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Contenuto Dottrinale

Milano: sant'Agostino in un dipinto di Foppa

sant'Agostino in un dipinto di Foppa

 

 

LA REGOLA: CONTENUTO DOTTRINALE

di p. Agostino Trapé

 

 

 

 

Capitolo ottavo

AUTORITÀ ED OBBEDIENZA

 

Il breve capitolo che la Regola dedica all'autorità e all'obbedienza rivela meglio degli altri la profonda rivoluzione che il Vescovo d'Ippona introdusse nella vita monastica. Egli si occupa principalmente del primo termine del binomio, senza trascurare, evidentemente, il secondo. Scrivendo, attinge alle sue intuizioni di fine psicologo, ma anche e soprattutto alle sue esperienze di superiore premuroso, delicato, buono; d'una bontà sempre pronta a servire, ma anche pronta, quando la necessità lo richiedesse, a mostrarsi ferma e decisa.

1. Autorità

Possiamo riassumere il suo pensiero così: il superiore dev'essere padre, servo e modello della comunità di cui è responsabile davanti a Dio. Questa responsabilità fa gemere S. Agostino. Si rileggano i suoi discorsi tenuti in occasione dell'anniversario della sua consacrazione episcopale [243]. Perciò la sua sentita raccomandazione al superiore: rifletta continuamente che dovrà rendere conto di voi a Dio [244]. Il pensiero della propria responsabilità lo indurrà prima di tutto a sentirsi e a mostrarsi padre.

