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Contenuto Dottrinale

Milano: sant'Agostino in un dipinto di Foppa

sant'Agostino in un dipinto di Foppa

 

 

LA REGOLA: CONTENUTO DOTTRINALE

di p. Agostino Trapé

 

 

 

 

Capitolo nono

LA PREGHIERA

 

Se la castità, la povertà e l'obbedienza sono le condizioni della vita comune e del progressivo fiorire, in essa, della carità; la preghiera, la mortificazione, la lectio divina, lo studio e il lavoro ne sono il continuo alimento. Prima di tutto la preghiera. A chi legge la Regola può sembrare strano che S. Agostino, il quale ha parlato tanto e tanto profondamente della preghiera - è in realtà il dottore della preghiera com'è il dottore della grazia - dedichi ad essa nella Regola un capitolo brevissimo. È vero, il capitolo della Regola sulla preghiera è molto breve, ma occorre aggiungere subito che è molto ricco. Tocca infatti ben cinque temi essenziali: la necessità della preghiera, la interiorità della preghiera, la preghiera comune, la preghiera privata, il canto ecclesiastico. A questi temi se ne aggiunge un sesto, a cui la Regola accenna più tardi, che completa il quadro: la frequenza, e perciò la perfezione della preghiera. Vediamo uno per uno, sia pur rapidamente, questi temi.

1. Necessità

Il primo è espresso con le parole dell'Apostolo: Orationibus instate: insistete, perseverate assiduamente nella preghiera, attendetevi con alacrità. Questo vuol dire l'Apostolo [276] e questo dice S. Agostino. Ma dietro queste brevi parole v'è tutta la dottrina sulla necessità della preghiera, che il Vescovo d'Ippona ha difeso ampiamente mostrandone il fondamento teologico, che è costituito dalla necessità della grazia. La preghiera infatti è tanto necessaria quanto è necessaria la grazia. La grazia è necessaria, come è noto, per osservare la legge divina, per vincere le tentazioni, per giungere alla giustificazione, per perseverare in essa fino alla fine: per le stesse ragioni è necessaria la preghiera. Certo, anche la preghiera è un dono di Dio; ma è un dono che Dio dà a tutti, affinché per mezzo di esso ognuno possa ottenere gli altri doni che sono necessari per giungere alla salvezza.

"Vi sono dei doni - dice S. Agostino - che Dio dà anche a quelli che non pregano, come l'inizio della fede; e vi sono dei doni che dà solo a quelli che pregano, come la perseveranza finale" [277]. Dio ha voluto che nella palestra spirituale combattessimo più con le preghiere che con le nostre forze [278]. S. Agostino ne era profondamente e teologicamente convinto. Perciò la viva e continua esortazione alla preghiera. La ritroviamo nella Lettera a Proba [279], che è un trattato sulla preghiera. "Combatti con la preghiera, le dice, per vincere questo mondo; prega nella speranza, prega con fede ed amore, prega con costanza e pazienza, prega come una vera vedova di Cristo" [280], cioè come chi si sente sprovvisto di ogni sostegno e lo attende solo da Dio. La necessità della preghiera fu un tema centrale della controversia pelagiana. Il punto di partenza era identico, cioè questo: Dio non comanda l'impossibile. Ma da questa verità i pelagiani concludevano che non è necessaria la grazia per osservare ciò che Dio comanda; mentre S. Agostino ne concludeva, interpretando esattamente il Vangelo, che è necessaria la preghiera per ottenere la grazia ed essere in grado così di fare quello che Dio comanda. Da qui la celebre preghiera delle Confessioni contro cui si scagliò Pelagio: "Dammi (Signore) ciò che comandi e comanda ciò che vuoi" [281].

Ma la preghiera non è solo implorazione, è anche, anzi prima di tutto, adorazione, lode, ringraziamento. Anche queste forme sono incluse in quel breve precetto della Regola: orationibus instate. Tant'è vero che il testo dell'Apostolo, da cui queste parole sono tratte, continua così: vigilate in essa - nella preghiera - con azioni di grazie [282]. Ma di questo diremo qualcosa a commento del penultimo capoverso della Regola.

