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Le grandi famiglie NOBILI di Cassago: i De Pirovano

Stemma dei Pirovano a Civate sulla lapide di Francesco (1649)

Stemma dei Pirovano a Civate sulla lapide di Francesco (1649)

 

 

CARLO FRANCESCO ( ... - 1662) ALIAS GASPARE TRIULTIO QUINTO MARCHESE DI CASSINO

di Luigi Beretta

 

 

Figlio del questore Giovanni, dopo la morte senza figli del cugino Carlo il 25 settembre 1658, ottenne nel 1659 la primogenitura di Gaspare Triultio. Nel 1635 ottiene le rendite della Badia di Cenati, che era stata già di suo zio "monsignore Auditore di Rota."

Una lettera autografa del cardinale Barberini spedita da Roma il 24 aprile 1635 al marchese Giovanni Pirovano, lo ricorda, sia pure di sfuggita:

"Alla volontà mia affettuosissima - scrive il cardinale - verso monsignor Pirovano fratello di Vostra Signoria et tutta la sua Casa in conseguenza e ciascuno di essa è molto inferiore di certo alla dimostratione che mi è stato concesso darne col promuovere la traslazione seguita della Badia di Cenati dalla persona di monsignore sudetto in quella del signor Francesco figlio di Vostra Signoria e sarà sempre qualunque altra mi succeda darne à servitio di tutti loro Signori richiedendolo con giusto titolo e le qualità loro, et in specie il molto merito di monsignore onde l'attestatione di gratitudine che piace a Vostra Signoria hora di darmene, serve solo per accrescer più tosto il desiderio, che hauerò caro, che di tanto resti pienamente persuasa e mi porga poi materia di comprovarlo con l'opera e la prego vero contento di Vostra Signoria."

La lettera cade in un periodo felice per la famiglia Pirovano e dimostra l'importanza in cui erano tenuti i suoi migliori rappresentanti. Quello stesso anno, l'11 ottobre, monsignor Filippo "il vecchio" riceve una lettera dalla Corte di Madrid che gli annuncia la promozione alla carica di Avvocato Fiscale di Milano.

Della vita di Carlo Francesco abbiamo notizie frammentarie. Una semplice minuta redatta verso la metà del Seicento ci fornisce qualche particolare di lui, del padre e dello zio: si tratta di lapidarie annotazioni che mettono l'accento su episodi significativi della loro carriera politica ed ecclesiastica:

"Francesco Pirovano marchese di Cassino chiede alla corte di essere nominato questore soprannumerario nel Magistrato Ordinario di Milano.

Suo padre servì il Re di Spagna per 10 anni in guerra.

Suo padre è Gio:Battista capitano di Fanteria y Maestro de campo nel sito di Vercelli.

Fu poi per 5 anni Questore del Magistrato Ordinario.

Suo zio Filippo fu Auditore della Sacra Rota a Roma per 34 anni.

Lo stesso Filippo aiutò la controversia de la Colonica contro il cardinal Borromeo.

La famiglia Pirovano è molto antica con vescovi di Milano e annovera governatori fra i propri avi.

Francesco Pirovano in altro foglio è nominato Filippo Pirovano Triulzio marchese di Cassino."

Dopo la morte del cardinal Scipione Borghese, passati tre anni di vacanza della commenda di Civate, lo zio mons. Filippo, membro del Collegio milanese dei giusperiti, ma soprattutto prelato-giureconsulto, già da un lustro in Curia romana come Auditore di Rota (1610-1641) ottenne nel 1635 la commenda del monastero di Civate, che "dimise" subito nel 1636 a Francesco "germano nepos, et de vere Nobili et Illustri genere ex utroque Parente procreatus."

Al nipote tuttavia lo zio trasferiva solo le incombenze di governatore utile e di protettore di Civate a Milano, con un compenso di 146 scudi romani. Alla morte dello zio mons. Filippo nel 1641, Francesco gli subentra come giureconsulto collegiato.

Francesco viene ricordato da Giovanni Sitoni di Scozia nel suo "Theatrum equestris nobilitatis secundae Romae, seu chronicon insignis collegii J. PP.", una delle più antiche, documentate ed autorevoli opere a stampa che riguardo la nobiltà milanese, con queste parole: "920 FRANCISCUS PIROVANUS Marchionis Joh. Baptistae Equitis S. jacobi à Spatha, Quaestoris Regii Magistratus Ordinarius Redituum, ac Laurae Marlianae filius, Marchio Cassini, Abbas Commendatarius SS. Petri et Pauli de Clivate, nec non Prior Commendatarius S. Nicolai de Pionna sed an. 1641 ad an. 1665."