  • Superiore-padre  Il padre deve congiungere insieme due qualità inseparabili: la bontà che si fa amare e la severità che si fa temere. Queste due qualità sono tutt'e due necessarie, ma soprattutto la prima. " ...sebbene siano cose necessarie entrambe, tuttavia preferisca piuttosto di essere amato che temuto" [245]. Così la Regola. Farsi temere è indispensabile: sarebbe un grave errore non crederlo. È indispensabile per due ragioni, che la Regola esplicitamente menziona: imporre l'osservanza della legge e correggere le infrazioni. Sarà compito speciale del superiore far osservare tutte queste norme; non trascuri per negligenza le eventuali inosservanze ma vi ponga rimedio con la correzione [246]. Ma egli non potrà assolvere questo compito senza un'autorità riconosciuta, rispettata e temuta. S. Agostino ne è tanto convinto che non comanda al superiore di chiedere perdono ai propri sudditi anche quando si accorga di aver usato troppa durezza nel riprenderli; mentre gli comanda di ricorrere all'autorità del superiore maggiore per imporre la disciplina in quelle circostanze nelle quali non arriva la sua competenza o non bastano le sue forze. Nel primo caso come nel secondo lo scopo della prescrizione è lo stesso, cioè quello di difendere l'autorità, che dev'essere forte per essere efficace. Nel primo caso questo motivo è espresso in tutte lettere: affinché non avvenga - si legge nella Regola - che una troppo grande umiltà verso i sudditi spezzi il prestigio dell'autorità del superiore [247]. Non già che sia l'umiltà ad indebolire l'autorità, anzi l'umiltà la rafforza; dà infatti a chi la possiede una superiorità che l'orgoglio non conosce e una maestà che suscita negli altri rispetto e venerazione - ubi humilitas, ibi maiestas [248]; ma sono certi modi di manifestare questo nobile e forte sentimento - l'umiltà - che possono generare in alcuni spiriti poco profondi un'idea falsa dell'autorità, quasi che, mostrandosi umile, diventasse debole ed incerta. Perciò, S. Agostino non comanda - anche se non proibisce - di chiedere perdono. Il superiore però deve umiliarsi profondamente davanti a Dio e chiedergli perdono per non aver saputo conservare nella riprensione la giusta misura. Dunque il superiore, anche se dev'essere un padre, anzi appunto perché dev'essere un padre, non può dimenticare che ha l'obbligo di farsi temere, e d'imporre, sia pure, se necessario, col timore il rispetto della disciplina. L'esigenza del rispetto può giungere fino al rimedio estremo, che è l'espulsione dalla comunità. Lo abbiamo visto sopra: S. Agostino stesso - abbiamo visto anche questo - ha dato, nei riguardi della disciplina monastica, rari esempi di fortezza. È necessario farsi temere; ma soprattutto, per un superiore, è necessario farsi amare: preferisca piuttosto, ci dice la Regola, di essere amato che temuto. Splendido e luminoso principio che porta l'impronta del genio e dell'animo di S. Agostino! La ragione di esso sta nelle parole che seguono: riflettendo continuamente che dovrà rendere conto di voi a Dio [249]. S. Agostino si appella, come si vede, al senso profondo della responsabilità, non davanti agli uomini, che sarebbe poco, ma davanti a Dio. Se non che questa ragione sembrerebbe dimostrare proprio il contrario; in quanto il senso della responsabilità sembrerebbe spingerlo piuttosto alla severità, da cui nasce il timore, che alla bontà, da cui nasce l'onore. In realtà, invece, è S. Agostino che ha ragione. Il senso della responsabilità spinge il superiore prima di tutto a volere fermamente e a promuovere con tutti i mezzi l'osservanza regolare, che è fonte di santificazione per le anime e di onore a Dio. Ora, considerando attentamente il cuore dell'uomo, l'osservanza della legge si ottiene più con l'amore che con il timore. Il timore infatti entra nell'animo per preparare il posto all'amore: finché il richiamo dell'amore è debole, lo stimolo del timore è necessario; intendiamo per timore il timore della pena. Ma finché per compiere il proprio dovere è necessario il timore, la stabilità della vita spirituale resta vacillante e la fecondità limitata: solo l'amore rende la vita spirituale sicura e feconda. Perciò il superiore libererà tanto più la sua coscienza dalla responsabilità verso Dio, quanto più riuscirà ad infondere nella comunità, che gli è stata affidata, l'amore per l'osservanza religiosa, e perciò anche per il superiore che la rappresenta e la tutela. Ma come farà il superiore a farsi amare senza diventare connivente con l'inosservanza e l'indisciplina? Non è facile rispondere a questa domanda. Più che da uno studio, da un'arte, da un impegno particolare ciò dipende da diverse qualità naturali e soprannaturali, combinate in bella maniera e tanto felicemente da produrre, anche senza che la persona se ne avveda, un effetto singolare di simpatia, di stima, di rispetto. Da questi sentimenti a quello dell'amore il passo è breve. La Regola ne indica due di queste qualità, che sono poi le principali: l'umiltà e la esemplarità. L'umiltà che non ama comandare, ma ubbidire, che accetta il superiorato, non lo desidera; che non cerca in esso l'onore e il potere, ma il volere di Dio e il servizio dei fratelli; che fa, in altre parole, del comando un atto costante di obbedienza. L'esemplarità che crede fermamente nell'ideale religioso, che stima sinceramente le norme che ne assicurano il compimento, che si studia costantemente di mostrarsi modello delle buone opere.