2. Interiorità

Il secondo tema a cui la Regola accenna è l'interiorità della preghiera; tema espresso con quelle parole: Quando pregate Dio con salmi ed inni, meditate nel cuore ciò che proferite con la voce [283]. È inutile dire che il tema dell'interiorità è fecondissimo: è connesso intimamente al dovere, alla natura, all'oggetto della preghiera, e serve a spiegare una moltitudine di questioni che si pongono intorno ad essa. L'interiorità della preghiera vuol dire che Dio non si prega con le labbra, ma col cuore [284], che altro è parlare molto, altro il pregare molto [285], che il grido della preghiera è il fervore della carità, mentre il silenzio della preghiera è il freddo della carità [286]. Applicando questo principio S. Agostino, con un colpo d'ala, identifica la preghiera col desiderio. "Il desiderio prega sempre, anche quando la lingua tace. Se desideri sempre, preghi sempre. Quando sonnecchia la preghiera? Quando si raffredda il desiderio" 286. Ed ancora: "La tua preghiera è lo stesso tuo desiderio, se il desiderio è continuo, la preghiera è continua" [287].

Questa identificazione è veramente luminosa. Si comprende, allora, perché dobbiamo pregare, ancorché Dio sappia di che cosa abbiamo bisogno. Dobbiamo pregare, perché attraverso la preghiera prendiamo coscienza del nostro bisogno, approfondiamo e dilatiamo il nostro desiderio e ci mettiamo in grado di ricevere in maniera più grande - la grandezza del dono è proporzionata alla grandezza del desiderio - ciò che Dio si prepara a darci [288]. Si comprende anche la ragione della preghiera vocale, ancorché la preghiera consista, essenzialmente, non nella voce, ma nell'amore.

"Se in determinati intervalli di ore e di tempi preghiamo Dio anche con le parole - scrive S. Agostino a Proba - lo facciamo per ammonire noi stessi con quei segni e renderci consapevoli in tal modo dei progressi fatti nel desiderio di Dio e per spronarci efficacemente ad accrescerlo" [289]. La preghiera vocale o è la risultanza di un forte desiderio o il mezzo per suscitarlo. Si comprende infine quale sia la risposta da dare a una questione che spesso ci tormenta: che cosa possiamo chiedere a Dio nella preghiera. Data l'identificazione tra preghiera e desiderio la risposta è facile: ciò stesso che possiamo onestamente desiderare e nell'ordine in cui possiamo e dobbiamo desiderarlo. Se la preghiera infatti s'identifica con il desiderio, l'oggetto della preghiera non può essere altro che l'oggetto del desiderio. Perciò insegnandoci a pregare, Gesù ci ha insegnato a desiderare, cioè ad amare.

Il Padre nostro è il paradigma dei nostri desideri: le sette petizioni di esso contengono tutto ciò che possiamo rettamente e convenientemente desiderare, tutto ciò che possiamo e dobbiamo amare [290]. Il Padre nostro perciò non è solo una preghiera, ma una fonte di spiritualità, una regola di condotta, una scuola di vita. V'è poi un'altra conclusione - questa volta una conclusione generale - da trarre dal principio dell'interiorità, che è questa: la preghiera non è solo un dovere, anche se è un dovere, ma è soprattutto un bisogno, un bisogno incoercibile dell'animo nostro. Questa conclusione, che rovescia radicalmente le corte vedute che spesso si hanno della preghiera, non si riferisce tanto alla preghiera di domanda - è ovvio che chi domanda sa e confessa di aver bisogno - quanto alla preghiera di lode, di ringraziamento, di adorazione. Questa preghiera infatti non nasce da una condizione morale o fisica d'indigenza, ma dal bisogno profondo, costituzionale dell'anima umana, la quale, fatta per Iddio, cerca, anche senza saperlo, Dio, lo ama e vuole possederlo. Quando dunque la Regola ci prescrive di meditare nel cuore ciò che proferiamo con la voce, ci prescrive di far nostri i sentimenti dei salmi e degli inni che recitiamo. Ora si sa che i salmi sono una scuola di alta spiritualità contemplativa. Se contengono spesso il grido del bisognoso o del sofferente che implora la liberazione dai pericoli, la difesa contro i nemici, il sostegno contro il dolore e contro l'abbandono degli uomini, contengono anche, e in misura maggiore, il riconoscimento della maestà di Dio, la lode della sua provvidenza, il ringraziamento per i suoi benefici, il desiderio di abitare nella sua casa, la contemplazione dei suoi attributi, il senso profondo della mutabilità delle cose e dell'immutabile eternità.

