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Contenuto Dottrinale

Milano: sant'Agostino in un dipinto di Foppa

sant'Agostino in un dipinto di Foppa

 

 

LA REGOLA: CONTENUTO DOTTRINALE

di p. Agostino Trapé

 

 

 

 

Capitolo dodicesimo

OSSERVANZA DELLA REGOLA

 

L'ultimo capoverso della Regola non è meno ricco di quello precedente, anche se diversamente. Contiene infatti, con la solita concisione, il precetto di un esame di coscienza, frequente ed attento, circa l'osservanza della Regola stessa e una sintesi rapida, ma efficace, della dottrina sulla necessità della grazia.

1. Esame di coscienza

S. Agostino vuole che la Regola sia presa sul serio, cioè come una norma stabile a cui si deve uniformare la vita. Per questo prescrive due cose: primo che sia conosciuta bene, secondo che si confronti con essa costantemente la nostra condotta. Perché poi possiate rimirarvi in questo libretto come in uno specchio onde non trascurare nulla per dimenticanza, vi sia letto una volta la settimana [375]. La lettura è un mezzo; il fine è la conoscenza della Regola in modo che non sia dimenticata in nessun particolare, perché ogni particolare è importante. La conoscenza poi, a sua volta, è un mezzo che tende a un fine ulteriore che è rimirarsi nella Regola come in uno specchio. L'immagine dello specchio è quella stessa usata frequentemente da S. Agostino per la Sacra Scrittura. Questo fatto ci consente di applicare alla Regola, con le dovute proporzioni, ciò che S. Agostino stesso dice della Sacra Scrittura. "La Sacra Scrittura ti sia quale specchio - dice il Santo in un discorso al popolo -. Questo specchio ha una lucentezza non fallace, una lucentezza che non adula, che non ha preferenze per nessuno. Sei bello? Ti vedrai bello. Sei brutto? Ti vedrai brutto. Ma se ti appresserai a lui in stato di bruttezza e ti vedrai brutto, non accusare lo specchio; torna in te stesso, lo specchio non t'inganna. Non devi ingannarti neppure tu" [376]. L'esame di coscienza, dunque, dev'essere umile, sincero, coraggioso. Nessuno pensi che la Regola, non abbondando in prescrizioni particolari, sia un paradigma poco utile per un severo esame di coscienza. S. Agostino vuole appunto che l'esame verta non tanto sui particolari, che sono conseguenza di certi principi, quanto sui principi stessi da cui quei particolari dipendono. Quando questi principi siano profondamente radicati nell'animo in modo da creare in esso una disposizione abituale e un'inclinazione costante e forte, si può essere certi che l'osservanza della Regola, e con ciò la spinta verso la perfezione, è assicurata. Ma occorre che l'esame sia fatto con sincerità, senza inganni. Se troviamo che la nostra condotta non è conforme alla Regola, non dobbiamo accusare la Regola, ma noi stessi. In questo modo la Regola raggiunge lo scopo per cui è stata scritta, che è quello di esserci luce, norma e guida. Tra le norme che la Regola ci offre vengono in primo luogo - è inutile ricordarlo - l'ascesa verso Dio, l'esercizio della carità fraterna, la fedeltà alla preghiera, l'amore per il bene comune della Chiesa, dell'Ordine, della comunità, la gioia e la santità della consacrazione a Dio, la povertà convinta e sentita che attende tutto dalla misericordia divina, il servizio dei fratelli, il condono delle offese, la correzione fatta con umiltà ed amore, l'aspirazione costante alla contemplazione. Basti questa rapida enunciazione. Essa dimostra che l'esame di coscienza di chi prende la Regola sul serio è lungo, impegnativo, sconvolgente. Anche sconvolgente. Non è possibile essere mediocri quando ci si confronta senza orpelli con un ideale tanto esigente e tanto alto. Nulla è più esigente e più alto della carità con cui amiamo Dio e il prossimo. Ma la carità, lo ripetiamo ancora una volta, che sarà l'ultima, è il segreto, la forza, l'anima della Regola agostiniana.

