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CONVENTI agostinianI: Fivizzano

Reliquiario della Croce (1220 c.a.), Treviri,  S. Matteo, Camera dei Tesori

Reliquiario della Croce (1220 circa) a Treviri

 

 

IL CULTO DELLE RELIQUIE ED IL TRITTICO

 

 

 

La capacità di giocare sui limiti tra visibile ed invisibile risale all'epoca imperiale romana. Una certa continuità può essere rintracciata tra il cerimoniale legato alla consecratio del sovrano imperiale e l'ostentazione delle reliquie. La cerimonia romana prevedeva la realizzazione di un funus publicum dell'immagine, che altro non era che l'effigie in cera del principe sepolto che veniva esposta per i riti di apoteosi e divinizzazione dell'imperatore. Strette connessioni possono essere rintracciate tra quest'usanza e la pratica dell'esposizione rituale delle reliquie. "Il corpo glorioso del santo, sotto specie metonimica di reliquie corporali o da contatto, viene infatti sottratto al circuito dello scambio ordinario tra società dei vivi e società dei morti, inserendosi, a partire dal IV secolo, nel nuovo spazio sacro dei luoghi di culto cristiani per diventare da un certo momento in poi, formalmente dal concilio cartaginese del 401 ma estensivamente solo dal principio del IX secolo, elemento addirittura necessario alla sua consacrazione." [1]

Così il cerimoniale della consecratio romana trova un parallelo per quanto riguarda la concezione del confine tra visibile e invisibile. Da una parte la consacrazione dell'immagine in cera dell'imperatore, il cosiddetto funus e dall'altra le pratiche dell'elevatio e della reposatio delle reliquie, servivano entrambi a separare ritualmente il defunto dal mondo terreno e collocarlo in uno spazio-tempo sacro. Il rapporto tra visibilità e invisibilità che caratterizzava la figura dell'imperatore romano si ritrova anche nelle reliquie. Entrambi sono infatti invisibili ma al contempo onnipresenti. Così la presenza dell'immagine dell'imperatore nei numerosi ritratti ufficiali che avevano la funzione di conferire autorità ai delegati del potere imperiale dislocati sul territorio, trova un parallelo nella presenza dei frammenti reliquiari che a partire dal IV secolo vengono utilizzati per conferire l'autorità a vescovi e prelati. Si comprende così come le chiese cristiane, a partire dall'età paleocristiana, abbiano cercato di arricchirsi il più possibile di reliquie, proprio per il desiderio e la necessità di avere una testimonianza diretta della grandezza divina. Anche il reliquiario di Fivizzano, si inserisce in quest'ottica.

La ricca decorazione sul fondo oro, il gran numero di reliquie e le immagini sacre riprodotte nelle miniature, rendono il reliquiario un oggetto lontano dalla quotidianità, come se tutto l'insieme del trittico fosse stato studiato per indirizzare il pensiero dei fedeli verso la riflessione sui più alti esempi di vita cristiana. La sua principale funzione è quella di reliquiario come le oltre duecento reliquie conservate al suo interno esaurientemente dimostrano. Il corpo centrale e le due ante sono infatti costellate di reliquie di dimensioni varie in rappresentazione di un notevole numero di santi e martiri cristiani, suddivisi in tre macro gruppi di confessori, martiri e vergini. L'opera è stata creata con lo scopo di stimolare la preghiera e la devozione dei fedeli, visto che si presenta quasi come uno scrigno raccoglitore dei principali esempi della più elevata vita cristiana. Le numerosissime reliquie e le miniature con le rappresentazioni dei santi costituiscono veri e propri exempla, modelli da imitare per tutti coloro che vogliano seguire l'esempio di Cristo.