 

Nell'agosto 1638 Francesco Pirovano, in quanto titolare Commendatario dell'Abbazia di Civate, si trova al centro di litigi insorti con l'Abate e i monaci olivetani del monastero. Queste contese si trascinavano da anni sin dall'arrivo degli Olivetani a Civate: vi erano stati chiamati nel 1556 per volere del commendatario Nicolò Sfrondati, vescovo di Cremona e poi, dal 1590, papa con il nome di Gregorio XIV.

Il commendatario, desideroso che rifiorisse la vita monastica nella vetusta abbazia e si provvedesse alla cura d'anime, aveva stipulato una convenzione con i monaci olivetani che dovevano mantenere a Civate almeno sei frati sacerdoti, che dovevano attendere alla salmodia corale diurna. Il titolo di abate tuttavia era prerogativa del commendatario: il superiore degli olivetani riuscirà ad avere un riconoscimento ufficiale solo con Francesco Pirovano.

L'accordo che stabilì l'obbligo di attribuire al superiore del monastero il titolo di abate che, sino ad allora, il commendatario aveva voluto fosse riservato solo a sé, risale al 2 agosto 1638. Un documento conservato presso l'Archivio di Stato (Archivio di Stato di Milano, Fondo religione parte antica, Civate, Cartella 3705, fasc. 2 e in Bognetti-Marcora, L'Abbazia benedettina di Civate, Oggiono 1985, 272) prende in esame la questione e fornisce i punti dell'accordo mediato con lodo da don Giovanni Battista Fossati, canonico della chiesa della Scala, che sostituiva un precedente accordo sottoscritto nel 1633 da Scipione Caffarelli, detto il cardinal Borghese, nipote di Paolo V:

"Divenuto pochi anni dopo Commendatario dell'Abbazia sudetta Monsignor Filippo Pirovano (!), varie liti e differenze insorsero tra esso lui e l'abate de Monaci Olivetani, le quali, discusse in un compìto giudizio di quattro atti inanti l'abate Don Giovanni Battista Fossati Canonico della Scala compromissario, furono dal medesimo terminate con Laudo del giorno 2 Agosto 1638 contenente cinque capi. Nel primo, l'annua prestazione de cento scudi, stipulata doversi pagare a' Monaci nell'Istromento dell'anno 1633 per la celebrazione delle sudette messe nella Chiesa di San Pietro in Monte, e per la riparazione e manutenzione di detta Chiesa, suo Campanile ed Edifizi, fu ridotta ad annui scudi sessanta. Nel secondo fu dichiarato che il Vicario perpetuo dell'Abbazia dovesse mantenersi nel possesso d'aver la chiave d'una porta della Chiesa di San Calocero annessa al Monastero per l'amministrazione de Sagramenti in qualunque tempo, nè poterglisi impedire l'uso della Sagrestia, campanile, Tabernaculo od altra qualsivoglia suppellettile serviente all'esercizio della Cura d'Anime, a condizione però che lo stesso Vicario continuar dovesse il pagamento di dodici scudi annui a' Monaci. Nel terzo capo fu determinato che l'Abate e monaci non potessero pretender partecipazione negl'incerti specialmente procedenti da Funerali e Legati per offizi mortuari ed ogni dipendenza dagli uni e dalli altri, salva a Monaci la ragione di conseguire la metà degli emolumenti procedenti da Funerali ed Offizi riguardanti quelle persone che già avevano sepolcro proprio nella detta Chiesa di San Calocero. Nel quarto fu arbitrato che fosse lecito a Monaci il ricevere dal popolo di Civate oblazioni puramente volontarie per qualunque titolo, purchè essi niente pretendessero ed esigessero dal popolo stesso per diritto positivo e contro volontà del medesimo. Nel quinto ed ultimo capo fu pronunziato che il Superiore de' Monaci allora sedente e gli successori di Lui usar potessero del titolo di Abate e che tenuti fossero ad alloggiare il Commendatario allorchè si portasse al Monastero di Civate. Qualch'altre questioni insorsero in esecuzione dell'accennato Lodo, che tranquillate furono anch'esse con immediata successiva convenzione dallo stesso Abbate canonico Fossati collaudata, nella quale fu pattuito in primo luogo che il Vicario Perpetuo dovesse provedersi di paramenti propri senza che fosse tenuto d'indi avanti al pagamento dei dodici scudi annuali e che, per li attrassi da esso dovuti, pagasse ciò che fosse dichiarato dall'Arbitro Fossati, con spiegazione però che niente pagasse qualor dal detto Fossati nessuna positiva dichiarazione sopra di ciò emanasse. In secondo luogo fu poi convenuto che l'Abate Commendatario Pirovano pagasse a Monaci lire milleottanta imperiali per saldo e compìto pagamento delle annualità decorse non pagate e ridotte dalle cento a scudi sessanta annui, come infatti fece il pagamento della sudetta somma nell'atto dell'istromento di accettazione del Lodo e di stipulazione delle Convenzioni sudette, rogato e dato fuori da Carlo Bernasconi il giorno novembre 1638."

