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Contenuto Dottrinale

Milano: sant'Agostino in un dipinto di Foppa

sant'Agostino in un dipinto di Foppa

 

 

LA REGOLA: CONTENUTO DOTTRINALE

di p. Agostino Trapé

 

 

 

 

Capitolo settimo

LA POVERTÀ

 

Se in ordine alla nostra consacrazione a Dio la castità occupa il primo posto, in ordine alla vita comune il primo posto spetta alla povertà. S. Agostino infatti, che concepì ed organizzò la vita religiosa intorno al concetto della vita comune, subito dopo aver indicato la ragione stessa di questa vita con le parole: abbiate un'anima sola e un cuor solo protesi verso Dio [214], ne indica il fondamento con queste altre: Non dite di nulla: "È mio", ma tutto sia comune fra voi. Il superiore distribuisca a ciascuno di voi il vitto e il vestiario, non però a tutti ugualmente, ma ad ognuno secondo le sue necessità [215]. Non v'è chi non veda quanto siano sapienti e ricche di contenuto queste parole: non solo stabiliscono il fondamento della vita comune, ma ne indicano due aspetti essenziali, che sono: la comunione dei beni e la distribuzione proporzionale di essi; o, in altre parole, i doveri del religioso verso la comunità e i doveri della comunità verso il religioso.

1. Comunione dei beni

È quella forma di povertà evangelica di cui i primi cristiani, a Gerusalemme, diedero uno splendido esempio. C'è infatti nella Regola stessa, come sappiamo, la citazione degli Atti. Come si legge negli Atti degli Apostoli - continua il testo citato - Essi avevano tutto in comune. Di questa povertà evangelica, interpretata dai primi cristiani, S. Agostino illustrò e mise in pratica quattro aspetti: il voto, la rinuncia ad ogni proprietà, la perfetta vita comune, l'attesa fiduciosa della misericordia di Dio.

