.

 

 

(72) - A. Trapè, Agostino mistico, in La mistica, Città Nuova, Roma 1984, I, 339.

(73) - De Doctr. christ. 1, 35, 39; 3, 10, 15; Sem. 350­

(74) - Ep. 137, 5, 17.

(75) - De Trin. 14, 1, 3.

(76) - De catech. rudibus 12, 17.

(77) - Epp. 137, 5, 17; 138, 2, 15.

(78) - Da nat. et gr. 70, 84.

(79) - Contra duas epp. Pelag. 4, 5, 11; In Io. Ev. tr. 26, 4-5.

(80) - In Io. Ev. tr. 87, l.

(81) - In Io. Ep. tr. 7, 8; 8, 9.

(82) - In Io. Ep. tr., 7, 8; 10, 7.

(83) - In Io. Ev. tr. 32, 8.

(84) - Serm. 23, 9; 157, 16; ecc.

(85) - In Io. Ev. tr. 7, 8.

(86) - A. Trapè, op. cit., 339. Per la spiegazione delle singole, cf. ivi; pp. 339-344.

(87) - Serm. 350, 2-3.

(88) - De catech. rudibus 23, 42.

(89) - Contra Faustum 5, 9.

(90) - Serm. 116, 6.

(91) - Enarr. in ps. 132, 1, 2.

(92) - Enarr. in ps. 30, s. 2, 2

(93) - Enarr. in ps. 132, 2.

(94) - Enarr. in ps. 132, 6.

(95) - Solil. 1, 12, 20.

(96) - Solil. 1.

(97) - Confess. 13, 9, 10.

(98) - Enarr. in ps. 33, s. 2, 6-7.

(99) - Ep. 155, 1.

(100) - Confess. 4, 8, 13.

(101) - Regola, 43.

(102) - Rom 15, 6.

(103) - 1 Cor 3, 16.

(104) - Enarr. in ps. 131, 5.

(105) - Ep. 243, 4.

(106) - At 2, 41.42-46.

(107) - Enarr. in ps. 132, 6.

(108) - 1 Gv 13, 35.

(109) - De civ. Dei 19, 13.

(110) - In Io. Ev. tr. 67, 2.

(111) - Regola, 31.

(112) - Enarr. in ps. 134, 10.

(113) - Regola, 3 l.

(114) - De civ. Dei 14, 28.

(115) - De Gen. ad litt. 11, 15, 20.

(116) - Cf. De civ. Dei 12, 1, 2.

(117) - De Gen. ad litt. 11, 15, 20.

(118) - 1 Cor 13, 5.

(119) - 2 Cor 5, 15.

(120) - Rom 1, 25.

(121) - Serm. 359, 1-2.

(122) - Serm. 359, 4.

(123) - Enarr. in ps. 105, 34; cf. il mio art. Il principio fondamentale della spiritualità agostiniana e la vita monastica, in S. Aug. vitae spiritualis magister, I, Roma 1958, pp. 1-41.

(124) - De doctr. christ. 1, 24.

(125) - De civ. Dei 19, 13, 1.

(126) - Ep. 130, 2, 4.

(127) - Confess. 4, 4, 7 - 7, 12.

(128) - Confess. 6, 10, 17.

(129) - Ep. 110, 2-4.

(130) - Confess. 9, 4, 7.

(131) - Ep. 28, 1, l.

(132) - Confess. 4, 6, 1 l.

(133) - Ep. 258, l.

(134) - Cf. M. TESTARD, St. Aug. et Cicéron, I-II, Paris 1958.

(135) - Ep. 155, l.

(136) - Ep. 258, 2.

(137) - Serm. 3 3 6, 2.

(138) - Confess. 4, 4, 7.

(139) - Contra duas epp. Pelag. 1, 1, l.

(140) - Ep. 258, 4.

(141) - Ep. 73, 10

(142) - Ep. 82, 36.

(143) - De civ. Dei 19, 13.

(144) - Solil 1, 12, 20.

(145) - San Nicola da Tolentino, Tolentino 1985, p. 58.

(146) - Solil. 1, 12, 20.

(147) - Vedi sotto, c. 4 di questa Introduzione.

(148) - Enarr. in ps. 92, 11.

(149) - Cf. Ep. 73, 10.

(150) - Cf. Ep. 84, l.

(151) - Serm. 355-356.

(152) - Ep. 78, 9; vedi appresso, c. 4.

(153) - Enarr. in ps. 99, 12-13.

(154) - In Io. Ev. tr. 69, l.

(155) - Sem. 69, 1.