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lettera 17      a  Massimo

 

Scritta nel 390-391

a Tagaste

 

Agostino risponde confutando le idee del grammatico Massimo sulla religione pagana e cioè che gli dèi siano membra dell'unico Dio (n. 1); allo scherno mosso contro certi nomi punici di eroi cristiani oppone nomi molto più ridicoli di divinità pagane, le quali non sono altro che uomini morti (n. 2-3); confuta l'accusa del culto segreto dei Cristiani ed invita a discussioni serie (n. 4-5).

 

1.   Seriumne aliquid inter nos agimus an iocari libet? Nam sicut tua epistola loquitur, utrum causae ipsius infirmitate, an morum tuorum comitate sit factum, ut malles esse facetior quam paratior, incertum habeo. Primo enim Olympi montis et fori vestri comparatio facta est: quae nescio quo pertinuerit, nisi ut me commonefaceret in illo monte Iovem castra posuisse, cum adversus patrem bellum gereret, ut ea docet historia, quam vestri etiam sacram vocant; et in isto foro recordarer esse in duobus simulacris unum Martem nudum, alterum armatum, quorum daemonium infestissimum civibus, porrectis tribus digitis contra collocata statua humana comprimeret. Ergone unquam ego crediderim, mentione illius fori facta, numinum talium memoriam mihi te renovare voluisse, nisi iocari potius quam serio agere maluisses! Sed illud plane quo tales deos quaedam Dei unius magni membra esse dixisti, admoneo, quia dignaris, ut ab huiusmodi sacrilegis facetiis te magnopere abstineas. Siquidem illum Deum dicis unum, de quo, ut dictum est a veteribus, docti indoctique consentiunt, huiusne tu membra dicis esse, quorum immanitatem, vel, si hoc mavis, potentiam, mortui hominis imago compescit? Plura hinc possem dicere; vides enim pro tua prudentia, quam locus late iste pateat reprehensioni. Sed me ipse cohibeo, ne a te rhetorice potius quam veridice agere existimer

 

1.  Trattiamo fra noi qualcosa di serio o vogliamo scherzare? Giacché, visto il tenore della tua lettera, non so se dipenda dalla debolezza della causa in se stessa o dalla giovialità del tuo temperamento il tono più scherzoso che impegnato che hai preferito assumere. Innanzi tutto c'è il paragone tra il monte Olimpo e la vostra piazza, che non so quale scopo abbia eccetto quello di ricordarmi che Giove pose su quel monte il suo accampamento quando faceva guerra a suo padre, come racconta quella storia che i vostri correligionari chiamano addirittura sacra, e che in codesta piazza vi sono due statue di Marte (uno nudo e l'altro armato) e di fronte ad esse una statua d'uomo con tre dita protese per frenare il loro potere demoniaco, funesto per la città. Potrei dunque mai credere che tu, facendo menzione di questa piazza, abbia voluto rinnovare in me il ricordo di tali divinità se non avessi inteso scherzare piuttosto che fare sul serio? Ma, per venire proprio alla tua affermazione che siffatti dèi sono come le membra dell'unico e sommo Dio, ti raccomando, poiché me lo permetti, di astenerti con la massima cura da siffatte sacrileghe facezie. Se veramente intendi per unico Dio quello intorno al quale, come è stato detto dagli antichi, sono d'accordo i dotti e gli indotti, osi tu chiamare membra di Lui coloro dei quali l'immagine di un uomo morto basta a frenare la crudeltà o (se lo preferisci) la potenza? Potrei dilungarmi su questo: tu vedi infatti, data la tua saggezza, quanto ampiamente questo punto [della tua lettera] offra il fianco alla critica. Ma mi freno spontaneamente, perché da te non si pensi che combatto con le armi della retorica piuttosto che con quelle della verità.

 

2.   Nam quod nomina quaedam Punica mortuorum collegisti, quibus in nostram religionem festivas, ut tibi visum est, contumelias iaciendas putares, nescio utrum repellere debeam, an silentio praeterire. Si enim res istae videntur tam leves tuae gravitati quam sunt, iocari mihi non multum vacat. Si autem graves tibi videntur, miror quod nominum absurditate commoto, in mentem non venerit habere vos et in sacerdotibus Eucaddires, et in numinibus Abaddires. Non puto ego ista tibi cum scriberes in animo non fuisse, sed more humanitatis et leporis tui, commonefacere nos voluisti ad relaxandum animum, quanta in vestra superstitione ridenda sint. Neque enim usque adeo teipsum oblivisci potuisses, ut homo Afer scribens Afris, cum simus utrique in Africa constituti, Punica nomina exagitanda existimares. Nam si ea vocabula interpretemur, Namphamo quid aliud significat, quam boni pedis hominem, id est cuius adventus afferat aliquid felicitatis; sicut solemus dicere, secundo pede introisse, cuius introitum prosperitas aliqua consecuta sit?Quae lingua si improbatur abs te, nega Punicis libris, ut a viris doctissimis proditur, multa sapienter esse mandata memoriae. Poeniteat te certe ibi natum, ubi huius linguae cunabula recalent. Si vero et sonus nobis non rationabiliter displicet, et me bene interpretatum illud vocabulum recognoscis, habes quod succenseas Virgiliotuo, qui Herculem vestrum ad sacra, quae illi ab Evandro celebrantur, invitat hoc modo: Et nos et tua dexter adi pede sacra secundo Secundo pede optat ut veniat. Ergo venire Herculem optat Namphamonem, de quo tu multum nobis insultare dignaris. Verumtamen si ridere delectat, habes apud vos magnam materiam facetiarum: deum Stercutium, deam Cloacinam, Venerem Calvam, deum Timorem, deum Pallorem, deam Febrem, et caetera innumerabilia huiuscemodi, quibus Romani antiqui simulacrorum cultores templa fecerunt, et colenda censuerunt: quae si negligis, Romanos deos negligis; ex quo intellegeris non Romanis initiatus sacris, et tamen Punica nomina, tanquam numinum Romanorum altaribus deditus, contemnis ac despicis.