La finalità è confermata anche dall'iscrizione presente nella parte alta del corpo centrale del trittico, là dove, subito sotto la miniatura riproducente l'Ultima Cena, compare l'iscrizione: "DUM EORUM MERITA RECOLIMUS / PATROCINIA SENTIAMUS", un'esortazione rivolta ai fedeli, affinché facciano propri gli esempi di vita cristiana messi in atto dai santi. Il trittico dimostra la rinnovata attenzione verso il culto delle reliquie, caratteristica della Chiesa del periodo post tridentino. Il reliquiario è infatti riconducibile alla seconda metà del XVI secolo, quando si era da poco concluso il Concilio di Trento, che non poteva ignorare il monito di Lutero, il rimprovero contro il lusso e gli abusi ai quali la Chiesa di Roma aveva ceduto e che erano stati una delle cause determinati di quella travolgente onda d'urto che fu la Riforma protestante. Tra le accuse che Lutero muoveva alla chiesa di Roma, un peso molto rilevante aveva avuto proprio la mercificazione delle indulgenze e delle reliquie; il loro commercio era stato molto lucrativo, della loro vendita si hanno testimonianze remotissime [2] e non era certo facile rinunciarvi. La smania delle reliquie e le difficoltà legate alla loro acquisizione aveva infatti mantenuto vivo nel corso dei secoli deplorevoli fenomeni di falsificazione, di commercio, d'abuso e persino il furto di reliquie. [3] Già nell'894 si era provveduto per esempio, alla falsificazione del corpo di S. Dionigi, operata in Germania dai monaci di S. Emmerano.

Il commercio si esercitava specialmente al di là delle Alpi. L'uso od abuso, per meglio dire, delle reliquie per trarne pozioni a scopo terapeutico, o per sfruttare la pia popolarità a scopo di lucro, anche de col fine ultimo di fabbricare chiese e monasteri, era largamente diffuso. [4] Altro inquietante fenomeno non meno rilevante era il furto delle reliquie. Questa pratica era molto diffusa e spesso incoraggiata e compiuta da comunità e persino da vescovi ed abati. L'abbondante ricorso ai furti di reliquie [5] era legato alla convinzione, diffusa per tutto il Medioevo, che tale azione non fosse propriamente malvagia, tant'è che " i crociati genovesi nel 1098 vennero accolti trionfalmente in patria, dopo aver rapito dal monastero di Santa Sion in Mira le presunte ceneri di S. Giovanni Battista." [6]

Il carattere collettivo del furto, nasce da moventi e finalità urbanocentriche che si riflettono anche sulla natura civica e le valenze pubblicistiche del nuovo segnacolo patronale. [7] Spesso, per giustificare questi furti se ne attribuiva la causa a circostanze fortuite o provvidenziali. Situazioni di particolare emergenza infatti, quali guerre, crisi economiche e calamità naturali, potevano rendere vitale il ricorso al divino. La giustificazione del furto non avveniva solo per necessità imminenti,conseguenza di un pericolo estremo, ma anche grazie al ricorso a vere e proprie manifestazioni di consenso da parte della divinità interessata dal furto. Prodigi e miracoli di vario genere, sono chiamati a testimoniare il favore del santo nei confronti di coloro che in seguito al furto "... promettono e garantiscono un culto più intenso e onorevole, e che sono perciò meritevoli del suo patrocinio e della sua benevolenza: il dio-santo si dirige pertanto verso la sua vera patria; il furto è in realtà un rientro dall'esilio". [8]

Tra questi prodigi i più diffusi sono la prodigiosa leggerezza della cassa delle reliquie, la meravigliosa fragranza delle stesse una volta rinvenute, lo spontaneo dirigersi verso la sede predestinata ed anche l'opposizione a farsi trasportare indietro o verso un luogo non gradito al santo. Anche le manifestazioni taumaturgiche, di solito numerose durante il rimpatrio e le ritualità di accoglienza della refurtiva, appaiono funzionali ad avvalorare a posteriori l'opportunità della traslazione nel nuovo spazio civico-templare. Di fronte a fenomeni come questi, il rifiuto del mondo protestante non poteva che essere totale. "Il concilio di Trento si concentrò sul tema della venerazione delle reliquie e delle immagini nel 1562 a seguito della richiesta del cardinale di Guisa che preoccupato dell'iconoclasmo ugonotto, desiderava un solenne pronunciamento sull'argomento." [9] Questo abbinamento non è casuale, dato che sia le reliquie sia le immagini sacre, rappresentavano una manifestazione materiale di una più elevato messaggio spirituale. Il decreto del 1563 sulla venerazione delle reliquie afferma che "Il santo sinodo comanda a tutti i vescovi e a quelli che hanno l'ufficio di insegnare e cura delle anime di istruire prima di tutto diligentemente i fedeli conformemente all'uso della Chiesa cattolica e apostolica, tramandato fin dai primi tempi del cristianesimo, all'unanime opinione dei santi padri e ai decreti dei sacri concili, sull'intercessione dei santi, sulla loro invocazione e sull'onore dovuto alle reliquie e sull'uso legittimo delle immagini". [10]