  • Voto   Qualcuno afferma che per trovare la nozione del voto di povertà bisogna aspettare almeno un secolo dopo S. Agostino. Non è esatto. Il Vescovo d'Ippona ha chiara non solo la nozione di voto - di questo non si sa chi possa dubitare - ma anche la nozione del voto di povertà. Difatti egli paragona la povertà alla castità e ritiene che la violazione della prima sia altrettanto grave quanto lo è la violazione della seconda. Ecco un testo molto esplicito: " ... chi abbandona la società della vita comune che aveva abbracciato - quella società lodata dagli Atti degli Apostoli - viene meno al suo voto, viene meno ad una santa professione. Stia attento al giudice; non a me, ma a Dio ... Io so quanto sia grave fare un voto e non osservarlo. Dice la Scrittura: Fate voti e scioglieteli al Signore vostro Dio [216], e ancora: è meglio non far voti, che farli e non adempierli [217]. Una vergine, benché mai entrata in monastero, se è consacrata, non ha il permesso di sposarsi, ma nessuno la obbliga ad entrare in monastero. Se però vi entra e se ne allontana e resta vergine, è caduta per metà. Lo stesso accade a un chierico. Ha professato due cose: la santità e il clericato. Per se stesso la santità, perché il clericato Dio glielo ha imposto sul capo a favore del suo popolo; per lui è più un peso che un onore; ma qual è il sapiente - esclama sospirando S. Agostino - che capisce queste cose? [218]. Dunque ha professato la santità, ha professato la vita comune, ha professato come è bello e come è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme [219]; se recede da questo proposito e resta chierico, anch'egli è caduto per metà" [220]. Non si potrebbe desiderare una dottrina più limpida e più netta. Vale la pena d'insistervi un poco. L'esempio della vergine consacrata è trasparente. Se abbandona la vita comune, che ha professato, viene meno per metà ai suoi doveri; questo vuol dire che povertà e castità sono obblighi uguali davanti a Dio. Degno di considerazione è anche il secondo caso, oggi soprattutto, quando un numero non piccolo di religiosi-sacerdoti lasciano con grande disinvoltura la vita religiosa, pensando che, conservato il sacerdozio, nulla hanno perduto davanti a Dio. S. Agostino non era di questo parere: dimidius et ipse cecidit, sentenzia; anch'egli è caduto per metà.
  • Rinuncia alla proprietà   Il voto di povertà o voto di vivere in comune importa la rinuncia alla proprietà dei beni materiali. Così fece S. Agostino appena tornato a Tagaste, così volle che facessero quanti vivevano con lui. "La vostra Carità - così parla al suo popolo - sa certamente anche questo, che io ho detto ai miei fratelli che vivono con me, che se qualcuno ha qualcosa di proprio o lo venda, e ne dia il prezzo in elemosina, o lo doni e lo metta in comune... Ne facciano quello che vogliono - conclude il Santo con parole di commovente bellezza - purché siano poveri insieme a me, e aspettiamo insieme la misericordia di Dio" [221]. È inutile dire che questa rinuncia non riguarda solo ciò che si possedeva prima di entrare in monastero, ma tutto, anche quello che in qualsiasi modo si acquistava dopo; anche i doni che provenissero dai parenti e perfino nel caso che si trattasse di cose ritenute necessarie. Anche in questo caso il dono ricevuto doveva essere messo in comune e la cosa distribuita dal superiore a chi ne avesse avuto bisogno. Anzi, il textus receptus della Regola aggiunge a questo punto una sentenza fortissima: se qualcuno avrà tenuto nascosto l'oggetto donatogli sia giudicato colpevole di furto [222]. La sentenza risponde pienamente al pensiero di S. Agostino, estremamente severo in fatto di povertà, ed è riportata da molti manoscritti. Aggiungiamo un'altra osservazione. La rinuncia alla proprietà importava l'impossibilità di esercitare il diritto, universalmente riconosciuto, di far testamento. S. Agostino non lo fece infatti, e provò un acutissimo dolore quando si seppe che uno dei suoi sacerdoti, che vivevano con lui nel monastero, lo aveva fatto. Di lui dice il primo biografo: "Testamento non ne fece, perché, povero di Dio, non aveva di che farlo" [223]. Di Gennaro invece, presbitero che, morendo, aveva fatto testamento, dice il Santo: " ... ha fatto testamento. Ha fatto, dico, testamento un presbitero e socio nostro, che era con noi, che viveva della Chiesa, che professava la vita comune; ha fatto testamento, ha istituito gli eredi. Oh dolore di quella società! oh frutto nato non dall'albero che ha piantato il Signore! Ma ha istituito erede la Chiesa. Non voglio questi doni, non amo il frutto dell'amarezza. Io volevo lui per darlo a Dio: aveva professato la nostra vita; doveva restarvi fedele, doveva mostrarsene degno, non doveva aver nulla di proprio, non doveva far testamento. Aveva qualcosa? Non doveva fingersi nostro compagno, quasi fosse povero di Dio (quando non lo era). Il mio dolore è grande, fratelli. Vi dico anzi che per questo dolore ho stabilito di non accettare per la Chiesa quell'eredità" [224]. Quando si tratta di principi, S. Agostino non transige. I suoi religiosi devono saperlo. Occorre aggiungere, inoltre, che la rinuncia ad ogni proprietà doveva estendersi a tutti gli effetti civili. S. Agostino lo esige, almeno dopo il caso di Onorato, vescovo di Tagaste, ordinato sacerdote per la chiesa di Thiana, il quale, non avendo fatto la rinuncia della sua proprietà agli effetti civili, diede luogo, dopo la morte, ad una lunga e spiacevole discussione tra il monastero e la parrocchia [225]. Occorre infine notare che a proposito della rinuncia, nella vita comune, ad ogni proprietà e all'obbligo conseguente di non fare testamento, S. Agostino ha pronunciato le parole più forti uscite dalle sue labbra e forse dal labbro di un vescovo o di un fondatore di Ordine religioso. Egli si era proposto, com'è noto, di non ordinare chierici della sua chiesa se non coloro che avessero accettato di vivere in comune con lui, in modo di aver diritto poi, qualora qualcuno di loro avesse abbandonato il monastero, di cancellarlo dall'albo del clero. Ma ci fu, pare, un'alzata di scudi sia da parte dei chierici che da parte dei vescovi. S. Agostino stesso, inoltre, si accorse che ciò poteva favorire la simulazione e l'ipocrisia. Cambiò parere. Il 18 (o il 28) dicembre 425 parlò al suo popolo e diede ai chierici la libera opzione: restare in monastero con lui o vivere in casa propria. Tempo per riflettere fino all'Epifania. Dopo il 6 gennaio il vescovo parla di nuovo al popolo, annuncia con gioia che tutti hanno accettato la vita comune e aggiunge: "Ora poi, se qualcuno sarà trovato proprietario, non gli permetto di fare testamento, ma lo cancello dalla tabella dei chierici. Si appelli pure contro di me a mille concili, navighi pure contro di me dove vuole - l'allusione a Roma è qui evidente - se ne stia dove potrà: mi aiuterà il Signore a far sì che dove io sono vescovo, egli non possa essere chierico" [226]. Queste parole non hanno bisogno di commento. Il lettore però, per assaporarne la forza, le rilegga.