Nel 1639 il giovane Francesco si trova a Roma in compagnia dello zio mons. Filippo il Vecchio. Qui ha l'opportunità di occuparsi di alcune faccende di famiglia e in una sua lettera dell'8 ottobre di quello stesso anno che fu inviata al padre, lo informa di alcune indiscrezioni che lo potevano interessare e nello stesso tempo esprime una certa nostalgia per "quelle delizie in un aria perfetta " che il padre, con la madre, si godeva a Cassago:

" Signor presbitero mio osservantissimo

Vostra Signoria è stato tardi ad avisare D. Tobia è partito per Milano così consigliato anzi comandato da Monsignore da loro intenderà più a pieno il successo. La morte del cavalier della Valletta qua si tiene per cortissima. Ho nova che Madre mia sta a Cassago da lei medesima et Vostra Signoria anco vi anderà a godere quelle delizie in un aria perfetta circondato da amici et in una parola a godere vita felice così restano facendoli riverirla.

Roma 8 ottobre i639

Fedelissimo figliolo et servitor Francesco Pirouano."

Nel 1640 lo troviamo a Pavia nella cui Università il 17 settembre gli viene conferita la laurea in utroque iure. Nell'atto viene chiamato con il titolo di abate. Nel 1641 il cardinale Barberini gli assegna la reggenza della Sacra Penitenzieria romana. Nel 1649, nonostante le forti spese che doveva sostenere per garantire un lungo elenco di pensioni che gravavano sulla commenda, fa restaurare il tetto della chiesa di San Calocero nell'abbazia di Civate, di cui era Commendatario.

Una lapide conservata nel chiostro lo ricorda ancora oggi:

FRANCISCVS PIROVANUS ABBAS COMENDATARIVS

AD TESTUDINEM ERIGENDAM MATERIAM CONTVLIT

PARVAE FORTVNAE PARVVM MVNVS

1649

I suoi rapporti con l'Abbazia di Civate si risolvono con un drammatico esito nel 1656. Sospettato di aver consigliato l'omicidio di Carlo Pasquini, il 13 maggio di quell'anno fu privato con decreto della Sacra Rota di ogni beneficio ecclesiastico. I fatti sono noti: questo Pasquini, soprannominato Baroncello, aveva chiesto una sera ospitalità all'agente di Francesco Pirovano a Beverate, dove c'erano dei beni dell'abbazia. L'agente però rifiutò di accoglierlo: il Baroncello entrò con la forza, percosse l'agente e pronunciò parole ingiuriose anche nei confronti del Commendatario. Appena il Pirovano conobbe l'accaduto detto ordine a un certo Girolamo Villa di Cremella di "sistemare" il Baroncello e difatti una sera mentre questi era a Milano, il Villa lo uccise con una archibugiata. L'assassino fuggì verso il convento di S. Damiano, ma non fece in tempo a rifugiarvisi, poiché venne catturato prima e condotto alle carceri arcivescovili, dato che, essendo addetto al Commendatario, sottostava alla legge ecclesiastica. Nel processo Villa confessò le sue malefatte e dichiarò che il committente dell'omicidio era proprio il commendatario Filippo Pirovano. Ne seguì un processo che condannò il Pirovano: il 13 maggio 1656 fu emessa la sentenza a Roma dall'Uditore e Giudice Generale in base alla quale venne privato di tutti i benefici ecclesiastici e della possibilità di averne in futuro. La commenda di Civate gli fu pertanto revocata e fu assegnata al cardinale Chigi.