La stessa sessione conciliare del 1563 aveva anche dichiarato empi coloro che avessero osato negare il dovere di ogni cristiano di invocare i santi, riconosciuti come intercessori fondamentali per far arrivare le preghiere degli uomini a Dio ed ottenerne così i benefici richiesti. Inoltre, sempre nel testo del decreto tridentino, si legge che sono da condannare anche "coloro che considerino sciocco pregare con le parole o con la mente quelli che regnano nel cielo. Si dovrà ancora insegnare che i fedeli devono venerare i santi corpi dei martiri e degli altri che vivono in Cristo, corpi che un tempo erano membra vive del Cristo. [11]

La determinazione con cui la Chiesa difese il culto dei santi e delle reliquie risulta evidente. Fra le manifestazioni del culto dei santi, particolare importanza nella storia liturgica riveste la venerazione delle reliquie. L'origine di questo culto risiede nella grande venerazione in cui erano tenuti i martiri dai fedeli. La pace di Costantino (313 d. C.) garantì alla Chiesa la libertà di manifestare apertamente la propria fede senza timori, permettendo così la nascita, su tutto il mondo cristiano, di numerosi luoghi di culto, dalle modeste edicole alle più sontuose basiliche funerarie, dette martyria, sorte sui sepolcri dei martiri. Alle reliquie viene così assegnato un posto d'onore accanto all'altare, e le si associa al sacrificio di Cristo, come S. Giovanni aveva visto nelle sue visioni: "Vidi sotto l'altare di Dio le anime degli uccisi per la fede evangelica da loro professata". [12]

I resti mortali dei martiri costituivano la più ambita gloria delle chiese che li possedevano, dato che essi erano visti come un sacro palladio, una garanzia di tutela e protezione, in grado di assicurare le sorti migliori. Il termine reliquia deriva dalla voce latina reliquiae, nel significato di resto, traccia e, quindi, di sopravvivenza. Nella società cristiana, il termine venne utilizzato per identificare i resti mortali del corpo dei santi. Ma prima del IV secolo d. C. età nella quale cominciò a diffondersi questo vocabolo, i resti dei santi venivano chiamati "nomen o nomina martyrum." [13]

Prima ancora di essere utilizzato dai cristiani, il termine "reliquiae" figurava già tra i vocaboli usati dai pagani per identificare i resti dei loro defunti, tanto che compare in numerose lapidi sepolcrali, a testimonianza ancora una volta degli stretti legami tra la cultura e la religione pagana e quella cristiana. [14] Il termine "reliquia" veniva applicato sia al corpo intero, nella sua completa integrità, sia alle sue singole parti. Oltre a questo genere di reliquie, erano venerate anche le "reliquie di contatto". [15] Con questo appellativo venivano solitamente identificati oggetti venuti a contatto con il corpo di un santo che acquisivano di conseguenza, i poteri inerenti alle reliquie stesse. Essi venivano poi racchiusi in cofanetti a forma di pisside, o in piccole capsule d'oro o d'argento dette encolpia, che venivano normalmente appese al collo, dai preti e dai vescovi in particolare. E così troviamo scritto nella vita di Amatore, vescovo di Auxerre nel V secolo d. C.:" et cum eis esset ignotus, capsellarii honore, quo reliquias inclusas pendulas collo gestabat, cognoverunt Dei esse famulum et cultorem". [16] Diversi sono i nomi con cui tali oggetti venivano chiamati, ma i più ricorrenti sono quelli di brandea, palliola e sanctuaria. [17]

