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sant'Agostino in un dipinto di Foppa
LA REGOLA: CONTENUTO DOTTRINALE
di p. Agostino Trapé
Capitolo quinto
DIVERSITÀ DI DONI NELL'UNITÀ D'AMORE
Abbiamo parlato dell'esercizio quotidiano della carità, imposto, nella vita comune, dalla fragilità o dalla cattiveria umana. Ma ancorché ciò non fosse, cioè ancorché non ci fossero colpe da perdonare, o non ci fossero difetti da sopportare e da farsi sopportare, ci sarebbero pur sempre tante differenze di origine, di indole, di formazione, di funzione che la carità dovrà ricondurre all'unità della concordia. Ma non potrà farlo se non a prezzo di sofferenze, di rinunce, di morte. Una morte che dà la vita, perché c'inserisce nel piano universale della salvezza. Come la piccola tessera destinata alla composizione di una grande opera musiva non può trovare il suo posto nell'unità del tutto e contribuire così alla bellezza del quadro, se non a condizione di essere ripulita, smussata, infranta. In realtà occorre un ascetismo sincero, profondo, continuo per riportare l'unità là dove la natura semina a piene mani molteplicità e divisione. La vita religiosa, essenzialmente, è complementarietà ed uguaglianza: uguaglianza di doveri, di diritti, di particolari esercizi, complementarietà di doni, di funzioni, di bisogni. Questa complementarietà, nel quadro generale dell'uguaglianza, dev'essere riconosciuta e rispettata, anzi difesa; difesa dalla tentazione sempre rinascente della squallida uniformità di un livellamento totale. Unità non vuol dire addizione di numeri, che crea la massa; ma inserimento vitale, attraverso la conoscenza e l'amore, in un organismo animato dalla grazia; vuol dire, in altre parole, incontro sapiente di perfezioni diverse che cooperano insieme a formare una perfezione più alta e più grande.
Il compito di rendere viva ed efficiente questa collaborazione è della carità. La quale, purificando la natura umana dalle storture dell'orgoglio, e conservandone le native ricchezze, solleva tutti nel piano divino della salvezza, dove si scopre l'uguaglianza della vocazione umana e cristiana e ci si sente fratelli, investiti di una nobiltà nuova e in possesso d'una nuova ricchezza, di fronte alla quale la nobiltà e le ricchezze terrene appaiono quelle che sono: cenere ed ombra. Nella vita comune dunque va rispettata la personalità di ognuno, purché ognuno sia impegnato a rivestirsi dell'unica personalità di tutti, che è la personalità di Cristo; va rispettata la libertà dei singoli, purché i singoli aspirino a conquistare l'unica vera libertà, che è la libertà dei figli di Dio proclamata dal Vangelo; va rispettata la coscienza dell'individuo, purché questi informi la sua coscienza, sinceramente e costantemente, alla legge del Vangelo e ai precetti, liberamente accettati, della Regola.
Dunque: disparitas claritatis et unitas caritatis; disparità di doni e unità d'amore. A questa perfezione ideale S. Agostino vuol condurre, con sapienza, i suoi figli.
1. Ricchi e poveri
La prima disparità a cui rivolge la sua attenzione è quella, allora molto profonda e perciò pericolosa, che esisteva tra le diverse classi sociali da cui provenivano i religiosi: le classi ricchissime dei nobili, dei padroni, dei senatori, e quella poverissima degli schiavi, dei portuali, dei contadini. Solo la carità, che ha risorse inesauribili, poteva compiere il miracolo di unire persone di condizioni tanto diverse e farle vivere gioiosamente insieme. La carità infatti sospinge ciascuno all'esercizio di quelle virtù di cui ciascuno ha bisogno per raggiungere la concordia e la pace. I ricchi li sospinge alla liberalità, che piega l'animo a mettere volentieri in comune i beni posseduti, e all'umiltà, che li preserva da tre gravi mali:
- dal disdegnare la compagnia dei fratelli poveri,
- dal gloriarsi della dignità dei propri parenti,
- dall'insuperbirsi per aver portato alla comunità i propri beni.
Inoltre l'umiltà apporta loro un grande bene, quello d'impegnarsi nel lavoro manuale, sia pur corrispondente alla loro formazione e proporzionato alla loro complessione fisica, allo scopo di guadagnarsi il pane, diventato ormai, nel monastero, comune [186]. I poveri invece la carità li sospinge all'esercizio della parsimonia, perché non cerchino nel monastero ciò che fuori non potevano avere; della temperanza, perché non si stimino felici per aver trovato quel vitto e quelle vesti che fuori non potevano avere; della laboriosità, perché non diventino oziosi ora che sono nel monastero, quando fuori dovevano guadagnarsi il poco pane che mangiavano, col sudore della fronte; all'esercizio, infine, dell'umiltà, ma per un motivo diverso: perché non cadano nella vanagloria, in quella sciocca vanagloria che può sorprendere l'uomo di umile condizione quando si trova alla pari, nella stessa comunità, di coloro a cui prima non avrebbe osato avvicinarsi. Così la carità unisce quelli che la natura divide e, suggerendo a ciascuno, sulla base della fede, i sentimenti e gli atteggiamenti opportuni, crea la società "nuova" che ha come prerogativa l'unità e la santità. S. Agostino non manca di aggiungere a questo proposito due ammonimenti, di cui nessuno potrà misconoscere l'acume psicologico e l'opportunità.