  • Vita comune perfetta    S. Agostino spinge il concetto della vita comune fino alle ultime conseguenze: non solo rinuncia ad ogni proprietà, ma uso comune delle cose: comune il vitto, comuni le vesti. Anche le vesti. La Regola è esplicita: Come siete nutriti da una sola dispensa, così vestitevi da un solo guardaroba" [227]. Egli stesso, vescovo, faceva così. Sono celebri le sue parole a proposito: " ... io stesso - dice al suo popolo - prendo le vesti dal guardaroba comune, perché voglio avere in comune tutto ciò che ho. Per questo non voglio che mi offriate vesti che io solo in un certo senso potrei portare più convenientemente. Mi offrite, per esempio, un mantello prezioso: forse conviene ad un vescovo, benché non convenga ad Agostino, cioè un uomo povero, nato da poveri. La gente dirà che ora (da vescovo) ho trovato quelle vesti preziose che non avrei potuto avere o nella casa di mio padre o in quella mia professione secolare. Non va: voglio avere una tale veste che possa darla, se ne avrà bisogno, al mio fratello; tale, poiché la prendo dal guardaroba comune, quale possa portare convenientemente un presbitero, un diacono, un suddiacono. Se qualcuno me ne darà una migliore, la vendo - e in realtà sono solito farlo - affinché, se non può essere comune la veste, sia comune il prezzo della veste" [228]. Agostino sa, da fine psicologo, che questo metodo, in realtà piuttosto severo, può dare occasione a contese e mormorazioni. Fa perciò due cose: richiama i suoi religiosi al principio dell'interiorità e permette che venga tollerata la loro debolezza, cioè che ciascuno possa riprendere le vesti che ha deposte. Ecco, nel primo punto, le parole della Regola: Se da ciò sorgono tra voi discussioni e mormorazioni, se cioè qualcuno si lamenta di aver ricevuto una veste peggiore della precedente e della sconvenienza per lui di vestire come si vestiva un altro suo confratello, ricavatene voi stessi una prova di quanto vi manchi del santo abito interiore del cuore, dato che litigate per gli abiti del corpo [229]. Belle parole che richiamano il religioso alle vere ricchezze, che sono quelle interiori dello spirito. Dimenticare queste e litigare per le vesti è proprio segno di una triste miseria. Sul secondo punto l'eccezione è espressa in modo, da indicarne anche i limiti: Comunque, qualora questa vostra debolezza venga tollerata e vi si consenta di riprendere quello che avevate deposto, lasciate nel guardaroba comune e sotto comuni custodi quello che deponete [230]. Ma l'ideale della Regola resta quello che S. Agostino praticò in realtà nei suoi monasteri. Se possibile - e questa condizione già dice che la cosa consigliata può avere difficoltà concrete, reali - non curatevi di quali indumenti vi vengano dati secondo le esigenze della stagione, se cioè riprendete quello smesso in passato o uno diverso già indossato da un altro; purché non si neghi a nessuno l'occorrente [231]. In effetti le mutate condizioni sociali e le legittime precauzioni igieniche hanno consigliato o imposto di non insistere, molte volte, sul raggiungimento di questo ideale; ma l'ideale resta, e dev'essere fonte perenne d'ispirazione; una fonte d'ispirazione che impedisca alla persona religiosa di considerare come proprie o di attaccare il cuore a quelle cose - vesti, libri, macchine, oggetti - che gli vengano date in uso. Perché ciò non avvenga occorre coltivare la virtù della povertà evangelica, che consiste nel sentirsi veramente poveri, cioè sprovvisti di tutto, e fiduciosi solo nella misericordia di Dio.
  • Spirito della povertà evangelica S. Agostino lo ha posseduto e lo ha espresso in maniera mirabile. Rileggiamo le parole citate sopra: "Facciano quel che vogliono, purché siano poveri insieme a me e aspettiamo insieme la misericordia di Dio" [232]. Tali erano in realtà i chierici che vivevano con lui nel monasterium clericorum. Il nostro Santo lo annunzia gioiosamente al popolo dopo aver fatto la "visita" al monastero. Anzi, per tagliar corto con ogni possibile mormorazione, li passa in rassegna uno per uno, chiarendo la loro posizione di fronte alla legge fondamentale della vita comune. "Tutti i miei fratelli chierici che vivono con me - i presbiteri, i diaconi, i suddiaconi e mio nipote Patrizio - li ho trovati come desideravo trovarli... Il diacono d'Ippona è un uomo povero... Il diacono Eraclio lo conoscete... Gli rendo testimonianza che è restato povero e ha conservato il possesso della carità ... Gli altri, cioè i suddiaconi, sono poveri e per dono di Dio aspettano la misericordia di Dio... Restano i presbiteri... Ve lo dirò in due parole: sono poveri di Dio. Nulla hanno apportato alla vita comune se non ciò che è più caro di tutti: la carità" [233]. Povertà, fiducia in Dio, carità: tre concetti, tre virtù, tre atteggiamenti inscindibilmente uniti. I religiosi dunque alla scuola di S. Agostino devono essere e sentirsi "poveri di Dio", o, come anche li chiama il Santo "minimi di Cristo" [234]. Ma che vuol dire questo? Non aver nulla su cui sperare in questa terra, vivere del proprio lavoro, accontentarsi di poco, essere lieti di possedere Dio, attendere tutto da Lui per mezzo della sua Chiesa. " ... coloro ai quali non basta Dio e la sua Chiesa, stiano pure dove vogliono e dove possono: non toglierò loro il clericato - dice il Santo - non voglio degli ipocriti con me... Ma se uno è pronto a non avere nulla di proprio, ma o a darlo ai poveri o a metterlo in comune, resti con me"; "chi resta con me non ha nulla, ma possiede Dio": Habet Deum qui mecum manere vult [235]. È inutile notare che S. Agostino parla di povertà individuale, non di povertà comune; i singoli religiosi devono essere poveri, non necessariamente il monastero. Nel Concilio di Trento la Chiesa ha fissato sulla povertà religiosa la dottrina già esposta e difesa da S. Agostino [236].