Il termine di brandea indicava il lenzuolo o il telo nel quale era stato avvolto il corpo del martire, o quel che ne restava. Ben presto, però, tale nome passò ad identificare qualsiasi pezzo di stoffa entrato in contatto con le reliquie. Appartengono al genere delle brandae anche gli strumenti della passione di Cristo, come i frammenti della croce, della lancia, della corona di spine e dei chiodi. Palliola era invece il termine usato per identificare piccoli fazzoletti imbevuti del sangue del martire. Sanctuaria, un termine decisamente più generico, identificava ogni oggetto che fosse venuto a contatto con i resti del santo, acquisendone ipso facto le prerogative della santità. Proprio una delle reliquie conservate nel trittico di Fivizzano, anche se oggi non più identificabile, appartiene a quest'ultima categoria. Il Vasoli, nel suo manoscritto del 1732, annota la presenza di un frammento "De columna flagellationis et coronationis D. N. Jesu Cristi." [18]

Questo non è l'unico caso di brandea presente nel reliquiario in esame. Troviamo infatti altri frammenti di oggetti, quali tuniche, calzari, veli e paramenti. La maggior parte delle reliquie conservate nel trittico, è però costituita dai resti dei corpi dei santi, soprattutto ossa, ma anche sangue e capelli. La maggior parte dei cartigli che accompagnano queste reliquie indicano esclusivamente il santo cui appartengono, ma nelle due reliquie principali, conservate nella parte più alta del trittico, troviamo indicazioni più precise che specificano ulteriormente la natura della reliquia, rispettivamente dal sangue di San Francesco e dalla veste di San Giovanni Battista. Comprendere oggi il significato e l'uso delle reliquie, non è facile, anche se questo tipo di culto è rimasto quasi invariato sino all'inizio del XX secolo. La grande fortuna del loro culto è dovuta al potere attribuito a tali preziosi resti, che venivano invocati nelle più diverse circostanze quali malattie, pestilenze, invasioni, guerre ed in tutte le occasioni in cui era necessario l'intervento protettivo dei santi. E' da notare come il culto delle reliquie nascesse proprio in conseguenza della venerazione verso i santi. La vita del santo infatti veniva intesa come diretta imitazione dell'esempio del Cristo che riviveva ed agiva proprio attraverso le azioni stesse del santo. [19]

Ogni cristiano, in quanto tale, è tenuto ad imitare Cristo e pertanto, in via di principio, può essere considerato santo. Sin dai primordi del cristianesimo, ai santi veniva riconosciuto il potere di scacciare i demoni e guarire i fedeli dalle malattie col solo mezzo dell'invocazione del nome di Gesù [20] come peraltro indicato dai Vangeli. [21] Anche San Paolo nella sua veste di apostolo di Cristo afferma "Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori" e ancora "Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo." [22]

L'apostolo propone quindi se stesso come modello da seguire, proprio perché, in virtù di questa emulazione, il fedele si sarebbe avvicinato ulteriormente a Dio. La caratteristica peculiare dei santi era infatti quella di costituire un tramite tra i fedeli e Dio, in contraddizione dunque con la predicazione delle dottrine protestanti che rivendicavano il diritto e la possibilità del fedele di raggiungere un rapporto diretto con Dio. Un particolare rilievo veniva riconosciuto ai martiri, in quanto avevano seguito l'esempio del Cristo sino alla fine, condividendone le sofferenze e persino la morte. Di conseguenza la morte per la difesa della fede cristiana costituiva il requisito fondamentale affinché un fedele potesse ricevere il titolo di martire. Non sempre però le torture e le persecuzioni contro i cristiani si concludevano con il martirio. Allora, quando il fedele riusciva a sopravvivere a tali prove, aveva il diritto di essere riconosciuto col titolo di confessore. Ma poiché la scelta della morte per la causa del Cristo era condizione indispensabile per la proclamazione del martirio, non vi furono mai martiri viventi. Il culto di questi eroi della cristianità è attestato sin dal cristianesimo delle origini e trae origine dalla venerazione verso le ceneri e oggetti appartenuti alle persone care o venerate, proprio della natura umana. Il culto dei martiri non differisce molto dalle altre forme di culto dei morti, dato che in origine i riti venivano celebrati presso la tomba.

