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Elementi strutturali del trittico
LE MINIATURE DEL TRITTICO DI FIVIZZANO: ANALISI STILISTICA ED ICONOGRAFICA DI UN COMPLESSO MINIATO DI FINE CINQUECENTO
Il reliquiario di Fivizzano a forma di trittico racchiude al suo interno undici miniature di carattere sacro, di diverso formato e dimensione, con scene disposte su tre livelli, che costituiscono una sorta di divisione dell'opera su tre piani simbolici differenti. Nella parte superiore, sono raffigurate tre immagini, simboleggianti i massimi vertici della Chiesa: Cristo seduto al centro dei commensali dell'Ultima Cena, ai lati i due clipei con Pietro e Paolo, pilastri del cattolicesimo.
Nel piano immediatamente inferiore, trovano spazio quattro scene che rappresentano le tappe salienti della Passione, secondo un criterio cronologico e al tempo stesso simbolico, che scandisce i principali momenti del percorso di Gesù sulla Terra. La serie delle immagini inizia con la Natività, prosegue con la Flagellazione e la Resurrezione, per poi concludersi con la Pentecoste. La miniatura che raffigura la Flagellazione, differisce dalle altre per la presenza di uno sfondo dorato che crea una cesura nella serie delle quattro immagini.
Da una prima analisi iconografica, appare singolare la scelta del committente di inserire un soggetto quale la Flagellazione, rispetto alla centralità del tema della Crocifissione, che per secoli ricoprì un ruolo primario all'interno dell'Ordine Agostiniano. Sino al XVII secolo, il simbolo dell'Ordine era costituito proprio da un'immagine che vedeva i patroni agostiniani, Agostino e Monica, inginocchiati ai piedi di un crocifisso a grandezza reale. Infatti l'edizione delle Costituzioni Agostiniane del 1581 riproduce in forma ovale il sigillo ufficiale dell'ordine. La stessa impostazione e il medesimo genere iconografico si ritrova anche nelle Costituzioni successive del 1582, 1620 e del 1625. In particolare, il primo sigillo dell'Ordine agostiniano, a forma di ogiva gotica, recava l'immagine del Crocifisso sullo sfondo di un'ancona, con S. Agostino e S. Monica ai lati. [1]
Stemma agostiniano (Roma, 1581)
Ai piedi del crocifisso vi era un frate agostiniano in ginocchio in atto di preghiera. Sul bordo del sigillo, figurava l'iscrizione: "Augustinus lux doctorum malleus haereticorum". Nel secolo XVI, il sigillo assume la forma rotonda o ovoidale che lentamente inizia a prevalere sulla forma ad ogiva gotica. Vista dunque la centralità di un tema come quello della Crocifissione all'interno dell'Ordine Agostiniano, la presenza della Flagellazione non può essere casuale ma deve essere ricollegata ad una precisa volontà del committente. E la spiegazione di questo piccolo mistero, la si trova sia da un'analisi dettagliata dell'opera' sia dalla consultazione delle fonti. Lo storico locale Pier Carlo Vasoli, nelle sue "Osservazioni" aveva fortunatamente provveduto a trascrivere il documento di autentica delle reliquie raccolte da Agostino Molari nella chiesa romana di Santa Maria Traspontina. [2]
Grazie al lavoro del Vasoli, è possibile affermare con certezza che tra le reliquie del trittico se ne trova una, ricavata dalla colonna della Flagellazione. La scelta del soggetto deriva quindi dalla volontà del committente, di dare risalto ad una reliquia così importante, la cui presenza all'interno del trittico doveva essere enfatizzata dall'inserimento di un'immagine a lei dedicata. Il terzo livello del trittico presenta altre quattro miniature, i cui soggetti sono riferibili ad uno stadio inferiore di santità. Sono indubbiamente immagini tipiche del periodo post conciliare, con schiere di santi e martiri. Un'attenzione particolare meritano le due miniature poste nella parte centrale che costituiscono il punto di giunzione più evidente con il committente dell'opera. I santi rappresentati non sono personaggi qualsiasi o casuali, ma protagonisti dell'Ordine di S. Agostino, cui apparteneva Agostino Molari, il committente dell'opera. [3]
L'inserimento di questi soggetti va quindi interpretato come un chiaro tributo al proprio Ordine d'appartenenza e un segno di riconciliazione tra gli agostiniani e la Chiesa, dopo anni di tensioni nei quali quest'Ordine era stato oggetto di numerose accuse, tra le quali anche a Fivizzano quella di eresia. [4] Nessuna di queste presenta cornici miniate dal momento che la delimitazione delle immagini è affidata a cornici esterne alla miniatura, realizzate direttamente sulla superficie lignea del trittico. In particolare, si tratta di tre sistemi di delimitazione dell'immagine stessa.