2. Distribuzione proporzionale

Al concetto della povertà evangelica, così profondamente inteso dal Vescovo d'Ippona, va congiunto un altro aspetto, che è essenziale anch'esso, della vita comune: l'equa, e perciò proporzionale distribuzione dei beni di cui ha bisogno la necessità passeggera. Si distribuisca a ciascuno di voi il vitto e il vestiario; non però a tutti egualmente, perché non avete la medesima salute, ma ad ognuno secondo le sue necessità [237]. Anche qui la prescrizione della Regola è appoggiata sul testo degli Atti, esplicitamente ricordato: ... e si distribuisca a ciascuno secondo le sue necessità [238]. Questa della distribuzione proporzionale è una questione delicatissima da cui dipende il benessere del monastero ed il successo di una regola monastica. Per risolverla con sapienza occorreva un sicuro intuito della psicologia umana ed un senso profondo di bontà e di moderazione. L'animo di S. Agostino era ben provvisto di simili qualità. Dovunque infatti nelle prescrizioni della sua Regola brilla uno spirito di discrezione e di equilibrio, che sa essere forte senza debolezze, comprensivo senza negligenze, che ricorda ai Superiori di essere più buoni che severi, ed ai sudditi che è meglio aver meno bisogni che possedere più cose [239]. Lo abbiamo visto sopra e lo vedremo ancora, fra poco, parlando delle qualità del Superiore. Qui rileviamo soltanto che alla felice riuscita di questo aspetto essenziale della vita comune contribuiscono anche, in parte non minima, tutti coloro che nella casa religiosa hanno un qualche ufficio, che tocca da vicino la vita degli altri. S. Agostino ricorda esplicitamente l'infermiere, il dispensiere, il guardarobiere e il bibliotecario. A tutti dà il comando di servire con animo sereno i propri fratelli: sine murmure serviant fratribus suis [240]. Comando breve, ma capace, se osservato, di rendere serena e gioiosa la vita comune. Evidentemente questo servizio di carità fraterna dovrà essere reso secondo le disposizioni generali della Regola e della comunità. Così, secondo la Regola, il bibliotecario non deve dare i libri a chi li chiederà fuori orario [241], mentre il dispensiere deve dare le vesti senza indugio a chi le chiede, quando gli siano necessarie [242].

 

 

 

(214) - Regola, 3.

(215) - Regola, 4.

(216) - Sal 75, 12.

(217) - Eccle 5, 4.

(218) - Cf. Sal 106, 43.

(219) - Sal 132, 1.

(220) - Serm. 355, 4, 6.

(221) - Ivi.

(222) - Regola, 32.

(223) - POSSIDIO, Vita, 31, 6.

(224) - Serm. 355, 2, 3.

(225) - Cf. Ep. 83.

(226) - Serm. 356, 14.

(227) - Regola, 30.

(228) - Serm. 356, 13.

(229) - Regola, 30.

(230) - Ivi.

(231) - Ivi.

(232) - Serm, 355, 4, 6.

(233) - Serm. 356, 3-9.

(234) - Serm. 113, 1, 1.

(235) - Serm. 355, 4, 6.

(236) - Sulla povertà con relazione alla Regola di S. Agostino, cf. D. SANCHIS, Pauvreté monastique et charité fraternelle chez Saint Augustin, in Augustiniana, 8 (1958), pp. 1-21; e un'altra parte in Studia monastica, 4 (1963), pp. 7-33. Questi studi hanno grande interesse anche per la vita comune.

(237) - Regola, 4.

(238) - At 4, 35.

(239) - Regola, 18.

(240) - Regola, 38.

(241) - Regola, 39.

(242) - Regola, 40.