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Scritta nel 387
a Cassiciaco (Cassago Brianza)
Agostino risponde a Nebridio che, ignorando molte cose, non può essere chiamato felice (n. 1). La vera felicità (n. 2); più che il corpo si deve amare l'anima (n. 3-4). Una piccola questione grammaticale anima l'ultima parte della lettera (n. 5).
1. Utrum nescio quo, ut ita dicam, blandiloquio tuo factum putem, an vere ita se res habeat; incertum apud me est. Nam repente accidit, nec satis deliberatum est, quatenus debeat committi fidei. Exspectas quid istuc sit. Quid censes ? Prope persuasisti mihi, non quidem beatum esse me; nam id solius sapientis praedium est; sed certe quasi beatum: ut dicimus hominem, quasi hominem in comparatione hominis illius quem Plato noverat; aut quasi rotunda et quasi quadra ea quae videmus, cum longe ab eis absint quae paucorum animus videt. Legi enim litteras tuas ad lucernam iam coenatus; proxime erat cubitio, sed non ita etiam dormitio: quippe diu mecum in lecto situs cogitavi, atque has loquelas habui, Augustinus ipse cum Augustino: Nonne verum est quod Nebridio placet, beatos nos esse ? Non utique; nam stultos adhuc esse, nec ipse audet negare. Quid, si etiam stultis beata vita contingit ? Durum quasi vero parva, vel alia ulla miseria sit quam ipsa stultitia. Unde ergo illi visum est ? An lectis illis libellis etiam sapientem me ausus est credere ? Non usque adeo temeraria est laetitia gestiens, praesertim hominis cuius quanti ponderis consideratio sit, bene novimus. Illud igitur est: scripsit quod nobis putavit dulcissimum fore; quia et illi dulce factum est quidquid posuimus in illis litteris, et scripsit gaudens, nec curavit quid committendum gaudenti calamo esset. Quid, si Soliloquia legisset ? Laetaretur multo exundantius, nec tamen reperiret plus aliquid, quod me appellaret, quam beatum. Cito ergo summum nomen effudit in me, nec sibi aliquid reservavit quod de me laetior asseveret. Vide laetitia quid faciat !
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1. Resto incerto se io debba considerarlo effetto di non so quale tuo "blandiloquio", per così dire, oppure se la cosa stia veramente in questo modo: è infatti accaduto all'improvviso e non ho ancora chiarito bene quanto crederci. Tu attendi di sapere di che si tratti. Che cosa pensi? Tu mi hai quasi convinto, non che io sia beato (giacché un tale bene è possesso esclusivo del sapiente), ma certo un quasi beato: come diciamo di uno che è "quasi uomo", paragonandolo alla immagine perfetta dell'uomo quale lo concepiva Platone, o diciamo "quasi rotonde" o "quasi quadrate" le cose che vediamo, sebbene siano molto lontane dal somigliare alle figure che pochi competenti vedono con gli occhi della mente. In verità ho letto la tua lettera al lume della lucerna, dopo cena; era vicino il momento di andare a letto, ma non a dormire: e infatti, disteso nel letto, ho riflettuto a lungo tra me e me ed ho fatto, io Agostino, questi discorsi con Agostino: È dunque vero quello che pensa Nebridio, cioè che io sono felice? No di certo: giacché neppure lui osa negare che io sia ancora stolto. E se anche agli stolti potesse toccare una vita beata? È difficile: quasi che la stoltezza fosse una piccola miseria o vi potesse essere qualche altra miseria oltre ad essa. Perché dunque a lui è parso così? Forse che, dopo aver letto quei miei scritti, ha osato credermi anche sapiente? Non è così temeraria l'allegria, per quanto sia sfrenata, soprattutto in una persona che ben sappiamo con quanta ponderatezza proceda nelle sue considerazioni. È così, dunque: ha scritto quello che pensava mi avrebbe fatto molto piacere, poiché anche a lui ha fatto molto piacere tutto ciò che io ho messo in quello scritto; ed ha scritto in preda alla gioia, senza preoccuparsi di quello che conveniva affidare ad una penna trasportata dall'allegria. Che cosa sarebbe capitato, se avesse letto i Soliloqui ? La sua gioia sarebbe molto più grande e tuttavia non troverebbe un appellativo più elevato da darmi di quello di beato. Ha dunque avuto troppa fretta di spendere per me il nome più alto, e non si è riservato nulla da attribuirmi quando fosse più allegro. Vedi gli effetti dell'allegria! |