Nessuno può recitare i salmi senza vibrare di questi stessi sentimenti. Si sa quanto S. Agostino li amasse. Da quando, a Cassiciaco, imparò ad ammirarne la bellezza e a farne l'espressione preferita della sua preghiera, non se ne staccò più. Si rilegga quanto egli stesso ne dice nelle Confessioni [291]. Da vescovo, commentandoli, contribuì a farne scoprire ed amare le ricchezze, particolarmente le ricchezze cristologiche. È Cristo - il Cristo totale - che parla nei salmi: "dobbiamo sentire, nota e familiare, come fosse la nostra, la sua voce in ogni salmo, sia che canti o che gema o che si rallegri nella speranza o che sospiri per la realtà" [292].

3. Preghiera comune

Anche a questo proposito la Regola è brevissima: enuncia solo il principio, ma un principio che vale per sempre e che non cambia mai. "Attendete con alacrità alle preghiere nelle ore e nei tempi stabiliti" [293]. Spetta ora ad un Regolamento o alle Costituzioni stabilire questi tempi e queste ore. Ma ore e tempi per la preghiera comune ci debbono essere: una vita comune senza preghiera comune non sarebbe più vita comune. In questo, che è l'essenziale, la Regola è perentoria. Conosciamo uno di questi Regolamenti - l'Ordo monasterii di cui abbiamo parlato - che, se fosse stato in uso ad Ippona o in qualche convento agostiniano d'Africa, ci direbbe quale era il modo di pregare in quei monasteri; in ogni modo, essendo antichissimo, ci dice qual era il modo di recitare l'"Uffizio" in qualche monastero d'Occidente già nel secolo V°. Lo riportiamo qui in una nostra traduzione. "Vi descriviamo, poi, come dovete pregare e salmodiare:

  • Alle prime ore del giorno - si tratta delle nostre Lodi - si diranno tre salmi: il 62° (Deus, Deus meus, ad te de luce vigilo), il 5° (Verba mea auribus percipe Domine), l'89° (Domine, refugium factus es mihi).
  • A Terza si dirà prima un salmo con responsorio, quindi due antifone, una lezione e la preghiera finale. Similmente si farà a Sesta e Nona.
  • Al tramonto del sole - Lucernaio (quando cioè si accendevano i lumi) = ai nostri Vespri - si diranno: un salmo con responsorio, quattro antifone, ancora un salmo con responsorio, una lezione e la preghiera finale.
  • Al tempo opportuno dopo il Lucernaio (= Vespri), mentre tutti sono seduti, si leggeranno le lezioni; infine i salmi consuetudinari prima del riposo notturno.
  • In quanto poi alle preghiere notturne, queste comprendono nei mesi di novembre, dicembre, gennaio e febbraio dodici antifone, sei salmi e tre lezioni; in marzo, aprile, settembre e ottobre dieci antifone, cinque salmi e tre lezioni; in maggio, giugno, luglio e agosto otto antifone, quattro salmi e due lezioni" [294].

Questo testo, preziosissimo per la Liturgia delle Ore - è il più antico che si conosca in Occidente - sotto l'aspetto spirituale non ha bisogno di commenti. Ci si consenta solo un'osservazione: i religiosi che seguivano quest'ordinamento liturgico prendevano davvero sul serio la preghiera in comune! E questi religiosi furono molti. Sappiamo infatti che l'Ordo monasterii dal secolo V° al secolo XIII° ha preceduto, per lo più, il testo della Regola agostiniana. Oggi perciò, quando la Chiesa, attraverso la riforma della Liturgia delle ore, vuole che questa forma di preghiera torni ad essere per tutto il popolo cristiano una fonte viva di spiritualità, i discepoli di S. Agostino, che l'hanno sempre considerata una forma insostituibile della loro pietà comunitaria, debbono essere di esempio e di stimolo ad altri. A Ippona i fedeli andavano in chiesa mattina e sera e pregavano più volte al giorno in casa. A un pio fedele S. Agostino fa dire così: "mi alzerò ogni giorno, mi recherò alla chiesa, dirò un inno al mattino, e un altro alla sera, e il terzo e il quarto nella mia casa; così io sacrifico ogni giorno un sacrificio di lode e lo offro al mio Dio" [295]. I fedeli di oggi, sull'esempio dei religiosi, devono tornare, se non a questa frequenza, almeno a questo fervore di preghiera comune. Quanto sia gradita a Dio la preghiera comune è inutile dirlo. Coloro che sono un solo cuore ed un'anima sola protesi verso Dio non possono non avere una sola voce che loda Dio. L'unità della carità suppone ed esige l'unità della preghiera: la suppone perché ne è l'effetto; la esige perché ne è la causa. Tra l'una e l'altra v'è una mirabile causalità reciproca che le fa crescere e decrescere insieme.

