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sant'Agostino in un dipinto di Foppa
LA REGOLA: CONTENUTO DOTTRINALE
di p. Agostino Trapé
Capitolo quarto
VITA COMUNE O ASCETISMO DELLA CARITÀ
Ricca delle prerogative che abbiamo ricordate, la carità opera un crescente movimento di espansione nell'anima che unisce i cuori e li solleva a Dio, creando con ciò i presupposti d'una vita comune gioiosa e feconda. Ma nessuno pensi che questo movimento sia facile. Non lo è affatto. Perché si realizzi, occorre un esercizio quotidiano di umiltà, di mortificazione, di rinuncia, di disponibilità, di pazienza, di dimenticanza di sé, di dedizione agli altri; occorre, cioè, un vigilante e continuo ascetismo, il quale, compiendo progressivamente l'opera della purificazione interiore, permette alla carità di prendere il dominio totale dell'anima e di ricomporre nell'ordine le disordinate passioni umane.
1. Difficoltà della vita comune
La vita religiosa è un porto, è vero; ma anche nel porto entra il vento e le navi rischiano di rompere gli ormeggi e di urtarsi fra di loro; è un santo proposito, chi ne dubita? ma anche nella comunità dei "santi" si annidano i falsi fratelli e la loro presenza mette a dura prova la costanza ed il fervore della carità. Tutto questo S. Agostino lo sa, e vuole che si sappia. Egli rimprovera aspramente tanto gli incauti panegiristi della vita religiosa quanto i denigratori pertinaci di essa. Non è vero che tutto è brutto nella vita religiosa, anche se è vero che non tutto è bello: c'è la quiete, e c'è anche la tempesta, ci sono i buoni, e ci sono i cattivi. Anzi gli uni e gli altri vi s'incontrano in grado superlativo. "Da quando ho cominciato a servire il Signore - scrive S. Agostino dopo aver invocato Dio a testimonio della verità delle sue parole - ho incontrato difficilmente persone migliori di quelle che si sono santificate nel monastero, come pure non ho trovato persone peggiori di quelle che sono cadute nei monasteri" [172]. Lodare quindi la vita religiosa come se tutti fossero buoni è una sottilissima insidia, biasimarla come se tutti fossero cattivi è un'aperta ingiustizia. Chi loda, non dimentichi che tra i buoni sono mescolati i cattivi; chi biasima, riconosca che tra i cattivi ci sono anche i buoni. Cosi l'uno non sarà imprudente, l'altro non sarà ingiusto.
A chi, uscito dal monastero, non fa che denigrare, S. Agostino risponde: "O perfido, perché non parli dei buoni? Ti scagli contro coloro che non potesti tollerare, ma taci di coloro che tollerano la tua cattiveria" [173]. "Ci sono anche i falsi monaci, e io ne ho conosciuti, dice ancora il Santo. Ma la pia fraternità dei monasteri non perisce per colpa di coloro i quali professano di essere quel che realmente non sono. Ci sono falsi monaci, come ci sono falsi chierici e falsi fedeli. Tutt'e tre le classi... hanno i buoni e i cattivi" [174]. Certo, si sta più sicuri nel porto che in alto mare; ma anche il porto non è senza pericoli: se non c'è il pericolo d'incappare negli scogli, c'è il pericolo del vento che insidia l'incolumità delle navi. Quale il rimedio contro questo pericolo? Uno solo: la carità. La carità è forte, paziente, longanime; che scusa, crede, spera, sopporta tutto [175], che è in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno.
"Le navi nel porto si amino fra loro, sappiano stare l'una vicino all'altra, badino di non urtarsi; ci sia tra esse l'uguaglianza dell'equità (parilitas aequabilitatis) e la fermezza della carità; e, ogni qual volta il vento irromperà da quel lato per dove si entra nel porto, sappia il nocchiero destreggiarsi con cautela (cauta gubernatio)" [176]. Si sa, però, che l'azione di governo più cauta e più sapiente non basta ad evitare gli urti. S. Agostino lo confessa gemendo a proposito d'uno scandalo scoppiato nel suo monastero. "Per quanto sia vigilante la disciplina della mia casa - scrive tristemente - io sono un uomo e vivo tra gli uomini, né oso vantarmi che la mia casa sia migliore dell'arca di Noè... o migliore della casa di Abramo... o di quella d'Isacco... o migliore della casa stessa di Gacobbe... o migliore della casa di David... o migliore dei compagni di Paolo... o migliore dei compagni dello stesso Gesù ... ".