Le prime forme di venerazione dei corpi dei martiri avvenivano infatti direttamente sul luogo della loro sepoltura, in continuità di un precedente uso pagano che contemplava l'organizzazione di veri e propri banchetti in occasione della ricorrenza della nascita del defunto. Questo genere di pratiche si mantennero in uso a lungo ed il cristianesimo faticò non poco per estirparle. I primi cristiani conservarono, sia pure con diverso significato, i riti funebri praticati dai pagani nelle feste dei familiari defunti, o parentalia, che si con libagioni e offerte di vittime, vino, latte e fiori. Sant'Agostino nelle Confessioni afferma che proprio sua madre, era dedita a questa forma di rito. " Un giorno mia madre, secondo un'abitudine che aveva in Africa, si recò a portare sulle tombe dei santi una farinata, del pane e del vino. Respinta dal custode, appena seppe che c'era un divieto del vescovo, lo accettò con una tale devozione e ubbidienza, da stupire me stesso al vedere la facilità con cui condannava la propria consuetudine ...". [23]

Si tratta di forme di culto arcaiche, tanto che già negli Atti apocrifi di Giovanni compare un riferimento ad un'eucarestia celebrata presso la tomba di Drusiana, dopo che l'apostolo l'ebbe fatta risorgere. [24] Le usanze che prevedevano forme di venerazione dei defunti non erano quindi del tutto nuove, traendo la loro origine dal culto pagano degli eroi, uomini destinati all'immortalità per i meriti acquisiti nel corso della vita terrena. La religione pagana in particolare attribuiva poteri particolari a personaggi considerati come un tramite tra il mondo terreno e quello degli dei. Erano stati eroi e, come tali, onorati per le loro qualità superiori che li avevano posti ad un livello più alto dei comuni mortali. L'antichità classica attribuiva il titolo di eroi a coloro che si erano distinti in gloriose imprese militari o grandi opere caritatevoli. In virtù di questi meriti, dopo la morte, erano stati assunti tra gli dei, ma erano venerati nel luogo della loro sepoltura, secondo riti la cui tradizione sarà poi quasi interamente accolta tra i cristiani con il culto dei martiri. I sepolcri degli eroi infatti erano meta di pellegrinaggi e le città che li ospitavano innalzavano grandiosi templi, mentre in loro onore si tributavano sacrifici e si facevano feste. Il popolo attribuiva loro poteri apotropaici e, per ingraziarsi la loro protezione, rendeva loro omaggio con offerte rituali e sacrifici. Analoga al culto cristiano è anche la cosiddetta traslazione delle spoglie mortali degli eroi che, conservate in veri e propri santuari, venivano rese oggetto di culto. [25]

La letteratura cristiana si è molto impegnata nel corso dei secoli per svincolare il culto dei santi dalle precedenti pratiche pagane e la linea seguita dalla Chiesa si è sempre preoccupata di porre in evidenza le differenze tra il culto pagano e quello cristiano. Un elemento di sostanziale differenza resta il fatto che gli eroi pagani lottavano per raggiungere obiettivi terreni, mentre i martiri cristiani affrontavano i tormenti in vista di una ricompensa ultraterrena. Inoltre gli eroi pagani erano circondati da un alone mitico ed avevano stretti rapporti con il mondo divino anche prima della loro morte, mentre i santi cristiani erano persone del tutto terrene e reali che, a parte sporadici episodi di estasi mistica, si sarebbero ricongiunte con l'Eterno solo dopo la morte corporale. Infine l'eroe era venerato per la sua stessa persona e gli atti compiuti in momenti storici e contingenti, mentre il santo e il martire erano riconosciuti come un anello di congiunzione con l'Eterno ed espressione della potenza del solo ed unico Dio, cosicchè venivano e tuttora vengono venerati, mai adorati. [26]