2.  Non so infatti se debba fermarmi a confutare oppure passare sotto silenzio il fatto che tu hai raccolto alcuni nomi punici di defunti per i quali hai ritenuto di dover lanciare delle ingiurie, divertenti a tuo giudizio, contro la nostra religione. Se queste cose sembrano alla tua serietà tanto futili quanto lo sono realmente, io non ho molto tempo per scherzare; se al contrario ti sembrano importanti io mi meraviglio come, colpito dalla bizzarria dei nomi, non ti sia venuto in mente che tra i vostri sacerdoti ci siano gli Eucaddiri e tra i vostri dèi gli Abaddiri. Io non penso che non te ne ricordassi mentre scrivevi: hai voluto piuttosto, secondo il tuo carattere affabile e faceto, richiamarmi alla memoria quanto vi sia di ridicolo nella vostra superstizione, per divertirmi un po'. Non avresti infatti potuto dimenticarti di te stesso, fino al punto da ritenere di dover criticare dei nomi punici tu, africano, nell'atto di scrivere ad africani e vivendo noi tutti e due in Africa. Giacché se vogliamo dare una interpretazione di quei nomi, cos'altro vuol dire Namfamone se non uomo dal piede propizio, cioè il cui arrivo è portatore di felicità: allo stesso modo che siamo soliti dire che è entrato con piede propizio colui al cui arrivo è seguito un avvenimento favorevole? E se questa lingua è disapprovata da te, nega che nei libri punici siano state tramandate molte cose sagge, come è attestato da uomini dottissimi: davvero dovrebbe dispiacerti di essere nato là dove è la culla di questa lingua e ne rivivono i nomi! Se invece è assurdo che ci dispiaccia il suono di essa e riconosci che è esatta l'interpretazione che ho dato di quel vocabolo, hai motivo di prendertela col tuo Virgilio che invita in questo modo Ercole al sacrificio celebrato in suo onore da Evandro: Avvicinati a noi e alle tue sacre cerimonie ben disposto con piede propizio (Virgilio, Aen. 8, 302). [Il poeta] desidera che venga con piede propizio: dunque desidera che venga Ercole Namfamone, a causa del quale ti diverti molto ad insultarci. Ma in verità, se hai voglia di ridere, trovi presso di voi grande materia di facezie: il dio Stercuzio, la dea Cloacina, Venere calva, il dio Timore, il dio Pallore, la dea Febbre ed innumerevoli altri di questo genere, ai quali i Romani antichi, adoratori di idoli, innalzarono templi e stabilirono che si dovevano onorare: se tu li trascuri, trascuri gli dèi di Roma. Da ciò si comprende che non sei iniziato ai sacri riti romani e tuttavia disprezzi e disdegni i nomi punici, come se fossi dedito al culto dei numi dei Romani.

 

3.   Sed mihi videris omnino plus quam nos fortasse illa sacra nihili pendere, sed ex eis nescio quam captare ad huius vitae transitum voluptatem: quippe qui etiam non dubitaveris ad Maronem confugere, ut scribis, et eius versu te tueri, quo ait: Trahit sua quemque voluptas (Virgilio, Bucol. 2, 652). Nam si tibi auctoritas Maronis placet, sicut placere significas, profecto etiam illud placet: Primus ab aethereo venit Saturnus Olympo, Arma Iovis fugiens, et regnis exsul ademptis (Virgilio, Bucol. 2, 65) et caetera, quibus eum atque huiuscemodi deos vestros vult intellegi homines fuisse. Legerat enim ille multam historiam vetusta auctoritate roboratam, quam etiam Tullius legerat (Cicerone, De nat. deor. 1, 42, 119), qui hoc idem in dialogis plus quam postulare auderemus commemorat, et perducere in hominum notitiam, quantum illa tempora patiebantur, molitur.