Ognuno dei termini di paragone nascondeva una colpa grave, spesso vergognosa, causa alla comunità di sopportazione e di dolore. Nell'ultimo termine di paragone la cosa è notissima: "gli undici buoni (gli Apostoli) dovettero tollerare Giuda perfido e ladro ... " [177]. Il Vescovo d'Ippona è tanto convinto che situazioni simili possano nascere nei monasteri, che fa al suo popolo la solenne confessione che abbiamo riportata poco [178]. Conclude la lettera con queste parole di ammonimento e di conforto: "Sebbene quindi ci rattristiamo per via di alcune brutture, ci consoliamo anche, tuttavia, per le molte bellezze. Voi dunque non detestate, per causa della morchia, che offende i vostri occhi, i torchi (= i monasteri), per mezzo dei quali le dispense del Signore si riempiono di un olio più luminoso" [179]. Perché in queste situazioni, che non sono rare, non perisca nella vita comune la concordia, la fraternità e la gioia, occorre che la carità eserciti fortemente il suo influsso dominante e dispieghi quelle virtù che sono proprie dell'ascetismo cristiano. Per questo S. Agostino nella sua Regola, pur tanto breve, ha dedicato due degli otto capitoli in cui è divisa, alla correzione fraterna e al condono delle offese; due disposizioni interiori, due esercizi di carità assolutamente indispensabili nella vita comune.
2. Correzione fraterna
Della correzione fraterna stabilisce il principio, il presupposto, la tecnica. Il principio è espresso in quelle celebri e preziose parole: amate le persone e odiate i vizi. È un principio evangelico, universale, che si applica ad ogni umana relazione, da quella dell'amicizia a quella della vita politica. Nella vita comune ha un'applicazione più frequente, più feconda, più religiosa. Dunque, né odiare l'uomo a causa del vizio, né amare il vizio a causa dell'uomo. Due scogli non piccoli per la natura umana, che è portata a fare tutto il contrario, cioè a includere l'uomo nell'avversione al vizio e il vizio nell'amore per l'uomo. Passare incolume tra questi due scogli non è facile; eppur si deve e si può. A condizione che nel cuore ci sia la vera carità. La carità infatti è il presupposto essenziale della correzione fraterna. Senza di essa ci sarà l'insulto, lo scherno, il rimprovero; tutto, fuorché la correzione fraterna.
Occorre inoltre che la carità abbia una grande dose di umiltà e di fortezza: dev'essere umile per non cedere alla tentazione della superbia, forte per sopportare il fastidio della correzione. S. Agostino, nella Regola, è più attento a questo secondo aspetto che al primo. Insiste infatti perché la correzione sia fatta tempestivamente e perché si osservi diligenter et fideliter quanto egli prescrive sul modo di farla; spiega, poi, che la correzione stessa, ancorché la necessità obblighi a manifestare la colpa del fratello a qualche altro, non è delazione o crudeltà, ma amore, soltanto amore. Com'è un atto d'amore e non di crudeltà il manifestare la malattia d'un fratello, quando questi la tiene occulta per paura d'un doloroso intervento. Sarebbe anzi crudeltà il non manifestarla, perché il silenzio si risolverebbe a tutto danno del fratello malato. Altrove il Vescovo d'Ippona torna spesso su questo argomento e insiste nella sincera ed autentica carità che deve ispirare la correzione fraterna [180], nell'umiltà che deve accompagnarla [181], nella preghiera che sola può renderla feconda. Il tema della correzione fraterna e la preghiera è trattato in una celebre opera agostiniana dal titolo: Sulla correzione e la grazia.
Vi si legge: "(La correzione fraterna) dev'essere fatta per motivo di carità... e bisogna pregare per quello a cui viene fatta, affinché venga sanato (dalla grazia)" [182]. La tecnica poi - chiamiamola così - della correzione fraterna indicata dalla Regola è quella stessa del Vangelo [183], con l'aggiunta d'una seconda correzione segreta da parte del Superiore. L'iter dunque è il seguente. Quando si tratti d'una colpa segreta, il colpevole dev'essere ammonito in segreto: ammoniscilo tra te e lui solo; se ti ascolta avrai guadagnato il tuo fratello. In questo caso manifestare ad altri la colpa del fratello non significa essere correttori, ma delatori. Ma se il fratello cadrà di nuovo nella stessa colpa, bisogna rivelarlo come se si trattasse d'un ferito da sanare. Rivelarlo, prima che ad altri, al Superiore, affinché questi con una correzione segreta ottenga l'emendamento del colpevole ed eviti di manifestarne la colpa ad altri. Se anche questo fosse inutile, si dovrà indicare ad altri due o tre, affinché questi siano in grado di convincerlo davanti alla comunità.
Convinto che egli sia, dovrà sostenere la pena riparatrice che gli verrà imposta dal Signore. Ed ecco la conclusione di questo lungo processo che la carità mette in opera per aiutare un religioso colpevole a raddrizzare i suoi passi: Se ricuserà di subire la pena, anche se non se ne andrà via spontaneamente, sia espulso dalla vostra comunità. S. Agostino nota che questa prescrizione, per quanto possa sembrare dura, non nasce da un sentimento di crudeltà, ma nasce dalla pietà; la pietà verso la comunità religiosa, la quale dev'essere difesa dal grave contagio del vizio che proviene inesorabilmente dalla presenza d'un colpevole che non riconosce la sua colpa e non vuole ripararla. Così nella Regola. Ma nel libro Sulla correzione e la grazia, pensando non alla comunità, bensì al colpevole stesso, scrive che la pena, anche la più grave, come la scomunica, che i vescovi qualche volta sono costretti ad infliggere, può tornare con la grazia divina a salutare correzione del colpevole [184]. Lo stesso può dirsi dell'espulsione dal monastero.