4. Preghiera privata

La Regola non prescrive soltanto la preghiera comune, ma esorta anche alla preghiera privata. Lo fa indirettamente, ma assai chiaramente. Vuole infatti che nel monastero ci sia un oratorio, che l'oratorio sia destinato solo alla preghiera, che in esso ognuno che lo voglia e che ne abbia tempo possa raccogliersi a pregare anche fuori delle ore stabilite. La prescrizione di destinare l'oratorio esclusivamente alla preghiera - L'oratorio sia adibito esclusivamente allo scopo per cui è stato fatto e che gli ha dato il nome [296] - può aver tratto occasione dall'uso di alcuni monasteri, forse a Roma, di servirsi dell'oratorio - dove allora non c'era il Santissimo - come sala di lavoro. Ma qui non importa la prescrizione in sé, bensì l'intenzione, che è quella di provvedere che ci sia nel monastero un luogo silenzioso e libero, dove il religioso, che lo possa e lo voglia, si raccolga in preghiera senz'essere disturbato. Se perciò qualcuno - continua la Regola - avendo tempo, volesse pregare anche fuori delle ore stabilite, non ne sia ostacolato da chi abbia ritenuto conveniente adibire l'oratorio a scopi diversi [297]. Questa sensibilità per la preghiera privata in una Regola destinata ad organizzare la vita comune, è degna in tutto del Dottore che ha tanto insistito sull'interiorità e che ha speso nella preghiera tutte le gocce di tempo che ha avuto disponibili. L'esortazione, così frequente in S. Agostino e così importante, di ritirarsi nella propria anima e di elevarla a Dio quanto più è possibile - "Rifugiati nella tua anima e rivolgila a Dio per quanto puoi" [298] -, altro non è che un'esortazione alla preghiera continua e perciò, in quanto tale, privata.

Nella Lettera a Proba S. Agostino loda l'uso dei monaci d'Egitto, dei quali aveva inteso che pregavano spesso, anche se brevemente, saettando a Dio, di corsa, la propria preghiera - da qui la parola giaculatoria - "affinché, dice, l'intenzione vigilantemente eretta, intenzione che è sommamente necessaria a chi prega, non svanisca o non si ottunda a causa del troppo prolungarsi della preghiera". "Con ciò, continua il Santo, mostrano chiaramente anch'essi che questa intenzione, come non dev'essere sforzata, se non può perdurare, così non dev'essere subito interrotta, se perdura" [299]. "Perciò non è insensato né inutile pregare anche lungamente, quando sia possibile, cioè quando i doveri di altre opere buone e necessarie non lo impediscono; ancorché, come ho detto, anche compiendo queste opere dobbiamo, attraverso il desiderio, pregare sempre. Poiché pregare a lungo non vuol dire, come alcuni credono, cadere nel multiloquio. Altro infatti è un lungo discorso, altro un diuturno affetto. Di nostro Signore è stato scritto che passava la notte in preghiera [300], e che pregava più lungamente [301]: con ciò che altro faceva se non darci l'esempio, Egli, propizio intercessore nel tempo ed eterno elargitore col Padre?" [302]. Del resto la preghiera privata è inseparabile dalla preghiera comune: ne è la migliore preparazione e il migliore risultato.