 

Una accurata ricostruzione di quegli avvenimenti viene proposta anche da Elena Brambilla, in un suo studio "Politica, Chiesa e Comunità locale in Lombardia: l'Abbazia di Civate nella prima età moderna (1550-1700)" pubblicato nella "Nuova rivista storica", anno LXXI gennaio-aprile 1987, pp. 71-114:

 

I dati disponibili, per quanto insufficienti, consentono di intravedere un nesso molto stretto, se non tra i casati d'Adda e Pirovano - signori i primi dei feudi laici, i secondi della commenda ecclesiastica nelle pievi d'Oggiono e Garlate - almeno tra la confisca dei feudi, e le traversie subite da quel momento, per mano della regia Camera, anche dalla commenda dell'abate (ora anche marchese di Cassino) Francesco Pirovano. Per visitare un altro feudo d'Adda, Pandino, soggetto come Oggiono e Garlate alla confisca camerale, il questore Anolfi alloggia in una "casa da nobile" che, guarda caso, è di proprietà «D. Marchionis Abbatis Caroli (Francisc) et Phiiippi fratres de Pirovanis»; e proprio mentre visita il feudo di Oggiono è informato dell'esistenza di affitti privati di pesca sul lago di Annone, ossia su acque che il Fisco considera non già private, ma pubbliche e demaniali. Nasce di qui un primo attacco camerale ai diritti di giurisdizione «usurpati» sul lago, in piccolo dai monaci, e più in grande dal commendatario: cui essi non tardano a rispondere con l'uso spregiudicato della violenza. Seguiamo da vicino la cronologia degli avvenimenti. "Venuta notizia al Magistrato Straordinario che alcuni laghi nei monti di Brianza erano usurpati da diversi Particolari", i questori decretavano il 10 giugno 1652 "cum agatur de Regalibus, excitandos esse possessores ad exhibendum titulum, aliter ad videndum reduci ad manus Regiae Camerae".

Monaci e commendatario di Civate non si degnavano di rispondere; ed era il questore provinciale, "dum aliis de causis in dictis partibus loci Ugloni se contulisset", a confermare che tra i proprietari dei diritti di pesca vi erano anzitutto Pirovano e i monaci olivetani, che venivano quindi citati a presentare entro otto giorni i loro titoli, "aliter deveniretur ad apprensionem". La citazione era del 1 luglio 1652; il 7 luglio - e qui davvero si vorrebbe sapere di più sui retroscena politico-internazionali della vicenda - vi si aggiungeva un "biglietto» del governatore Caracena, che nel quadro della guerra tra Francia e Spagna ordinava contro Pirovano una separata inchiesta camerale - sempre di competenza dell'Economato regio, ma in questo caso in via straordinaria - i cui termini facevano temere il sequestro regio della commenda, "intendendo, che dall'Abbate Marchese Pirovano si pagava un'annua pensione de mille scudi al cardinale Bichi, che segue le parti di Francia". Per il momento comunque sembra che le due inchieste, - quella del Magistrato straordinario per la sola usurpazione dei diritti pubblici sul lago, e quella ordinata dal governatore ordinario, per la confisca dell'intera commenda su sospetto politico, procedessero ancora separate ed era la prima ad avere inizialmente conseguenze più drammatiche. Il Fisco però non doveva restarne persuaso se nel novembre dello stesso anno giungeva a Beverate con alcuni sbirri Carlo pasquino, bargello di campagna di Milano, ma anche dei diritti pubblici sul lago usurpati dall'abbazia alla Camera, e una volta giunto, esigeva di entrare sui terreni del monastero. Secondo ricostruzioni successive, l'agente di Francesco Pirovano a Beverate, Domenico Gargiulo, aveva difeso energicamente l'immunità della terra ecclesiastica, e solo dopo che Pasquino l'aveva picchiato e aveva "contumeliato" il commendatario assente si era rassegnato, "compulsus" ad alloggiarlo coi suoi armati «in diversis domibus dicte terre".