3. Condono delle offese
L'altro esercizio di carità, che la fragilità umana o l'umana cattiveria rende necessario, è il condono delle offese. S. Agostino vi dedica un capitolo della sua Regola. In questo capitolo propone due precetti, che, se fossero osservati, renderebbero inutile, anzi impossibile chiedere perdono: il precetto di evitare le liti - liti non abbiatene mai - e quello di evitare le parole pungenti: astenetevi dalle parole offensive. Ma il Santo sa molto bene che questi precetti non è facile osservarli, che la nostra povera natura, nonostante l'impegno ascetico a cui è sottomessa, è troppo facile a trascendere. Occorre, perciò, ricorrere, per riparare le violazioni della carità, ad un atto di carità, che è appunto il chiedere perdono. Questa riparazione dev'essere fatta tempestivamente e sinceramente. Si notino i due avverbi, sono importanti: tempestivamente, perché l'ira non diventi odio e una paglia non si trasformi in una trave; sinceramente, perché al male dell'offesa non si aggiunga quello, non meno grave, dell'ipocrisia. Per questo S. Agostino rivolge ai suoi religiosi questa grave ammonizione: chi si rifiuta di chiedere perdono o non lo chiede di cuore, sta nel monastero senza ragione alcuna, benché non ne sia espulso. Sta nel monastero senza ragione alcuna. Non ha infatti la carità: e che sta a fare nel monastero, che è scuola di carità, chi non ha la carità? Forse qualcuno si sarebbe aspettato non un'ammonizione, ma un salutare provvedimento, come quello prescritto poco sopra. Se S. Agostino, così attento alle esigenze del Vangelo per ciò che riguarda la carità, non lo ha prescritto, ci dev'essere un motivo. Credo di trovarlo nel fatto che egli è, sì, attentissimo a creare nei monasteri un clima di autentica carità, ma non è meno attento ad evitare che si crei un clima di reale ipocrisia. Non impone perciò - anche se non lo esclude - l'espulsione a chi non vuol chiedere perdono, per non indurre qualcuno a chiederlo senza convinzione, che è, appunto, un atto di ipocrisia bell'e buono.
Si limita quindi al rilievo su riferito - pur restando in monastero, non ha più scopo alcuno di starvi - che sul piano disciplinare è meno dell'espulsione, ma sul piano morale, per chi sa capire, è molto di più. Aggiungo infine due rilievi che il testo della Regola suggerisce. Uno psicologico, che è questo: chi, pur tentato spesso dall'ira, è però sollecito a impetrare perdono da chi riconosce d'aver offeso, è certamente migliore di chi si adira più raramente, ma più difficilmente si piega a chiedere perdono. Non v'è chi non veda l'acutezza di questa osservazione. Si tratta di due tipi diversi: uno emotivo e collerico, l'altro tenace e freddo, anche se timido; tutt'e due difettosi, ma nella comunità chi crea maggiore turbamento è certamente il secondo: il suo orgoglio - perché è solo l'orgoglio, cieco e testardo, ad impedire di chiedere perdono - innalza spesso un muro di divisione e mette a dura prova la pazienza dei fratelli.
Nulla è più intollerabile dell'intolleranza dell'orgoglio. L'altro rilievo è spirituale. La comunità deve intervenire con la preghiera - una preghiera sempre più fervente e più pura - per ottenere da Dio che il fratello colpevole chieda perdono e che l'offeso sappia perdonare senza indugio. S. Agostino pensa certamente alla preghiera del Padre nostro, che tante volte ha commentato parlando del perdono delle offese [185]. La comunità, pregando, deve sentirsi impegnata a riportare l'unità dell'amore là dove un gesto, una parola, un'azione ha portato la divisione, il turbamento, l'offesa.
(172) - Ep. 78, 9.
(173) - Enarr. in ps. 99, 12.
(174) - Enarr. in ps. 132, 4.
(175) - Cf. 1 Cor 13, 4-6.
(176) - Enarr. in ps. 99, 10.
(177) - Ep. 78, 8.
(178) - Ivi.
(179) - Ep. 78, 9.
(180) - Cf. Serm. 82, 3, 4.
(181) - Cf. De serm. Dom. in monte 2, 19, 64.
(182) - De corrept. et gr. 14, 43.
(183) - Mt 18, 15.
(184) - De corrept. et gr. 15, 46.
(185) - Cf., per esempio, Serm. 114, 2-5.