2. La grazia

Il tema dell'osservanza della Regola richiama al pensiero di Agostino un altro tema, che è legato strettamente ad esso, quello della grazia. Non c'è bisogno qui di ricordare quanto il Vescovo d'Ippona abbia contribuito ad approfondire, illustrare e difendere la dottrina della grazia: fu questo uno degli impegni più grandi che ebbe dalla conversione alla morte, particolarmente negli ultimi venti anni quando dovette insorgere contro i "nemici della grazia di Dio", i pelagiani. Per questo il titolo, che la storia gli ha riservato, di Dottore della grazia. La Regola non ha sull'argomento che poche parole, ma bastano per ricordare tre grandi principi che riassumono la dottrina sulla necessità dell'aiuto divino per compiere il bene ed evitare il male. Possiamo enunciarli, rapidamente, così: se siamo buoni è dono di Dio, se non lo siamo è colpa nostra, se vogliamo diventarlo e continuare ad esserlo dobbiamo pregare perché il Signore ci sostenga con la sua grazia. Il primo e il secondo principio sembrano alla nostra corta ragione contrari tra loro, ma non lo sono. Enunciano soltanto il mistero della grazia che s'innesta sul mistero della nostra natura, la quale, essendo creata, è limitata e defettibile. Ne segue che quanto v'è in noi di negativo, di difettoso, di peccato è nostro, cioè nasce dalla nostra condizione di creature - l'uomo, direbbe qui S. Agostino, non ha di suo se non "la menzogna e il peccato" [377] - mentre quanto vi è in noi di buono, di positivo, di perfetto è dono di Dio, cioè è anch'esso nostro, ma è nostro in quanto ci è stato donato. Per portare un esempio diremo che l'occhio può non vedere quando brilla la luce, ma non può vedere quando la luce non c'è.

L'esempio è di S. Agostino. "Dio non ci aiuta a peccare - scrive il Santo - ma non possiamo compiere il bene se Dio non ci aiuta. Come l'occhio del corpo non ha bisogno della luce perché si chiuda e si allontani da essa, ma ha bisogno della luce per vedere, né può affatto vedere senza la luce; così Dio, che è la luce dell'uomo interiore, aiuta l'occhio della nostra anima affinché operiamo il bene non secondo la nostra, ma secondo la sua giustizia. Allontanarsi però da Dio è opera nostra... Dio aiuta quelli che si convertono a Lui, abbandona quelli che se ne allontanano, ma anche per convertirci a Lui, egli ci aiuta" [378]. Ma torniamo alla Regola.