Subito dopo, però, Gargiulo organizzava la vendetta contro la "enorme lesione," all'onore e alla immunità ecclesiastica: recatosi a Milano, tendeva un agguato al bargello e lo assassinava, fuggendo poi «versum coenobium Sancti Damiani", da cui veniva tradotto nelle carceri arcivescovili. Nel frattempo anche l'inchiesta del governatore aveva portato i suoi frutti, e aveva accertato Pirovano colpevole di «estrahere da questo stato Rendite (a) persone diffidenti alla Maestà sua». Il 12 aprile 1653, "per cautione della Regia camera", veniva quindi ordinato il già minacciato sequestro di tutti i beni della commenda; e n'era nominato amministratore straordinario l'abate residente Canavesio, «con ordine che tutte facesse pervenire in cassa de' depositi nel Banco di Santo Ambrosio». Si riaffermava così il diritto del Tesoro regio, e non della Camera Apostolica ad incamerare i frutti del beneficio vacante; e affidando all'abate conventuale anche le rendite del commendatario si annullava il sistema che aveva consentito, dal 1556, di separare la mensa dei monaci - che conservava nello stato una parte dei frutti dell'abbazia, destinandoli a clero residente ed "utile" per le funzioni pubbliche religiose - dalla mensa abbaziale, inizialmente riservata all'alto clero patrizio "nazionale" ma passata ormai, per le vie del nepotismo e delle pensioni, ad arricchire all'estero i prelati romani. Otto mesi dopo, il 6 dicembre 1653, al sequestro regio replicava un breve pontificio, che ribadiva il diritto esclusivo dei tribunali ecclesiastici a procedere penalmente non solo contro i «delinquenti» del clero, ma anche contro i loro bravi e «famigliari». Il breve infatti invitava il vicario dell'arcivescovo Litta, come presidente delia corte d'appello penale ecclesiastica, a procedere sia contro "duo sicarii pretensi homicidae quondam Caroli Pasquini ... carceribus curiae tuae archiepiscopali mancipati"; sia contro lo stesso Pirovano, ora esplicitamente accusato di essere «complice o mandante» dell'omicidio.

La confisca del governatore aveva implicato una doppia sfida alla Camera apostolica. Anzitutto, mentre era in corso la contesa per la collazione dei vescovadi in Catalogna, rimetteva in discussione anche a Milano il regime introdotto da Carlo Borromeo in materia di economato dei benefici vacanti - materia cruciale, dato che dipendeva da chi amministrava i vacanti, a nome regio o apostolico, chi avrebbe provveduto alla nuova collazione dei benefici e quindi alla nomina dei successori; in secondo luogo, rivendicava ai tribunali regi anche la giustizia politico-penale contro un prelato. Roma vi replicava colle armi classiche dell'immunità personale - il diritto d'asilo per gli esecutori materiali dell'omicidio, e il diritto dei prelati ad essere giudicati esclusivamente dai tribunali ecclesiastici - rivendicando in proprio la responsabilità del processo penale contro l'abate-marchese e i suoi bravi, mandante ed esecutori dell'omicidio del bargello. L'omicidio era stato commesso contro uno stipendiato della Camera regia, che aveva agito a tutela dei diritti del fisco contro l'immunità ecclesiastica; e tuttavia nessuna competenza processuale appariva riconosciuta dal breve di Innocenzo X ai tribunali regi. Citato a comparire dalla Curia milanese, l'abate Pirovano non si presentava "licet in urbe existens", ed anzi "passeggiava per Milano e si burlava del Mondo", secondo quanto lamentava Litta nel marzo 1654, definendo l'abate, nella corrispondenza con Roma, «torbidissimo sanguinario». Il processo ecclesiastico non aveva insomma alcuna efficacia esecutiva; ma forse proprio il blocco che esso imponeva al processo civile era quanto assicurava a Pirovano una sostanziale immunità da entrambe le giurisdizioni, e lo proteggeva dal marchese di Caracena - tant'è vero che lo stesso Litta si diceva "angustiato dai monaci cassinesi e dal Governatore", entrambi direttamente interessati, come si è visto, all'apprensione regia delle rendite della commenda.

Comunque sia, Litta si decideva a spedire al Sant'Uffizio gli atti del processo solo nel giugno del 1655, dopo l'elezione in aprile del nuovo papa Alessandro VII, Fabio Chigi, che li girava alla più mite Congregazione dei vescovi e dei regolari. Infine, un ordine di comparizione contro lo stesso Pirovano veniva spiccato da Roma, dalla Curia Causarum Camerae Apostolicae, il 5 ottobre 1655, ossia tre anni dopo il delitto: e se ne ricava che Gargiulo si era subito rivolto a Francesco Pirovano, per denunciare l'offesa e organizzare la vendetta, e che l'assassinio del bargello, per diretta istigazione dell'abate, era stato materialmente eseguito non dallo stesso Gargiulo, ma da un "famigliare" o bravo del seguito armato di Pirovano, Paolo Gerolamo Villa di Cremella, postosi anch'egli al riparo dell'asilo ecclesiastico nel convento di San Damiano. In realtà, come il mandato contro Pirovano veniva spedito da Roma solo alla fine del 1655, dopo l'elezione al papato di Fabio Chigi, così l'ordine di sequestro regio veniva realmente eseguito solo nel maggio 1656: quindi cioè, trasferito il governatore Caracena, era da un mese a Milano un cardinale ed abilissimo diplomatico, Teodoro Trivulzio, già ambasciatore di Spagna a Roma, che aveva assunto i poteri di governatore civile ad interim, come ai tempi delle accoppiate De Leyva-Caracciolo e duca d'AIba-Madruzzo.