  • Superiore-servo    "Chi vi presiede non si stimi felice perché domina col potere, ma perché serve con la carità" [250]. Queste parole della Regola enunciano un programma - il programma sempre antico e sempre nuovo del Vangelo - che S. Agostino attuò fedelmente per tutta la vita. Enunciano anche una dottrina che, per il Vescovo d'Ippona, sta al centro della spiritualità propria dei sacerdoti e di quanti, nella Chiesa, hanno una responsabilità direttiva. "Nella casa dell'uomo giusto, che vive di fede ed è ancor pellegrino, lontano dalla città celeste - si legge in una bella pagina del De civitate Dei - anche coloro che comandano, servono a quelli cui sembrano comandare. Infatti non comandano per la cupidigia di dominare, ma per il dovere di aiutare, non per l'orgoglio di essere i primi, ma per la misericordia di provvedere [251]. S. Agostino ci lasciò rari esempi di questo servizio d'amore; un amore disinteressato, umile, generoso: infatti si sentì e fu in realtà e senza risparmio servo di tutti, vicini e lontani. In merito a questo servizio sviluppò una splendida dottrina che ne svela tutte le ricchezze teologiche e pastorali. Ma di questo ho parlato altrove [252]. Qui riporto solo un testo che ci mostra le stupende radici cristologiche di questa dottrina e le sue profonde conseguenze, che impegnano il superiore a cercare non i propri interessi, ma gli interessi di Cristo. "Che altro vuol dire (il Signore con quelle parole a S. Pietro): Mi ami tu? Pasci le mie pecore, se non: se mi ami non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua; il mio dominio, non il tuo; il mio guadagno e non il tuo; se non vuoi essere del numero di coloro che appartengono ai tempi difficili, i quali sono amanti di se stessi, con tutto quel che deriva da questa sorgente d'ogni male". "Non amiamo dunque - conclude il Santo - noi stessi, ma il Signore; e nel pascere le sue pecore, non cerchiamo i nostri interessi, ma i suoi" [253]. Queste parole - non occorre dirlo - hanno una singolare profondità psicologica, in quanto ci avvertono di un grave pericolo, che si traduce spesso in inganno, che consiste nel pensare di servire gli interessi di Cristo, mentre in realtà si servono i propri, o almeno si servono anche i propri. Ciò avviene quando si chiede, sia pure inconsapevolmente, al ministero pastorale - e il superiore come tale è un pastore - di soddisfare non dirò a sordidi interessi, ma alla nostra piccola gloria e alla sete, che tutti più o meno sentiamo, di onore e di potere. In questo caso, non infrequente, si fanno insieme due cose: si servono le anime e ci si serve di loro. Per evitare questo sottile inganno S. Agostino raccomanda a tutti i superiori di pascere le pecore di Cristo, ma come pecore di Cristo, non come proprie; desiderando cioè che esse siano totalmente ed esclusivamente di lui e in nessun modo nostre.
  • Il superiore-modello   La terza qualità del superiore, descritta dalla Regola, e la seconda di quelle che gli sono più necessarie per farsi più amare che temere, è mostrarsi ed essere modello nell'operare il bene. Si offra a tutti come esempio di buone opere [254]. È il precetto della Regola, che è, poi, la traduzione di quello dato dall'Apostolo a Timoteo [255]. Tra queste opere vengono ricordate esplicitamente quelle che S. Paolo ricorda ai fedeli di Tessalonica [256]: Moderi i turbolenti, incoraggi i timidi, sostenga i deboli, sia paziente con tutti [257]. Sarebbe interessante percorrere queste opere una per una e indicare quei suggerimenti che possano aiutare il superiore a compierle con esemplarità; ma si andrebbe troppo per le lunghe. Utili consigli si possono trovare nella terza parte della Regola pastorale di S. Gregorio Magno. Qui basterà rilevare che la radice di tutte queste opere buone è l'amore; un amore forte e generoso, che è lieto di dare senza chiedere, lieto di servire senza voler essere servito. In un discorso, che poco fa ho raccomandato di leggere, S. Agostino riassume così i suoi doveri di pastore: "Dobbiamo moderare i turbolenti, incoraggiare i timidi, sostenere i deboli, riprendere i contraddittori, evitare gli invidiosi, istruire gli indotti, scuotere i pigri, frenare i rissosi, reprimere i superbi, pacificare i litiganti, aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, approvare i buoni, tollerare i cattivi, amare tutti" [258]. Molte di queste opere sono proprie anche del superiore, di ogni superiore. La radice di esse sta nell'ultimo inciso: amare tutti. Proprio così. L'amore si conquista con l'amore, e quando in una comunità c'è la gioia dell'amore, la vita spirituale è assicurata. Ricorderemo a questo proposito che la celebre espressione di S. Agostino, così spesso ripetuta e così spesso interpretata male: ama e fa' ciò che vuoi, è stata scritta a proposito della correzione fraterna, che è uno dei compiti principali, e tra i più difficili, del superiore. "Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa' ciò che vuoi, sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che tu perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell'amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene" [259]. Ricorderò poi che la carità è una, ma varia il suo atteggiamento secondo le necessità della persona a cui si rivolge. Non posso fare a meno di citare a questo proposito il seguente testo agostiniano. Vi si parla di chi, per dovere di carità, deve provvedere a tante diverse persone, e a ciascuna secondo il suo bisogno particolare. "Si deve a tutti la stessa carità - scrive il Santo - ma non a tutti la stessa medicina. La carità infatti, pur essendo la stessa, genera gli uni e si conforma alla debolezza degli altri; gli uni si studia di edificarli, gli altri teme di offenderli; di fronte a uno si umilia, di fronte a un altro si erge con fierezza; con alcuni è blanda, con altri è severa; a nessuno è nemica, per tutti è madre" [260]. Per tutti è madre! Il segreto d'un superiore pio e saggio non poteva essere espresso più efficacemente.