  • Se vi troverete ad adempiere tutte le cose che vi sono scritte ringraziatene il Signore, datore di ogni bene [379] Perché ringraziare il Signore, se non perché è un dono suo l'aver osservato ciò che la legge prescrive? Ringraziare infatti altro non è che il riconoscere di aver ricevuto un favore e mostrarsene grati a chi ce lo ha fatto. È dono di Dio, dunque, osservare la legge di Dio. Abbiamo ricordato sopra la breve preghiera di S. Agostino, che costituì uno scandalo per i pelagiani: Dammi ciò che comandi e comanda ciò che vuoi [380], preghiera contenuta nelle Confessioni, ma che S. Agostino conferma e commenta più tardi nella controversia pelagiana [381]. Egli ne è tanto convinto che ringrazia il Signore non solo per avergli perdonato le colpe che ha commesso, ma per avergli perdonato anche quelle che non ha commesso. Ecco le sue parole: "Attribuisco alla tua grazia e alla tua misericordia il dileguarsi come ghiaccio dei miei peccati - dice al Signore nelle Confessioni - attribuisco alla tua grazia anche tutto il male che non ho commesso. Cosa non avrei potuto fare, se amai perfino il delitto in se stesso? Eppure tutti questi peccati, e quelli che di mia spontanea volontà commisi, e quelli che sotto la tua guida evitai, mi furono rimessi, lo confesso. Quale uomo conscio della propria debolezza osa attribuire alle proprie forze il merito della castità e dell'innocenza che serba, e quindi ti ama meno, quasi che meno abbia avuto bisogno della misericordia con cui condoni i peccati a chi si rivolse a te?" [382]. Questo stesso sentimento, che è umiltà insieme e sapienza, S. Agostino lo inculca agli altri, particolarmente alle vergini. Vale la pena di rileggere alcune pagine del libro su La santa verginità [383]. Ne riportiamo due tratti significativi. "Ritenete come a voi perdonato in una maniera più perfetta, vi si legge, tutto il male che non avete commesso per esserne stati preservati da lui" [384]. Ed ancora: "(La vergine di Dio) penserà con piena convinzione che, quando Dio impedisce a certuni di cadere in peccato, costoro han da considerare che tutti i peccati sono stati loro perdonati in maniera più radicale. Ne sono testimoni certe espressioni di supplica devota che troviamo nella Sacra Scrittura: quelle, cioè, in cui appare che gli stessi comandamenti di Dio non possono tradursi in pratica senza il dono e l'aiuto di chi li aveva impartiti" [385]. Da questa dottrina S. Agostino tira una conclusione generale: Dio, coronando nel cielo i nostri meriti, corona i suoi doni: i doni della fede, della giustificazione, della perseveranza finale, senza i quali o non ci sono meriti o non hanno nessun influsso per la vita eterna [386]. Quando dunque la coscienza ci assicura d'aver osservato la Regola, se non ricorre sul nostro labbro l'espressione Deo gratias, espressione che era in uso presso i primi discepoli di S. Agostino i quali, incontrandosi, si salutavano con essa [387], almeno ciò che questa espressione suggerisce ed esprime deve essere sempre nel nostro cuore. Che cosa v'è infatti di più nobile, di più bello, di più santo che il sentimento umile e sincero di gratitudine a Dio? "Che cosa di meglio potremmo recare nel cuore - scrivono Agostino e Alipio al vescovo di Cartagine Aurelio - e pronunciare con la bocca e manifestare con la penna se non "Sia ringraziato Dio"? Non potrebbe dirsi nulla di più conciso, nulla udirsi di più lieto, nulla comprendersi di più significativo, nulla compiersi di più utile di questa esclamazione. Sì ringraziamo Dio ... " [388] per il suo ineffabile dono [389].
  • Quando invece, continua la Regola, qualcuno si avvedrà di essere manchevole in qualcosa, si dolga del passato [390]. Riconosca cioè la sua colpa, senza cercare scuse, senza attribuirla ad altri che a se stesso. "Molti - osserva S. Agostino - confessano la propria iniquità, ma non contro se stessi, bensì contro Dio; quando si trovano in mezzo ai peccati dicono: Dio lo ha voluto". Non proprio, con queste parole, ma certamente con un ragionamento che, volere o no, porta a questa conclusione. Si appellano infatti alle stelle, al fato - oggi si direbbe alla natura - al diavolo. "Spazza via queste scuse per i tuoi peccati" ammonisce S. Agostino. Il ragionamento giusto, il ragionamento vero è un altro, precisamente questo: "Dio mi ha creato con il libero arbitrio: se ho peccato, io ho peccato. Non soltanto dunque confesserò la mia iniquità, ma la confesserò contro di me, non contro Dio. Io ho detto: Signore abbi pietà di me, grida il malato al medico. Io