nfatti con la preghiera privata ci prepariamo efficacemente alla preghiera comune, che è, per lo più, la preghiera liturgica, e da questa ci deriva lo stimolo che acuisce il bisogno della preghiera privata. Poiché la preghiera comune non ha solo il compito di esprimere all'unisono la carità dei fratelli, né solo quello di scuotere, attraverso l'orario, la nostra pigrizia, difendendoci dalla nostra negligenza; ma anche il compito di farci sentire più profondamente e il dovere e il bisogno di pregare. Chi dunque, mancandogli la possibilità, per particolari circostanze, di partecipare alla preghiera comune, trascura di fare quella stessa preghiera da solo, mostra di non aver fatto bene, cioè con profonda convinzione, la preghiera comune. Giova notare, poi, che la preghiera privata, nel senso stretto, per il cristiano non esiste: egli è sempre unito a Cristo e alla Chiesa; e quando prega non può non sentire questa misteriosa unione. "Gesù Cristo Figlio di Dio, dice S. Agostino, prega per noi, prega in noi, ed è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio... Non dire nulla senza di Lui ed Egli non dice nulla senza di te" [303]. Questo è vero in modo particolare per la preghiera comune, ma è vero anche per la preghiera privata, che perciò non è, propriamente, privata.

5. Canto ecclesiastico

L'ultimo punto toccato dalla Regola intorno al tema della preghiera è quello del canto ecclesiastico. Viene toccato in forma negativa, ma non per questo rivela meno efficacemente l'uso del canto sacro nei monasteri e l'importanza che vi annette S. Agostino. E non vogliate cantare se non quanto è prescritto per il canto. Evitate quindi ciò che al canto non è destinato [304]. Che cosa abbia dato occasione a queste parole non è facile dirlo: forse abusi già esistenti, forse la preoccupazione che sarebbero potuti nascere, forse l'avversione e la contestazione di alcuni. Suggerisce quest'ultima ipotesi la risposta di S. Agostino al tribuno Ilario, un laico di Cartagine, insorto energicamente contro l'uso, introdotto da poco in quella Chiesa, di cantare i salmi durante la celebrazione eucaristica, sia prima dell'offertorio sia durante la comunione [305]. Ma l'ipotesi più vera sembra essere un'altra, cioè gli eccessi dei donatisti, i quali non solo cantavano salmi composti da loro, ma li cantavano con un'eccitazione frenetica, rimproverando i cattolici di essere "troppo sobri nel cantare i divini cantici dei Profeti" [306] In ogni modo le parole della Regola sono una giusta preoccupazione, valida anche oggi - ci si consenta di sottolineare queste parole - che attraverso la necessaria vigilanza della comunità - diciamo pure della Chiesa - tende ad evitare facili abusi e a fare del canto ecclesiastico un'elevazione spirituale, uno stimolo alla pietà, un'espressione lirica dei grandi sentimenti che la carità ispira. Questa in realtà l'esperienza e questa la persuasione di S. Agostino. Sentì la prima volta il canto sacro a Milano: la commozione lo prese, e pianse.

"Quante lacrime versai ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici [307], che risuonavano dolcemente nella tua chiesa! Una commozione violenta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità eccitandovi un caldo sentimento di pietà. Le lacrime che scorrevano mi facevano bene" [308]. Questa esperienza fu tanto profonda che non potrà più dimenticarla. A Ippona, nella sua basilica pacis, quando sente il clero e il popolo cantare i salmi, si commuove ancora. Qualche volta gli pare di sentirsi più attratto dalla melodia del canto che dalle parole dei salmi, e se ne fa uno scrupolo, e vorrebbe togliere quell'uso che egli stesso ha introdotto; ma ripensa all'esperienza milanese e riconosce l'utilità di quell'uso e lascia correre, anzi se ne rallegra. "Allora - scrive nelle Confessioni, - rimuoverei dalle mie orecchie e da quelle della stessa Chiesa tutte le melodie delle soavi cantilene con cui si accompagnano abitualmente i salmi davidici; e in quei momenti sembra più sicuro il sistema, che ricordo di aver udito spesso attribuire al vescovo alessandrino Atanasio: questi faceva recitare al lettore i salmi con una flessione della voce così lieve, da sembrare più vicina ad una declamazione che a un canto. Quando però mi tornano alla mente le lacrime che i canti di chiesa mi strapparono ai primordi della mia fede riconquistata, e la commozione che oggi ancora suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica" [309]. Anzi loda questa pratica e la raccomanda, vuole cioè che in Chiesa durante la celebrazione della sacra liturgia si canti, e si canti molto. "A proposito di quest'ultima usanza - cioè del canto - tanto utile per commuovere l'animo alla devozione e infiammare il cuore d'amore divino - si notino queste parole - si riscontra una grande varietà".