Certo l'esistenza di una relazione tra la sfera pagana e quella cristiana è indubbia ed è provata anche dal fatto che nei primi testi dei Padri della Chiesa, i martiri vengono indicati con l'appellativo "atleti" di Cristo, attributo che già in precedenza veniva utilizzato per gli eroi pagani. I cristiani hanno sempre riposto una grande fiducia nei santi, ai quali viene riconosciuto un ruolo fondamentale di intercessori agli occhi di Dio, in quanto considerati "…tamquam membra Christi, Dei filios et amicos et nostros intercessores". [27] Gli scrittori cristiani non hanno trascurato il fatto che il culto dei santi era esclusivamente finalizzato a raggiungere Dio e non fine a se stesso. I grandi poteri riconosciuti ai santi, sono dovuti all'ascolto che hanno presso Dio che li ricompensa attribuendo loro il grande ruolo di intermediari tra il Padre supremo e l'umanità. I martiri venivano quindi venerati perché riconosciuti come "Domini discipuli et imitatores" [28], capaci di intercedere presso il Signore e portare alle sue orecchie le preghiere dei fedeli. Il culto cristiano pone infatti fra i santi e Dio un'enorme distanza, come testimoniano le parole di S. Agostino quando risponde alle accuse di Fausto manicheo che imputava al cristianesimo la colpa di aver fatto dei santi dei veri e propri dei: "non eis templa, non eis altaria, non sacrificia exhibemus, non eis sacerdotes offerunt; absit, Deo praestantur ... [29]."

Ma le analogie con il mondo pagano si evidenziano anche quando si osservino da vicino i modi e le forme usate per il culto delle reliquie, dato che in entrambi i casi ci troviamo di fronte a preghiere, processioni, offerte di doni ed anche giuramenti convalidati dalla presenza degli oggetti sacri. Non priva di significato è anche una sorta di continuità materiale tra i due culti che testimonia come il cristianesimo non solo non abbia cercato di sopprimere la sensibilità pagana nei confronti del mondo ultraterreno, proprio per il fatto che anch'esso nutriva un sentimento analogo, ma abbia sovrapposto il proprio culto alle forme di venerazione pagane. Lo sradicamento delle antiche tradizioni non è stata impresa facile comunque e in un certo senso non si è conclusa mai, come dimostrano tra l'altro le numerose ricorrenze del calendario cristiano sovrapposte alle feste pagane e la dedicazione di nuove chiese sorte numerose proprio nei luoghi dove la lotta all'idolatria pagana rendeva l'iniziativa più necessaria, addirittura sopra originarie costruzioni di templi pagani.

Ma resta diffusa la convinzione che la continuità della benevolenza della potenza divina, già manifesta nel santo durante la sua vita, non abbandoni il suo corpo nemmeno dopo la morte. Infatti, poiché il martire continuava a vivere in Cristo, anche il suo corpo era sentito come un qualcosa di vivo, indipendentemente dalla fede nella resurrezione finale, cosicché i corpi dei santi non venivano considerati come dei cadaveri, ma entità viventi, dotate della stessa potenza di cui avevano goduto in vita i santi stessi, mentre non veniva avvertita alcuna differenza sostanziale tra il santo ed il suo corpo, né tanto meno tra il corpo integro e le sue parti disgiunte. [30] In quanto intercessore presso Dio, il santo godeva della potenza divina, che rimaneva immutata anche nel più piccolo frammento del suo corpo, e perfino l'olio che alimentava le lampade che ardevano presso la tomba del santo veniva considerato una reliquia. [31]

Verso il IX secolo, si ebbe un calo della venerazione rivolta alle reliquie per contatto, che però riprese con vigore a partire dal XVI secolo, anche per sottolineare la differenza tra il cattolicesimo e i vari credi protestanti, dopo il Concilio Tridentino. Il numero di reliquie derivate dal semplice contatto con il santo è notevole, mentre inventano oggetti di culto che gli strumenti stessi con i quali i santi erano stati torturati o martirizzati. L'importanza attribuita a questi oggetti non era per nulla inferiore a quella riconosciuta alle reliquie prodotte dalla frammentazione del corpo del santo. Si narra che papa Ormisda ricevesse dai legati di Giustiniano la richiesta di un po' di limatura delle catene degli Apostoli, per portarla come reliquia al futuro imperatore. [32] Le catene che avevano stretto le braccia di Pietro erano reliquie molto venerate, tanto che ancora molti secoli dopo papa Gregorio Magno non esitò ad inviare al patriarca di Costantinopoli della limatura di queste catene. [33] In materia di reliquie, l'antichità cristiana si era divisa tra un cosiddetto "mos occidentalis" ed il "mos orientalis". [34]