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2. Sed ubi est ista beata vita? ubi? ubinam? O si ipsa esset repellere atomos Epicuri! O si ipsa esset scire nihil deorsum esse praeter mundum! O si ipsa esset nosse extrema sphaerae tardius rotari quam medium! Et alia similia quae similiter novimus. Nunc vero quomodo vel qualiscumque beatus sum, qui nescio cur tantus mundus sit, cum rationes figurarum per quas est, nihil prohibeant esse, quanto quis voluerit, ampliorem? Aut quomodo non mihi diceretur, imo non cogeremur confiteri corpora in infinitum secari ut a certa velut basi in quantitatem certam certus corpusculorum numerus surgeret? Quare cum corpus nullum esse minimum sinitur, quo pacto sinamus esse amplissimum, quo amplius esse non possit? Nisi forte illud quod Alypio aliquando dixi occultissime, habet magnam vim: ut quoniam numerus ille intellegibilis infinite crescit, non tamen infinite minuitur, nam non cum licet ultra monadem risolvere; contra sensibilis (nam quid est aliud sensibilis numerus, nisi corporeorum vel corporum quantitas?) minui quidem infinite, sed infinite crescere nequeat. Et ideo fortasse merito philosophi in rebus intellegibilibus divitias ponunt, in sensibilibus egestatem.Quid enim aerumnosius quam minus atque minus semper posse fieri? Quid ditius, quam crescere quantum velis, ire quo velis, redire cum velis, quousque velis, et hoc multum amare quod minui non potest? Quisquis namque intellegit istos numeros, nihil sic amat, ut monadem; nec mirum, cum per eam fiat, ut caeteri amentur. Sed tamen cur tantus est mundus? poterat enim esse vel maior, vel brevior. Nescio: tale est enim. Et cur hoc loco potius quam illo? Nec in ea re debet esse quaestio, ubi quidquid esset, quaestio esset. Unum illud multum movebat, quod infinite corpora secarentur. Cui fortasse responsum est, de vi contraria intellegibilis numeri.
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2. Ma dov'è questa vita beata dove, dove mai? Oh, se consistesse nel rigettare la dottrina di Epicuro sugli atomi! Oh, se consistesse nel sapere che in basso non vi è nulla ad eccezione del mondo! Oh, se consistesse nel sapere che i punti all'esterno di una sfera nuotano più lentamente del suo centro ed altre cose di questo genere che noi parimenti conosciamo! Ora invece, come ed in che grado posso essere beato io che non so perché il mondo sia grande così, mentre l'essenza delle figure che lo compongono non impedirebbe affatto che fosse più grande quanto si vuole? Oppure come non mi si obietterebbe, anzi non saremmo costretti ad ammettere che i corpi sono divisibili all'infinito, così da potersi ricavare come da una data base un numero determinato di corpuscoli in una determinata quantità? Perciò, mentre non si ammette che esista un corpo che sia il più piccolo possibile, come possiamo ammettere che ne esista uno grandissimo, tanto che non ve ne possa essere uno più grande? A meno che non abbia un grande valore quello che dissi una volta in gran segreto ad Alipio: poiché il numero intelligibile cresce all'infinito, ma non decresce all'infinito (infatti non è possibile scomporlo oltre la monade), al contrario il numero sensibile (che altro è infatti il numero sensibile se non qualcosa di materiale, vale a dire la quantità dei corpi?) può diminuire all'infinito ma non può crescere all'infinito. E per questo forse a ragione i filosofi pongono la ricchezza nelle cose intelligibili, la povertà in quelle sensibili. Che cosa v'è infatti di più miserabile che poter diminuire all'infinito? E quale ricchezza più grande che crescere quanto vuoi, andare dove vuoi, tornare indietro quando vuoi e fin dove vuoi ed amare grandemente ciò che non può diminuire? Infatti chi comprende tali numeri, ama nulla tanto quanto la monade. E non è strano, dato che è grazie ad essa che si arriva ad amare tutti gli altri. Ma ciononostante perché mai il mondo è grande così? Avrebbe infatti potuto essere o più grande o più piccolo. Non lo so: in realtà è così. E perché è qui piuttosto che là? Neppure di ciò si deve far questione, altrimenti si dovrebbe fare sulla posizione di qualsiasi cosa. Soltanto questo mi turbava molto, cioè che i corpi fossero divisibili all'infinito. Al che si è forse dato una risposta con la teoria della proprietà contraria del numero intelligibile. |
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3. Sed exspecta; videamus quid sit hoc nescio quid, quod suggeritur menti: certe sensibilis mundus nescio cuius intellegibilis imago esse dicitur. Mirum autem est quod in imaginibus videmus, quas specula referunt: nam quamvis ingentia specula sint, non reddunt maiores imagines, quam sunt corpora etiam brevissima obiecta. In parvis autem specillis, sicut in pupillis oculorum, etsi magna facies sese opponat, brevissima imago pro modo speculi formatur. Ergo et imagines corporum minui licet, si specula minuantur: augeri, si augeantur, non licet. Hic profecto aliquid latet, sed nunc dormiendum est. Neque enim Nebridio beatus quaerendo videor, sed fortasse aliquid inveniendo. Id autem aliquidquid est? an illa ratiocinatio, cui tanquam unicae meae blandiri soleo, et ea me nimis oblectare?