ho detto. Perché io ho detto? Sarebbe sufficiente: ho detto. Dice Io per dare enfasi al discorso: io, io, non il fato, non la fortuna, non il diavolo, perché neppure esso mi ha obbligato, ma io ho acconsentito a lui che tentava di persuadermi [391]. Il riconoscimento della propria colpa è l'inizio della "conversione", l'inizio di ogni mutamento in meglio. "Tu cerchi la bellezza, cerchi una cosa buona. Ma perché cerchi la bellezza, o anima? Perché il tuo sposo ti ami. Poiché se sei brutta gli dispiaci. Egli infatti chi è? Il più bello tra i figli degli uomini... Tu vuoi piacergli... Ma non lo puoi finché sei deforme. Che cosa farai per diventare bella? Prima di tutto ti dispiaccia la tua deformità e allora da Colui, per piacere al quale vuoi diventare bella, riceverai in dono la bellezza. ... Dunque, o anima, non potrai essere bella se non avrai confessato, davanti a Colui che è sempre bello, la tua bruttezza" [392]. Sono queste alcune espressioni di un lungo brano d'un discorso agostiniano che nessuno vorrà privarsi della gioia di leggere. Si tratta dunque di evitare una grave perversione, quella di attribuire il bene che facciamo a noi stessi e il male che commettiamo a Dio. No. Occorre rovesciare le posizioni: il bene va attribuito a Dio, il male a noi. Questo è l'ordine. S. Agostino vi insiste [393]. Forse a causa dei manichei, forse a causa dell'orgoglio umano, che si gloria volentieri del bene, ma non è in grado, perché cieco, di riconoscere il male; forse, infine, a causa della controversia pelagiana, che lo induceva a mettere in rilievo l'efficacia della grazia. In ogni modo, l'insistenza del vescovo d'Ippona su questo argomento è ammonitrice e rivela uno dei cardini più fermi della vita spirituale. Solo se ci riconosciamo colpevoli davanti a Dio possiamo incominciare a non esserlo più. Il secondo riguarda il futuro: occorre cioè premunirsi per non commettere più peccati. Ci premuniamo in due modi: implorando, con umiltà e dolore, il perdono dei peccati commessi e chiedendo a Dio la grazia di non cadere in nuove tentazioni.
  • La Regola infatti continua e conclude: ... si premunisca per il futuro, pregando che gli sia rimesso il debito e non sia ancora indotto in tentazione [394]. Questa conclusione, che ci ricorda il posto che occupa la preghiera nella vita cristiana e ce lo ricorda con le parole del Padre nostro, è in tutto degna del Dottore della grazia e del contenuto della Regola. Il Dottore della grazia ha tanto insistito su quelle parole del Vangelo: Vigilate e pregate, affinché non cadiate in tentazione! [395]. Nella prima opera contro i pelagiani ha scritto queste forti parole: "Respingiamo lontano dalle nostre orecchie e dalla nostra mente coloro che dicono che, una volta ricevuto il libero arbitrio, non dobbiamo pregare affinché Dio ci aiuti a non commettere peccati" [396]. Vi ha insistito particolarmente commentando il Padre nostro, di cui le ultime tre domande contengono il piano divino per la nostra liberazione dal male, che è quello di liberarci dal peccato, di aiutarci a non commettere peccati, di toglierci finalmente, nella resurrezione, ogni possibilità di peccato. Altro infatti non vogliono dire quelle tre domande se non questo: perdonaci, Signore, le colpe che abbiamo commesso lasciandoci vincere dalla tentazione, aiutaci a non lasciarci più vincere da essa, toglici la tentazione [397]. E quando ci sarà tolta, se non nel cielo? La Regola, poi, trova in queste ultime parole il suo degno coronamento. Se i religiosi si sono uniti insieme per tendere insieme verso Dio, essi non possono raggiungere lo scopo della loro vita se non pregando. La preghiera, e solo la preghiera, vive di Dio e per Iddio, perché è, essenzialmente, come già sappiamo, conversione, tensione, adorazione, amore.

 

 

(375) - Regola, 49.

(376) - Serm. 49, 5.

(377) - In Io. Ev. tr. 5, 1.

(378) - De pecc. mer. et rem. 2, 5, 5.

(379) - Regola, 49.

(380) - Confess. 10, 29, 40.

(381) - De pecc. mer. et rem. 2, 5, 5.

(382) - Confess. 2, 7, 15.

(383) - Cf. De s. virg. 40, 41; 41, 42.

(384) - De s. virg. 40, 4 1.

(385) - De s. virg. 41, 42.

(386) - Cf. Ep. 194, 5, 19; De gratia et lib. arb. 6, 13 ss.

(387) - Enarr. in ps. 132, 6.

(388) - Ep. 41, 1.

(389) - Cf. 2 Cor 9, 15.

(390) - Regola, 49.

(391) - Enarr. in ps. 31, s. 2, 16.

(392) - Enarr. in ps. 103, s. 1, 4-6.

(393) - Cf. Enarr. in ps. 66, 6; 91, 3; 140, 9; 142, 5.

(394) - Regola, 49.

(395) - Mt 26, 41.

(396) - De pecc. mer. et rem. 2, 5, 6.

(397) - Cf. De pecc. mer. et rem. 2, 4, 4.