Ai poveri dice: state attenti che i monasteri non diventino utili ai ricchi, ma non ai poveri, se ivi i ricchi si umiliano e i poveri si gonfiano d'orgoglio, oppure, per usare l'espressione del De opere monachorum, se ivi "i senatori si trasformano in lavoratori e i lavoratori in oziosi" [187]. Ai ricchi, poi, dice: "a che giova dar via il suo e diventare povero, se l'anima, inorgoglita di questo gesto, diventa più misera perché più superba?". Infine, il dottore dell'umiltà, toccando quest'argomento non poteva dimenticare un'osservazione generale sulla natura maligna della superbia, la quale non solo, come ogni altro vizio, spinge a commettere azioni cattive, ma ha di proprio che insidia e guasta anche le opere buone. Qualcuno dirà che il discorso agostiniano non è più attuale, perché il contrasto tra ricchi e poveri che chiedono di entrare in monastero non è più, oggi, così acuto come allora; anzi, per lo più, non esiste affatto. La premessa è giusta, ma la conclusione non lo è altrettanto.
Se non c'è più il contrasto tra ricchi e poveri ci sono pur sempre molte differenze, quelle stesse che allora erano legate, d'ordinario, a certe condizioni sociali: le differenze di cultura, di formazione, di indole, di costituzione. Queste differenze creano ancor oggi divisioni e contrasti a scapito della concordia, se la carità non è abbastanza generosa e forte da inculcare a ciascuno i pensieri e i sentimenti necessari per stabilire la fraternità e la collaborazione. Di queste differenze derivanti dalla prima - ricchezza e povertà - la Regola ne accenna solo una: la diversa costituzione fisica, che richiede, per alcuni, particolari riguardi nel vitto e nel vestiario. Ma noi vorremmo accennare prima di tutto ad una altra differenza, a quella riguardante la cultura. C'era anche allora. E non sappiamo perché S. Agostino non ne parli. È ovvio infatti che solo quelli provenienti da determinati ceti sociali avevano frequentato le scuole; mentre quelli provenienti dalla classe dei lavoratoti erano ordinariamente analfabeti.
Oggi il contrasto non è così stridente; ma anche oggi, in un ambiente agostiniano, dove lo studio in generale e lo studio della teologia in particolare è o dovrebbe essere di casa, e dove non tutti, per le molteplici necessità dell'apostolato e per la diversità dei doni ricevuti da Dio, possono dedicarsi alla scienza, la distinzione tra religiosi impegnati nello studio o impegnati prevalentemente nel ministero sacerdotale e religiosi impegnati nelle opere organizzative o materiali, è inevitabile. Occorre agire tenacemente e ininterrottamente affinché questa necessaria distinzione non diventi divisione, opposizione, contrasto. Il segreto del successo sta di nuovo, come sempre, nella carità, che è l'anima della Regola.
2. Uomini di studio e uomini d'azione
Agli uomini di studio la carità suggerisce, come già ai ricchi - e non è la scienza, del resto, una grande ricchezza? - l'esercizio costante della liberalità e dell'umiltà. La prima virtù li fa generosi nel comunicare a tutti, con gioia, i frutti delle proprie ricerche. Ognuno di loro dirà col Savio a proposito della sapienza: Senza oblique mire l'ho appresa e senza invidia la comunico; la ricchezza di lei non tengo nascosta [188]. La seconda virtù, l'umiltà, li fa attenti ad evitare la vanagloria, la ricerca della scienza per la scienza, lo stolto sentimento di superiorità, e ricorda loro che il bene più grande non è la scienza, anche se sacra, ma la carità; e la carità può fiorire nel cuore dell'illetterato come in quello del dotto; anzi, spesso, fiorisce più in quello che in questo. L'umiltà, inoltre, che è riconoscimento ed adesione all'ordine delle cose, scopre agli studiosi l'intimo nesso tra conoscenza e amore - conoscere per amare e amare per conoscere - e il valore, anzi la necessità, per la Chiesa, dell'apostolato della scienza. A coloro infine che sono occupati nei lavori organizzativi o materiali la carità infonde la gioia della propria condizione che, senza togliere nulla alla dignità e al merito della vita religiosa, li libera dalla brutta tentazione della vanagloria, accresce in loro la consolante persuasione che l'unico parametro a cui si misurano gli uomini nel regno di Dio è la carità, di cui un solo palpito vale più di tutti i tesori della scienza e dell'arte, e li tiene lontani, la carità, dalla triste presunzione, che s'insinua così facilmente e così pericolosamente nell'animo, di sapere ciò che non si sa. Complementarietà di sentimenti che nasce dalla complementarietà della vita comune e che concorre, convergendo verso la costruzione del regno di Dio, a creare l'unità nella varietà! Ma torniamo alla lettera della Regola.