3.  Ma mi pare, in verità, che tu - forse ancor più di noi - non tenga in nessun conto quei riti; ma da essi ricavi un certo qual divertimento per passare [più gradevolmente] questa vita, dato che non hai esitato a ricorrere anche a Marone, come risulta da ciò che mi scrivi, e a citare in tuo soccorso il suo verso in cui dice: Ciascuno è guidato dal proprio piacere. Giacché, se accetti l'autorità di Marone, come mostri di accettarla, tu accetti senza dubbio anche questo: Per primo Saturno venne dall'etereo Olimpo fuggendo le armi di Giove e profugo dopo esser stato privato del suo regno, e tutti gli altri passi con cui vuol significare che quel dio ed altri vostri dèi di questo genere furono uomini. Infatti egli aveva letto molte storie rese autorevoli dalla loro antichità, e le aveva lette anche Tullio,che nei suoi dialoghi richiama il medesimo pensiero più di quanto avremmo osato sperare e cerca, per quanto quei tempi lo permettevano, di portarlo a conoscenza di tutti.

 

4.   Quod autem dicis, eo nostris vestra sacra praeponi, quod vos publice colitis deos, nos autem secretioribus conventiculis utimur: primo illud abs te quaero, quomodo oblitus sis Liberum illum, quem paucorum sacratorum oculis committendum putatis. Deinde tu ipse iudicas nihil aliud te agere voluisse, cum publicam sacrorum vestrorum celebrationem commemorares, nisi ut nobis decuriones et primates civitatis per plateas vestrae urbis bacchantes ac furentes, ante oculos quasi spectacula poneremus: in qua celebritate, si numine inhabitamini, certe videtis quale illud sit quod adimit mentem. Si autem fingitis; quae sunt ista etiam in publico vestra secreta, vel quo pertinet tam turpe mendacium? deinde cur nulla futura canitis, si vates estis? aut cur spoliatis circumstantes, si sani estis?

4.  Quanto poi alla tua affermazione che i vostri riti sono superiori ai nostri per il fatto che voi adorate i vostri dèi in pubblico mentre noi facciamo le nostre riunioni in gran segreto, innanzitutto ti chiedo come abbia potuto dimenticarti di quel Libero che voi ritenete di dover sottoporre agli occhi di pochi iniziati. Poi tu stesso riconosci di non aver avuto altra intenzione, ricordando la pubblica celebrazione dei vostri riti, se non che noi avessimo davanti agli occhi, come uno spettacolo, i decurioni e i capi della città che nei baccanali folleggiano per le piazze della vostra città. Ma se in tale festa siete posseduti da un dio, certamente vedete che razza di dio possa essere quello che toglie il senno. E se fingete, che cosa significano questi vostri misteri anche in pubblico, o quale scopo si prefigge una così turpe menzogna? E perché poi, se siete vati, non predite nulla di ciò che avverrà? O perché mai spogliate i circostanti, se siete sani di mente?

 

5.   Cum igitur haec nos et alia, quae nunc praetermittenda existimo, per epistolam tuam feceris recordari, quid nos non derideamus deos vestros, quos abs te ipso subtiliter derideri nemonon intellegit, qui et ingenium tuum novit, et legit litteras tuas? Itaque si aliquid inter nos his de rebus vis agamus, quod aetati tuae prudentiaeque congruit, quod denique de nostro proposito iure a carissimis nostris flagitari potest, quaere aliquid nostra discussione dignum: et ea pro vestris numinibus cura dicere, in quibus non te causae praevaricatorem putemus, quo nos magis commoneas quae contra illos dici possunt, quam pro eis aliquid dicas. Ad summam tamen, ne te hoc lateat, et in sacrilega convicia imprudentem trahat, scias a Christianis catholicis, quorum in vestro oppido etiam ecclesia constituta est, nullum coli mortuorum, nihil denique ut numen adorari, quod sit factum et conditum a Deo, sed unum ipsum Deum qui fecit et condidit omnia. Disserentur ista latius, ipso vero et uno Deo adiuvante, cum te graviter agere velle cognovero.

 

5.  Poiché dunque con la tua lettera ci hai fatto ricordare questi fatti ed altri che ora ritengo conveniente tralasciare, perché mai non dovremmo deridere i vostri dèi che chiunque conosca il tuo ingegno e legga la tua lettera, vede essere elegantemente presi in giro anche da te? Perciò se in questo campo vuoi che trattiamo fra noi qualcosa che si addica alla tua età ed alla tua saggezza e che infine, secondo il nostro proposito, possa essere desiderato dai nostri amici più cari, cerca qualcosa che meriti la nostra discussione; e cerca di dire in difesa dei vostri dèi delle cose per cui noi non abbiamo a giudicarti un falso difensore della tua causa, che voglia insegnarci quello che si può dire contro di essi piuttosto che dire qualcosa in loro difesa. Sappi ad ogni modo, per finire, affinché questo fatto non ti sfugga e non ti trascini per ignoranza a sacrileghe calunnie, che dai Cristiani cattolici, di cui nella vostra città esiste anche una chiesa, non si rende culto a nessun morto, ed infine non viene adorato come una divinità niente che sia stato fatto e creato da Dio, ma unicamente quel Dio che ha fatto e creato tutte le cose. Si tratterà di questo argomento più diffusamente, con l'aiuto dell'unico vero Dio, quando mi accorgerò che tu vuoi fare sul serio.