Insieme alla condanna contro Pirovano, era ormai pronta a Roma anche la nomina di un nuovo commendatario romano, il cardinal nipote Flavio Chigi; e a Milano vi era Trivulzio a garantire il successo della collazione apostolica, contro le velleità d'indipendenza giurisdizionale e fiscale profilatesi nel governo spagnolo negli anni precedenti. Pirovano veniva dunque condannato e spogliato d'ogni beneficio ecclesiastico il 13 maggio 1626: la dilazione della sentenza, la lentezza dei processo arcivescovile guidato da Roma, l'impunità di Pirovano a Milano, potrebbero spiegarsi proprio nel quadro di un conflitto di giurisdizione sui benefici vacanti, che aveva contrapposto i diritti di economato ecclesiastico rivendicati nel 1652 dalla Camera regia - secondo la quale i frutti della commenda sequestrata si dovevano "ritenere" a Milano, e qui esercitarsi i diritti di nuova collazione - e la Camera apostolica, che non aveva proceduto definitivamente contro l'abate, sinché non si era assicurata la vittoria nella questione essenziale, la nomina del suo successore. Nel clima di riconciliazione portato dall'elezione del nuovo papa e dall'arrivo di Trivulzio, l'Economo regio, ossia il prevosto di Santa Maria della Scala - questo personaggio di duplice e incompatibile obbedienza, vaso di coccio ma i vasi di ferro di Milano e Roma - veniva non a caso incaricato dal governatore della confisca solo il 20 maggio 1656: una settimana dopo la condanna ecclesiastica dell'abate-marchese di Cassino, e solo dopo aver già ricevuto "orden de Su Santitad de tomar possession de las Abacias y bienes Eclesiasticos que el Abad Marques Francesco Pirovano tiene en este Estado".

L'apprensione veniva dunque eseguita per autorità apostolica e non regia. Per parte sua il Magistrato straordinario, competente a procedere contro Pirovano come "usurpatore del lago", prendeva atto che la "pescaggione posseduta dall'Abbazia" risultava già posta sotto sequestro "per certa condanna seguita in Roma contro detto Abate»; e si limitava a chiedere all'Economo che "V. S. R. voglia esser contenta, per interesse del Regio Fisco, dar ordine che si tenghi in sequestro detta parte di pescagione in nome di Sua Maestà». Ma anche a questa più modesta pretesa l'Economo opponeva un rifiuto, "avendo scritto a Roma e sentito dal Prodatario che Sua Santità sia per dichiarare in breve la provvisione": col nuovo commendatario, assicurava il prevosto della Scala, il Fisco avrebbe assai meglio potuto conseguire i suoi fini. Nel conflitto di obbedienze, gli ordini di Roma prevalevano di nuovo su quelli di Milano.

 

 

Nel 1660, il 30 aprile, lo troviamo a Cassago dove acquista da Carlo Salvione un pezzo di terra di 8 pertiche posta nel territorio di Cassago al prezzo di 800 L. imperiali. Conosciamo poco altro della vita di Carlo Francesco: un brevissimo appunto di due righe annota che venne data la "patente di maestro di campo d'un terzo d'infantaria Italiana al signor Marchese Sergente maggiore Francesco Pirovano", mentre una ulteriore lapidaria nota ricorda che nel 1662 "il marchese Francesco Pirovano muore in Catalogna." Gli episodi piuttosto avventurosi della sua vita, inducono a credere che potrebbe essere identificato con il famoso duca "piroeula" di cui si conserva una brutta memoria a Cassago.

Questo duca, che in realtà duca non era ma solo marchese, aveva la brutta fama di essere, come il manzoniano don Rodrigo, un dongiovanni impenitente e malvagio che rapiva le ragazze del luogo per possederle. E dopo averle possedute le buttava in un pozzo dove erano fatte a pezzi, tra atroci sofferenze, da macchine e coltelli che le straziavano. Varianti della storia parlano anche di un serpente che le divorava, probabilmente rifacendosi al significato simbolico dello stemma dei Visconti, che si fregiavano del titolo di duchi e che nel Settecento di imparentarono con la famiglia Pirovano di Cassago.