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3. Ma aspetta un istante; vediamo che cos'è questo non so che, che mi viene in mente: certamente si dice che il mondo sensibile è immagine di non so quale mondo intelligibile. Ora è singolare quello che vediamo nelle immagini riflesse dagli specchi. Infatti per quanto grandi siano gli specchi, non rendono le immagini più grandi di quello che sono i corpi, per quanto piccolissimi, messi loro davanti. Negli specchi piccoli invece, come nelle pupille degli occhi, anche se si mette davanti ad essi un gran volto, si forma un'immagine piccolissima, proporzionata alla misura dello specchio. Dunque è possibile diminuire anche le immagini dei corpi, usando specchi più piccoli, ma non si può aumentarle usando specchi più grandi. Qui senza dubbio c'è sotto qualcosa, ma adesso bisogna dormire. E infatti non è cercando che appaio beato a Nebridio, ma forse scoprendo qualcosa. E che cos'è questo qualcosa? È forse quel ragionamento che son solito accarezzare come mio particolare e di cui son solito rallegrarmi molto? |
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4. Unde constamus? Ex animo et corpore. Quid horum melius? Videlicet animus. Quid laudatur in corpore? Nihil aliud video quam pulchritudinem. Quid est corporis pulchritudo? Congruentia partium cum quadam coloris suavitate. Haec forma ubi vera melior, an ubi falsa? Quis dubitet ubi vera est, esse meliorem? Ubi ergo vera est? In animo scilicet. Animus igitur magis amandus est quam corpus. Sed in qua parte animi ista est veritas? In mente atque intellegentia. Quid huic adversatur? Sensus. Resistendum ergo sensibus totis animi viribus? Liquet. Quid si sensibile nimium delectant? Fiat ut non delectent. Unde fit? Consuetudine his carendi appetendique meliora. Quid si moritur animus? Ergo moritur veritas, aut non est intellegentia veritas, aut intellegentia non est in animo, aut potest mori aliquid in quo aliquid immortale est: nihil autem horum fieri posse Soliloquia nostra iam continent, satisque persuasum est; sed nescio qua consuetudine malorum territamur atque titubamus. Postremo etiamsi moritur animus, quod nullo modo posse fieri video, non esse tamen beatam vitam in laetitia sensibilium, hoc otio satis exploratum est. His rebus fortasse atque talibus Nebridio meo si non beatus, at certe quasi beatus videor: videar et mihi; quid inde perdo, aut cur parcam bonae opinioni? Haec mihi dixi: deinde oravi, ut solebam, atque dormivi. |
4. Di che cosa siamo composti? D'anima e di corpo. E di queste due parti qual è la migliore? L'anima, evidentemente. Che cosa si loda nel corpo? Nient'altro, vedo, che la bellezza. Che cos'è la bellezza fisica? La giusta proporzione delle parti, accompagnata da una certa vaghezza di colorito. Questa forma leggiadra è migliore dove è vera o dove è falsa? Chi oserebbe porre in dubbio che sia migliore dove è vera? Orbene, dove è vera? Nell'anima, naturalmente. Quindi l'anima si deve amare più del corpo. Ma in quale parte dell'anima si trova questa verità? Nella mente e nell'intelligenza. Che cosa offusca l'intelligenza? I sensi. Bisogna dunque resistere ai sensi con tutte le forze dell'anima? È evidente. E se le cose sensibili ci dilettano troppo? Si faccia in modo che non ci dilettino. Come si fa? Abituandoci a farne a meno e a desiderare cose migliori. E se l'anima muore? Allora anche la verità muore, o l'intelligenza e la verità non s'identificano, oppure l'intelligenza