Così nella risposta a Gennaro. Nella quale, poco dopo, scrive queste altre parole: " ... quando i fratelli si radunano in chiesa, qual è il tempo in cui non si devono cantare le lodi sacre, se non quando si fa lettura e l'omelia relativa, oppure quando il vescovo recita preghiere ad alta voce o viene indetta la preghiera dell'assemblea dalla viva voce del diacono? Negli altri intervalli di tempo non vedo assolutamente che cosa di meglio e di più utile, di più santo possa farsi dai cristiani riuniti nell'assemblea ecclesiale" [310]. Anche durante il lavoro manuale S. Agostino vedeva bene che si cantasse. "Quanto al salmeggiare, è una cosa fattibile anche mentre si lavora con le mani. È anzi bello rallegrare così il lavoro quasi col ritmo d'una celestiale cadenza. Chi infatti non sa come tanti lavoratori, senza cioè sospendere il lavoro, col cuore e con la lingua si danno a cantare motivi uditi nelle rappresentazioni teatrali, tanto insulsi e il più delle volte anche licenziosi? Nessuno quindi può proibire al servo di Dio che, mentre lavora con le mani, mediti la legge del Signore e canti salmi a gloria del nome di Dio altissimo. Basta che abbia il tempo riservato per imparare a memoria quel che poi avrà da ripetere" [311]. Il canto è l'espressione dei sentimenti più forti. Cantare è proprio di chi ama, dice S. Agostino: cantare amantis est [312]. L'esule che ama la patria esprime col canto il desiderio di tornarvi; il viandante che fa ritorno a casa sostiene col canto il suo cammino. Così il cristiano. "Canta, gli dice perciò il Vescovo d'Ippona, come sogliono cantare i viandanti; canta, ma cammina. Mitiga, cantando, la fatica, ma non amare la pigrizia: canta e cammina" [313].

6. Progresso nella preghiera

La Regola infine tocca un sesto argomento riguardante la preghiera: è l'argomento della sincerità e della perfezione progressiva con cui dobbiamo farla. Lo tocca in un inciso parlando della collaborazione che tutta la comunità deve dare affinché i fratelli, che si siano offesi a vicenda, si chiedano reciprocamente perdono: lo facciano, dice la Regola, grazie alle vostre preghiere che quanto più frequenti tanto più dovranno essere perfette [314]. Si noti prima di tutto l'accostamento tra la frequenza e la perfezione. I religiosi hanno la possibilità e il dovere di dedicarsi alla preghiera con più frequenza e con maggiore regolarità, essendo la preghiera, come nutrimento principale della carità, il fine principale della loro vita consacrata. Occorre però evitare che da questa regolare frequenza nasca la stanchezza, la noia o l'abitudine monotona e senza vita. Deve nascere invece la perfezione. La preghiera importa l'intenzione, l'attenzione e la tensione. Il frequente esercizio deve rendere l'intenzione più pura, l'attenzione più vigile, la tensione più forte. "Nella preghiera si compie - spiega S. Agostino - la conversione del cuore verso Colui che è sempre pronto a darci i suoi doni, se noi siamo pronti a riceverli; con la conversione avviene la purificazione dell'occhio interiore... affinché la pupilla del cuore, diventata pura, possa sopportare la luce; ma possa anche abitare in essa, e vi abiti non solo senza molestia, ma con ineffabile gaudio, in cui consiste appunto la vera ed autentica vita beata" [315].

Il progresso dunque nella preghiera segna il progresso nel nostro cammino interiore. Il Vescovo d'Ippona ha descritto spesso i gradi di questo cammino. La prima volta lo ha fatto nel libro scritto a Roma che ha per titolo La grandezza dell'anima. Vi distingue quattro gradi, che sono: la virtù, la tranquillità, l'ingresso nella luce, la dimora nella luce. Nel primo grado la preghiera suscita e sostiene l'impegno di purificazione, che consiste nell'esercizio delle virtù morali - particolarmente della fortezza e della temperanza, le virtù che ci rendono immobili ai terrori e alle lusinghe - nella benevolenza verso gli uomini, nell'umile sottomissione all'autorità della Scrittura e della Chiesa, nel pensiero costante della fugacità delle cose e della morte. Nel secondo è la preghiera che implora la grazia necessaria per consolidare la sanità e l'equilibrio interiore e conformare l'anima all'ideale cristiano attraverso l'esercizio continuo della fede, della speranza, della carità. Nel terzo grado è di nuovo la preghiera che con grande fiducia dirige lo sguardo verso la contemplazione della verità rivelata, cioè verso "quel premio altissimo e segretissimo per raggiungere il quale si è tanto lavorato" [316].