3. Deboli e robusti
Era allora, ed è conseguenza della diversa condizione sociale da cui provenivano i religiosi. Anche a questa differenza, perché non degeneri, ma converga nell'unione dei cuori, provvede la carità. Essa prescrive, innanzi tutto, che a coloro che sono venuti in monastero da abitudini più raffinate e sono perciò, a causa del loro precedente tenore di vita, più delicati, si usino particolari riguardi nel vitto e nel vestiario. Una disuguaglianza, dunque. Senza dubbio.
Ma una disuguaglianza suggerita dal buonsenso e da quel sentimento di comprensione e di umanità che non deve mancare mai nei monasteri; quindi, diremo, una disuguaglianza necessaria. Interviene, allora, la carità, la più comprensiva e la più umana di tutte le virtù, e riporta l'unità là dove aveva imposto la distinzione. Ai più robusti la Regola prescrive di non avere a fastidio nel giudicare ingiusto il trattamento riservato agli altri. Per due ragioni: primo perché non è un atto di onore, ma di tolleranza; secondo: perché questi, gli altri, passando dalla loro vita mondana a quella del monastero hanno fatto un gran passo. Sono dunque degni di stima anche se non sono in grado ancora di adattarsi alle austerità di quelli che hanno una costituzione più forte. Non li stimino perciò fortunati per il trattamento che hanno - la tentazione di farlo è sempre pronta sulla soglia dell'anima, anzi nascosta nel subcosciente, da cui solo i santi riescono a snidarla - ma si rallegrino con se stessi, perché sono capaci di una maggiore frugalità.
Sotto questo precetto c'è un principio luminoso che il Santo enuncia poco dopo e che noi commenteremo a suo tempo. Il principio è il seguente: è meglio aver meno bisogni che aver più cose. Questo principio e le conclusioni che S. Agostino ne tira a proposito del diverso trattamento tra i religiosi deboli o robusti di costituzione, può avere ed ha innumerevoli applicazioni: tante quante sono le abitudini, più o meno permesse o tollerate nel monastero. Coloro che non le hanno contratte o hanno avuto la forza di liberarsene devono stimarsi felici e non invidiare quelli che ne sono servi. Il Santo termina l'argomento con un'ammonizione che gli nasce o dalla conoscenza che aveva della psicologia umana o dall'esperienza, o forse dall'una e dall'altra insieme. Non avvenga, scrive non senza mestizia, quel detestabile disordine per cui in monastero i ricchi - educati non più felicemente, ma certo più delicatamente - si umiliano quanto più possono, mentre i poveri - abituati alle asprezze del lavoro e alle angustie dell'indigenza e perciò più robusti e più abituati alla frugalità - diventino schizzinosi [189]. Chi conosce la vita monastica sa bene che l'ammonizione agostiniana aveva, ed ha tuttora, il suo fondamento.
4. Sani e ammalati
È un altro binomio intorno a cui deve esercitarsi frequentemente la carità. Vi si esercita in molti modi, ispirando e unificando opposti sentimenti. Prescrive all'ammalato di ubbidire al Superiore e al Superiore di ubbidire al medico; al primo di fare quanto è necessario per la salute, anche se non vuole; al secondo di stare al consiglio del medico senza mormorare; al primo di non volere quanto può essergli dannoso, anche se è piacevole; al secondo di non accondiscendere, in nessun caso, a quel volere. Ai sani comanda di credere agli ammalati, servi di Dio, quando dicono di sentirsi male, anche se il male non è manifesto; agli ammalati poi impone di non dispiacersi, se si consulta il medico nel caso che si sia incerti che, per guarire il male, giovi veramente ciò che piace. Passata la malattia, la convalescenza. La convalescenza mette alla prova la carità fraterna non meno della malattia, anzi di più. Ma la carità ha risorse sufficienti per superare anche questa situazione. Da una parte impone alla comunità di usare un trattamento speciale per i convalescenti, ancorché fossero venuti al monastero dalla più squallida povertà; dall'altra ammonisce i convalescenti di non abituarsi a questo trattamento, cioè di non lasciarsi trattenere da quella vita comoda a cui li porta la necessità della malattia, ma di tornare volentieri, appena ristabiliti, alla vita normale, che è più consona ai servi di Dio, perché più frugale e più austera. È a questo proposito che S. Agostino enuncia il principio che abbiamo ricordato poco sopra, principio che dà la ragione ultima di questo grave ammonimento: è meglio aver meno bisogni che aver più cose. Diversità di situazioni, di doni, di funzioni; ma unità d'amore. Ciò è possibile se non c'è nel cuore l'invidia, e c'è invece una grande umiltà. Infatti "dov'è l'umiltà c'è la carità e dov'è la carità c'è la pace" [190]. La pace, secondo la celebre definizione agostiniana, è la tranquillità dell'ordine; e l'ordine altro non è che la disposizione che dà a tutte le cose, pari o dispari che siano, il proprio posto [191].
(186) - Cf. De opere monach. 25, 33
(187) - Ivi.
(188) - Sap 7, 13.
(189) - Cf. De opere monach. 25, 33.
(190) - In Io. Ep. tr, Prol.
(191) - De civ. Dei 19, 13.