2. Obbedienza

S. Agostino non ebbe occasione di scrivere un trattato intorno all'obbedienza come la ebbe di scriverlo intorno alla verginità, né d'insistere su l'argomento dell'obbedienza come dové insistere su quello della povertà. Perciò la sua dottrina su questo argomento - intendiamo su l'obbedienza religiosa - non è così ricca come è ricca quella su la verginità e la povertà. Anzi abbiamo già osservato che toccando l'argomento relativo al binomio autorità e obbedienza preferisce fermarsi sul primo termine, forse perché, essendo vescovo e mal soffrendo il grave peso della sua responsabilità, credeva più opportuno e più pastorale ricordare a se stesso i suoi doveri che quelli degli altri. Non v'è dubbio però che la dottrina intorno al potere e all'arte del comando illumina anche il dovere e la natura dell'obbedienza. A questo proposito la Regola è brevissima, ma molto efficace. Ai tre doveri del superiore - padre, servo e modello - fa corrispondere tre doveri dei sudditi, che sono: obbedienza, onore e compassione.

  • Si obbedisca al superiore come ad un padre L'obbedienza dev'essere filiale e soprannaturale. Anzitutto filiale. Le parole della Regola che abbiamo riferite sono un raggio di luce il cui splendore illumina un vasto panorama. Si obbedisca al superiore come ad un padre [261]. Dunque la comunità è una famiglia, dunque in essa v'è uno che ha il compito e l'ufficio di padre, dunque tutti debbono essere, sentirsi e operare come figli. Ma il figlio sa che deve ubbidire a suo padre, ubbidire con amore, con gioia, con spontaneità; ma ubbidire. È un'esigenza di ogni società umana, la cui pace consiste appunto nell'"ordinata concordia dei membri nel comandare e nell'ubbidire". È un'esigenza della disponibilità di tutti alle opere di Dio. Si ricorderà che S. Agostino accettò il sacerdozio solo per ubbidire e ricordò a tutti e spesso il dovere dell'obbedienza. È un'esigenza della nostra pace interiore, che trova la sua radice nel saper compiere con amore il volere di Dio. "Piace a Dio - dice acutamente il Vescovo d'Ippona - colui al quale piace Dio" [262], piace non già nella sua bellezza, che è troppo naturale, ma nelle sue disposizioni, anche se, spesso, spiacevoli alla natura. Per questo la Regola continua indicando la vera ispirazione dell'obbedienza: ... col dovuto rispetto per non offendere Dio nella persona di lui [263]. Il superiore che fa le veci di Dio è, intesa rettamente, un'idea evangelica, che S. Agostino riprende. Gioverebbe ripetere qui quanto il santo dottore dice a proposito dell'obbedienza come virtù "radicale" e"fontale"[264], e perciò, in questo senso, "origine, madre e custode di tutte le virtù" [265]; come pure il paragone che egli istituisce tra l'obbedienza - nel senso predetto - e la verginità [266], ma il lettore vorrà scusare la nostra fretta.
  • ... sia tenuto in alto per l'onore Al superiore non si deve solo l'obbedienza, ma anche l'onore. Questo sarà per lui un motivo di più per umiliarsi davanti a Dio, ma l'atteggiamento interiore, umile e sincero, del superiore non dispensa gli altri dal compiere il proprio dovere. Certe forme di mal compresa democrazia non entrano nelle categorie agostiniane. Davanti a voi, prescrive la Regola, (il superiore) sia tenuto in alto per l'onore, davanti a Dio si prostri per timore ai vostri piedi [267]. Onore e umiltà: umiltà da parte del superiore, onore da parte degli altri. Così, anche sotto questo aspetto, si realizza quella composizione dei contrari che costituisce la mirabile armonia della vita comune. Del resto il dovuto onore prestato al superiore è un aspetto di quello che si deve a tutti i fratelli, ed è un segno di stima, anzi un bene necessario per la comunità. S. Agostino infatti osserva col solito acume che, se al superiore non gli viene prestato il dovuto onore, il male non è per lui, ma per coloro che non lo prestano, cioè per la comunità; allo stesso modo, se il dovuto onore gli viene prestato, chi se ne avvantaggia non è il superiore, ma la comunità [268]. Il superiore, poi, solo per questa ragione, cioè per il bene della comunità, può convenientemente accettare o anche volere tale onore [269]. A condizione che non lo ami. E se lo amasse? Potremmo rispondere con una forte parola: peggio per lui. Alla comunità non ne viene nessun danno. Quando non sia quello di avere un superiore spiritualmente assai mediocre. Ma anche qui S. Agostino ci ammonisce. Res ista cordis est, iudicem habere non potest nisi Deum [270]. È una questione che appartiene al cuore: non può giudicarla se non Dio.
  • ...obbedendo... mostrerete pietà... anche di lui Il terzo sentimento dei sudditi verso il superiore è la compassione. La Regola lo dice esplicitamente: Perciò, obbedendo maggiormente, mostrerete pietà non solo di voi stessi ma anche di lui [271]. È un particolare interessante che basta da solo a qualificare una spiritualità. Obbedire per compassione verso il superiore! È un precetto che commuove per la sua profonda umanità e per la genuinità evangelica che racchiude. Il superiore ha una responsabilità che è sua, ma che ha per oggetto il bene degli altri; una responsabilità che, se è sapiente, non vorrebbe avere; che ha accettato e porta per amore di Cristo, gemendo e sperando. È ovvio allora che obbedendo gli si rende più facile il compito, gli si allevia il peso, lo si aiuta a portarlo con merito e ad evitare i pericoli che gli incombono. Il superiore, dice la Regola, si trova in un pericolo tanto più grande quanto più alta è la sua posizione tra voi [272]. Consapevole di questo pericolo S. Agostino chiede al suo popolo di aiutarlo con la preghiera e con l'obbedienza a portare il suo fardello. "Aiutateci pregando e obbedendo... Poiché come noi dobbiamo pensare con grande timore e sollecitudine alla maniera di compiere irreprensibilmente l'ufficio pontificale, così voi dovete stare attenti a prestare umile obbedienza a tutte le cose che vi siano comandate" [273]. E altrove: "Le mie uniche ricchezze sono la vostra speranza in Cristo. La mia gioia, il mio sollievo, il mio respiro tra i pericoli e le prove dell'ufficio altro non è che la santità della vostra vita, Fratelli, se non avete pietà di voi stessi, abbiate, ve ne supplico, pietà di me!" [274]. Voglio terminare con un pensiero agostiniano che assicura, qualunque sia la condotta del superiore, la coscienza dei sudditi. "Ecco nel nome di Cristo ci apprestiamo ad andarcene - il discorso è tenuto a Cartagine - e diranno (i donatisti) molte cose contro di noi. Ma a quale scopo? Mettete subito da parte la nostra causa. Non rispondete se non a questo: Fratelli, state alla questione; Agostino è vescovo nella Chiesa cattolica, porta il suo fardello di cui renderà conto a Dio, so che è buono, ma se fosse cattivo è affare suo; ma anche se è buono, non ripongo in lui la mia speranza. Questo infatti ho imparato prima di ogni altra cosa nella Chiesa cattolica: a non riporre la mia speranza in un uomo" [275].