Nel quarto infine è la stessa preghiera che, trasformata in contemplazione, lode, compiacenza, unione, diventa la gioiosa dimora dell'anima in Dio [317], dimora che suppone il raggiungimento della beatitudine della pace e la fruizione, in grado eminente, del dono della sapienza [318]. Avido di queste altezze, S. Agostino, vescovo, immerso in tante preoccupazioni laceranti ed opprimenti, ha sentimenti di nostalgia e di santa invidia per i religiosi che possono attendere alla preghiera con più frequenza e con più serenità. Ecco un brano della lettera all'abate di Capraria, Eudossio: "Quando noi pensiamo alla pace che voi godete in Cristo, la gustiamo anche noi nella vostra carità, benché viviamo in mezzo a varie dure fatiche... Vi esortiamo dunque, vi preghiamo e vi scongiuriamo per la profondissima umiltà e la eccelsa misericordia di Cristo, di ricordarci nelle vostre sante preghiere, che crediamo siano da voi elevate con maggiore vigilanza e attenzione, mentre le nostre vengono strapazzate e offuscate dalla confusione e dal tumulto degli atti processuali secolari che riguardano non già noi, ma coloro i quali, se ci costringono a fare con loro un miglio, ci si comanda di andare con essi per altri due. Siamo assillati da tante questioni che a stento possiamo respirare". Ma si consola pensando al premio che il Signore Gesù ha promesso al ministro fedele. "Siamo però pienamente convinti, conclude, che Colui, al cui cospetto arrivano i gemiti dei prigionieri [319], se saremo perseveranti nel ministero in cui si è degnato collocarci con la promessa del premio, ci libererà da ogni angustia con l'aiuto delle vostre preghiere" [320].

 

 

 

(276) - Cf. Col 4, 2; Rom 12, 12.

(277) - De dono persev. 16, 39.

(278) - Cf. Opus imperf. c. Iul. 6, 15.

(279) - Cf. Ep. 130.

(280) - Ep. 130, 10, 19.

(281) - Confess. 10, 29, 40; De dono persev. 20, 53.

(282) - Col 4, 2.

(283) - Regola, 12.

(284) - Enarr. in ps. 119, 2.

(285) - Cf. Ep. 130, 10, 19.

(286) - Serm. 80, 7.

(287) - Enarr. in ps. 37, 14.

(288) - Cf. Ep. 130, 10, 17.

(289) - Ep. 130, 4, 9.

(290) - Cf. Ep. 130, 6, 12.

(291) - Confess. 9, 4, 8-12.

(292) - Enarr. in ps. 42, 1.

(293) - Regola, 10.

(294) - Cf. L. VERHEIJEN, La Règle de St. Augustin, I, pp. 148-149.

(295) - Enarr. in ps. 49, 23.

(296) - Regola, 11.

(297) - Ivi.

(298) - Ep 9, 1.

(299) - Ep. 130, 10, 20.

(300) - Lc 6, 12.

(301) - Lc 22, 43.

(302) - Ep. 130, 10, 19.

(303) - Enarr. in ps. 85; 1.

(304) - Regola, 13.

(305) - Cf. Retract. 2, 11, l'opera è perduta.

(306) - Ep 55, 18, 34.

(307) - Ef 5, 19.

(308) - Confess. 9, 6, 14.

(309) - Confess. 10, 33, 50.

(310) - Ep 55, 18, 34.

(311) - De opere monach. 17, 20.

(312) - Serm. 336, 1, 1.

(313) - Serm. 256, 3.

(314) - Regola, 42.

(315) - De serm. Dom. in monte 2, 3, 14.

(316) - De quant. an. 33, 74.

(317) - De quant. an. 33, 73-77.

(318) - De serm. Dom. in monte 1, 1, 3-4, 12.

(319) - Cf. Sal 77, 11.

(320) - Ep. 48, 1.