non ha sede nell'anima, oppure può morire una cosa in cui ha la sua sede alcunché d'immortale: ma che nessuna di queste eventualità possa verificarsi già è detto nei miei Soliloqui ed è sufficientemente dimostrato; ma per non so quale abitudine ai mali siamo atterriti e titubanti. Infine, anche se l'anima è soggetta alla morte, il che vedo assolutamente impossibile, tuttavia in questo periodo di riposo ho sufficientemente accertato che la vita beata non consiste nel godimento delle cose sensibili. Forse per queste e simili ragioni appaio al mio Nebridio, se non beato, almeno quasi beato. Potrei sembrarlo anche a me: che cosa ci perdo o perché dovrei rifiutare la buona stima? Questo mi dissi; poi, come al solito, mi misi a pregare e m'addormentai. |
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5. Haec placuit scribere tibi. Delectat enim me quod mihi gratias agis, si nihil te quod in buccam venerit celem; etgaudeo, quia sic tibi placeo. Apud quem igitur libentius ineptiam, quam cui displicere non possum? At si in potestate fortunae est, ut hominem amet homo, vide quam beatus sim, qui de fortuitis tam multum gaudeo, et talia bona, fateor, desidero mihi ubertim accrescere. Fortunae autem bona verissimi sapientes, quos solos beatos fas est vocari, nec timeri voluerunt, nec cupi, an cupiri, tu videris. Et belle accidit. Nam volo me declinationis huius gnarum facias. Cum enim adiungo verba similia, incertior fio. Nam ita est cupio, ut fugio, ut sapio, ut iacio, ut capio; sed utrum fugiri an fugi, utrum sapiri an sapi, sit modus infinitus, ignoro. Possem attendere iaci et capi, ni vererer ne me caperet, et pro ludibrio iaceret quo vellet, qui aliud iactum et captum, aliud fugitum, cupitum, sapitum esse convinceret. Quae item tria, utrum penultima longa et inflexa, an gravi brevique pronuntianda sint, similiter nescio. Provocaverim te ad epistolam longiorem; peto, ut paulo diutius te legam. Nam non queo tantum dicere, quantum volupe est legere te. |
5. Ecco quanto mi è piaciuto di scriverti. In verità mi allieta il fatto che tu mi ringrazi se non ti nascondo nulla di ciò che mi viene in bocca e sono contento di piacerti così. Con chi dunque dovrei scherzare più volentieri che con colui al quale non posso dispiacere? E se poi è in potere della fortuna che un uomo ami un altro uomo, vedi quanto sia fortunato io che godo tanto dei favori della fortuna e, lo confesso, desidero che tali beni mi crescano copiosamente. Ma i sapienti più autentici, che soli è lecito chiamare beati, non hanno voluto né che si temessero i beni della fortuna né che si desiderassero (cupi o cupiri? veditela tu). E questo è venuto a proposito. Desidero infatti che tu mi dia chiarimenti su tale coniugazione; giacché, quando coniugo verbi di questo tipo, sono molto incerto. Cupio, infatti, come fugio, sapio, iacio, capio, sono verbi affini; ma non so se l'infinito sia fugiri o fugi, sapiri o sapi. Potrei propendere per iaci e capi, se non temessi che mi prendesse e mi gettasse a suo capriccio, dove gli aggradi, chi riuscisse a convincermi che una cosa è iactum e captum, un'altra fugitum, cupitum, sapitum. Così pure ignoro parimenti se queste ultime tre forme si debbano pronunciare con la penultima lunga ed accentata oppure non accentata e breve. Vorrei indurti a scrivere una lettera più estesa; mi auguro di poterti leggere un po' più a lungo. Giacché non sono in grado di dire appieno quanto mi faccia piacere leggerti. |