 

 

(244) - Regola, 46.

(245) - Ivi.

(246) - Regola, 45.

(247) - Regola, 43.

(248) - Serm. 160, 4.

(249) - Regola, 40.

(250) - Regola, 46.

(251) - De civ. Dei 19, 14.

(252) - Cf. A. TRAPÈ, Il sacerdote uomo di Dio a servizio della Chiesa, Città Nuova, Roma 19852.

(253) - In Io. Ev. tr. 123, 5.

(254) - Regola, 46.

(255) - 1 Tim 2, 7.

(256) - 1 Thes 5, 14.

(257) - Regola, 46.

(258) - Serm. 340, 1.

(259) - In Io. Ep. tr. 7, 8; cf. In Io. Ep. tr. 10, 7; Expositio ep. ad Gal. 5, 57.

(260) - De catech. rudibus 15, 23.

(261) - Regola, 44.

(262) - De civ. Dei 19, 13.

(263) - Regola, 44.

(264) - De bono coniug. 23, 30; 24, 32.

(265) - De civ. Dei 14, 12; Contra adv. Legis et Proph. 1, 14, 19.

(266) - Cf. De bono coniug. 23, 30.

(267) - Regola, 46.

(268) - Cf. Serm. 91, 5, 5.

(269) - Cf. Ep. 130, 6, 12.

(270) - Serm. 91, 5, 5.

(271) - Regola, 47.

(272) - Ivi.

(273) - Serm. 340, 2.

(274) - Serm. 232, 8.

(275) - Enarr. in ps. 36, s. 3, 20.