Infatti l'atteggiamento del mondo occidentale nei confronti della traslazione, dello smembramento e della frammentazione dei corpi santi fu molto differente da quello che si era sviluppato in Oriente. La chiesa di Roma si era dichiarata a lungo nettamente contraria alla produzione di reliquie ottenute con la frammentazione dei corpi dei santi, in contrasto con l'Oriente dove questa pratica godette di ampia diffusione già nella fase arcaica del cristianesimo. I Padri latini attaccarono violentemente la pratica di dividere il corpo umano e preferirono la realizzazione e la diffusione delle reliquie di contatto che presentavano, tra l'altro, la possibilità di moltiplicazione quasi all'infinito. Secondo la testimonianza di Sant'Agostino ad esempio, anche i fiori e le vesti venivano santificati dal contatto con le tombe dei martiri. [35] Gregorio di Tours considerava reliquia perfino la cera colata sulla tomba di un santo, così come la polvere che vi si posava sopra. [36]

La preferenza attribuita alle reliquie di contatto era dovuta al fatto che il mondo occidentale interpretò le pratiche di frammentazione dei corpi come una violazione dell'integrità del corpo creato da Dio. In Oriente invece dominò a lungo la credenza secondo la quale i poteri contenuti nei corpi dei santi non venissero danneggiati o sminuiti dalla frammentazione della reliquia stessa, così che cominciarono ben presto a circolare un gran numero di reliquie prodotte dalla dissezione dei corpi dei santi, perché si pensava che i corpi dei santi possedessero poteri talmente grandi, che anche i più piccoli frammenti fossero in grado di se100rbarli. Si riteneva inoltre che questi benefici poteri potessero essere trasmessi a tutti coloro che avessero toccato o venerato le reliquie. Sulla base di questo duplice atteggiamento nei confronti delle reliquie, in Occidente per molto tempo non vi fu una circolazione dei corpi dei santi, né interi né sotto forma di frammenti. Si ricorreva invece alle reliquie di contatto che spesso consistevano in pezzi di stoffa che venivano santificate dal contatto diretto o indiretto con il sepolcro, le cosiddette brandea, palliola o sanctuaria. E' il genere di reliquie che veniva utilizzato per la consacrazione di chiese ed altari. [37]

L'ostilità verso lo smembramento dei corpi, presente nel mondo occidentale, derivava soprattutto dall'interpretazione delle disposizioni in materia presenti nella Bibbia che condanna espressamente la violazione dei sepolcri, mentre il diverso atteggiamento, che per secoli divise la Chiesa d'Occidente da quella d'Oriente è evidente nella risposta data da S. Gregorio Magno all'imperatrice Costantina che formulava la richiesta di reliquie per la nuova chiesa di S. Paolo di Costantinopoli. [38] Dalle parole di questi si può chiaramente desumere quale fosse l'atteggiamento della Chiesa di Roma in materia di circolazione e distribuzione delle reliquie. Per molto tempo i corpi non vennero spostati né interi né sotto forma di frammenti, bensì come reliquie di contatto santificate cioè dal contatto diretto o indiretto con il santo o il suo sepolcro. Col tempo le diverse prassi fideistiche si integrarono e, per esempio, nel trittico di Fivizzano sono presenti anche reliquie di contatto, come il frammento del paramento di S. Agostino o della veste di S. Pietro, ma la maggior parte delle reliquie è rappresentata da piccolissimi frammenti ossei, verso i quali la devozione popolare era fortemente attratta. Il fatto che in queste reliquie le virtù miracolose si tramandassero in tutta la loro integrità, faceva sì che molte più chiese e quindi fedeli più numerosi, potessero godere dei poteri delle reliquie. Anche per questi motivi, non fu di lunga durata la rigidità dell'Occidente nei confronti dell'inviolabilità dei corpi santi. Alla reliquia veniva tributato un culto particolare in quanto creduta portatrice di un forte valore salvifico. Ne resta testimonianza in Paolino da Nola, nel suo XVIII carme "... si può immaginare quanta potenza e gloria coronerà i risorti se una grazia così grande, circonda i defunti e di quanto splendore brilleranno i corpi nella nuova vita se una luce così vivida brilla in ceneri oscure." [39]