Il primo rappresentato da racemi vegetali, il secondo da bordature colorate di rosso e verde e, l'ultimo, da un'ampia cornice di gemme di vetro colorato. Procedendo ad un'analisi dell'opera, possiamo constatare alcuni elementi interessanti. Nel livello superiore del trittico, sono raffigurati i busti di Pietro e Paolo, protettori di Roma e patroni della Chiesa, chiaro riferimento di ossequio dell'opera verso l'ortodossia post-conciliare: sono proprio questi i santi che Leone X, sconfessando nel 1520 le tesi di Lutero, aveva invocato all'esordio della sua dura confutazione, significativamente abbinandoli al nome del Signore: "Exurge Domine ... Exurge Petre ... Exurge tu quoque ... Paule". [5]
La miniatura posta sull'anta destra, raffigura San Pietro riprodotto a mezzo busto nella tradizionale iconografia, con la barba corta e avvolto in una tunica gialla. Ha forma ogivale e misura cm 8,4 x 6,5. Questa tipologia di busto raffigurato di profilo, si ricollega a modelli da tempo radicati nell'iconografia cristiana che trovano il proprio archetipo nell'arte romana di età classica. L'imago clipeata compare infatti già nei sarcofagi pagani, dove veniva utilizzata per racchiudere il "ritratto" del defunto in modo da dargli un rilievo maggiore all'interno del più ampio contesto figurativo. Il miniatore si dimostra attento all'analisi dei dettagli, particolar cura viene rivolta alla resa delle capigliatura e della barba. La maniera in cui vengono realizzati i materici riccioli che movimentano il volto di Pietro, lascia ipotizzare che il miniatore si sia ispirato ad un modello scultoreo. Se effettivamente le miniature sono state realizzate nell'ambito romano, non dev'essere stato poi difficile per il miniatore prendere a modello uno dei tanti busti di età romana conservati nelle gallerie di arte classica.
San Pietro San Paolo
I riccioli vengono realizzati con una materialità tale da richiamare alla mente l'uso del trapano che permette in scultura la realizzazione di effetti di notevoli profondità proprio nella resa di questi particolari anatomici. Anche il volto del santo appare il frutto di un'attenzione ai dettagli. La muscolatura del volto rispecchia uno studio anatomico approfondito. I muscoli infatti rispondono perfettamente all'espressione del volto di Pietro. Il suo profilo si staglia su un brillante fondo oro che richiama l'appartenenza del santo al mondo divino. L'oro, da secoli colore che contrassegna la natura divina, viene qui utilizzato come elemento simbolico. Questa associazione è ben esemplificata nell'uso di questo colore fatto dagli artisti alto medioevali, è facile immaginare la portata di questo messaggio pensando ad opere quali i mosaici delle chiese ravennate o alle centinaia di polittici che si osservano nelle chiese e nei musei del nostro Paese. Sullo sportello opposto, si trova la miniatura che raffigura il busto di San Paolo, con forma ovale e dimensioni di cm 8,4 x 6,5. La pergamena appare fortemente danneggiata e riparata maldestramente. In particolare, la colla utilizzata per riparare la parti danneggiate ha causato l'iscurimento della pergamena nei tratti rimaneggiati. Il Santo è raffigurato di profilo, avvolto in un manto verde. Anche in questo caso, viene scelta l'iconografia tradizionale del santo, con la lunga barba e il volto scavato per le privazioni.
Il volto di Paolo appare però reso in maniera differente rispetto a quella osservata nel busto di Pietro. Qui la chioma meno compatta ha un andamento più morbido, quasi cadente, non compaiono più i ricchi boccoli che abbiamo trovato sul capo di Pietro. L'appartenenza delle due immagini alla mano di un unico miniatore è però resa evidente dal modo in cui vengono realizzati i particolari. Il modo con cui sono realizzati gli occhi, l'analoga resa delle orecchie e del panneggio non lascia dubbi sull'attribuzione dei due soggetti ad un unico artista. Posti nei vertici delle due ante, quindi ai margini estremi dell'opera, Pietro e Paolo sembrano fissare il proprio sguardo l'uno sull'atro, quasi a voler sottolineare il loro ruolo di pilastri su cui doveva sorgere la Chiesa Cattolica. L'uso del ritratto di profilo ha origini molto remote che possiamo rintracciare nel mondo antico. Già le classi dirigenti romane della tarda repubblica e dell'età di Augusto avevano una vera passione per le gemme incise, che erano divenute dei veri e propri simboli di potere e raffinatezza.
Nel mondo antico il tema del potere e della propaganda politica, appare particolarmente legato alla glittica ed espresso tramite la preziosità dei materiali e le figurazioni utilizzate. I prodotti glittici commissionati dai personaggi di alto rango, erano dunque l'espressione più chiara dell'arte di lusso destinata ad una vera élite. Attraverso un repertorio fisso fatto di simboli, personificazioni, allusioni celebrative e rimandi al mondo divino, vennero esaltate nei secoli le virtù e le glorie di principi, generali e altri personaggi di rilievo.
Note
(1) - Pietro Bellini, "Agostino", Quaderno a cura del Centro Studi Agostiniani della Valle d'Itria, N. 1, Arcidiocesi di Taranto, 2000, p. 33.
(2) - P. C. Vasoli, Osservazioni e discorsi di Pietro Carlo Vasoli da Fivizzano, sopra la precedenza de' Parochi nel Sinodo Diocesano, cit. p. 5, p. 101.
(3) - P. C. Vasoli, Osservazioni e discorsi di Pietro Carlo Vasoli da Fivizzano, sopra la precedenza de' Parochi nel Sinodo Diocesano cit. p. 5, p. 104.
(4) - S. Bondi, L'agostiniano Alessio Casani di Fivizzano (1491-1570) e le sue memorie inedite, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, a.a. 1984-1985, pp. 26-30.
(5) - M. Giusti, Studi sui registri di bolle papali, Città del Vaticano, 1979. Redatta dai nunzi Giovanni Eck e Gerolamo Aleandro, rappresenta la prima presa di posizione della Chiesa di Roma contro la Riforma di Lutero, dopo la pubblicazione delle 95 tesi e dopo tentativi di riconciliazione dell'ottobre 1518 con la disputa fra Giovanni Eck, Lutero e Carlostadio. Martin Lutero, invitato a sottomettersi pena la scomunica, la definì "bolla dell'Anticristo", e la bruciò nella piazza di Wittemberg il 10 dicembre 1520. Il 3 gennaio 1521 il pontefice scomunicò Lutero con la bolla "Docet Romanum Ponteficem".