Questi oggetti godettero di grande venerazione soprattutto nel Medioevo, non solo da parte del popolo e del il clero, ma da parte di tutti, dalle persone colte agli analfabeti, dai nobili ai più umili dei servi. La devozione era dovuta alla credenza che possedessero poteri sovrannaturali, con una funzione apotropaica e protettiva ben superiore ad ogni potere politico ed economico. In virtù di tali poteri, ogni fondazione di una nuova chiesa o di un convento, necessitava di reliquie, riconosciute come elemento fondamentale per i riti di dedicazione della chiesa e degli altari. [40] Nel Medioevo, senza reliquie non potevano esserci chiese, come non poteva esistere una città senza una chiesa. [41]

Le reliquie diventavano quindi inconsapevoli mezzi di sviluppo per la loro capacità di attirare masse di fedeli e pellegrini e venivano riconosciute come una diretta e genuina manifestazione della potenza di Dio nei suoi santi, perché costituivano il segno più chiaro della potenza di Dio nel mondo. Osservando questi frammenti di santità, il fedele sentiva che tramite i santi, Dio era presente sulla terra al fianco degli uomini. Sono questi stessi sentimenti, immutati dopo tanti secoli, che ricompaiono alla base della realizzazione di un'opera come il trittico di Fivizzano, pensata come una vera e propria porta d'accesso al mondo divino. Una volta aperte le ante del trittico, il fedele si trova al cospetto di una realtà lontana dal mondo contingente, dove ogni elemento parla un linguaggio ultraterreno, lontano dalla materialità del quotidiano.

 

 

 

Note

 

(1) - L. Canetti, Frammenti di eternità, Corpi e reliquie tra Antichità e Medioevo, Viella Libreria editrice, Roma, 2002, p 160.

(2) - L. Canetti, Frammenti di eternità, Corpi e reliquie tra Antichità e Medioevo, cit. p. 72, pp. 139-169

(3) - Sull'argomento si legga quanto scritto da P. Geary, Furta sacra, Thefts of relics in the central Middle Age. Princeton 1990.

(4) - Mons. Righetti, L'anno liturgico, Manuale di Storia Liturgica, Vol. II, Editrice Ancora, Milano 1969, p 426.

(5) - Un furto, davvero clamoroso, fu quello delle spoglie di San. Nicola dalla Turchia a Bari.

(6) - Mons. Rigetti, L'anno liturgico, cit. pag. 74, p. 426

(7) - L. Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra antichità e Medioevo. Cit. pag. 72, p. 150

(8) - Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra antichità e Medioevo, cit. pag. 72, p. 152

(9) - Daniele Menozzi, La Chiesa e le Immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai nostri giorni. Edizioni San Paolo s.r.l., Cinisello 1995, pp. 205-206.

(10) - Daniele Menozzi, La Chiesa e le Immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai nostri giorni. cit. pag. 75, p. 206

(11) - D. Menozzi, La Chiesa e le Immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai nostri giorni. cit. pag. 75, pp 206-207.

(12) - Mons. Righetti, Apoc. VI, 9. In L'anno liturgico Manuale di Storia Liturgica, L'anno liturgico, Manuale di Storia Liturgica , cit. pag. 74, p. 421-422

(13) - F. Cabrol e H. Leclercq, Dictionaire d'archeologie Chretienne et de Liturgie, Tome Quatorzième, Paris, Librairie Letouzey et Anè, 1948, pp. 2294-2360

(14) - L. Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra antichità e Medioevo cit. pag. 72, p. 114.

(15) - P. Brown, Le culte des saints. Son essor et sa fonction dans la chrétienté latine, Cerf, Paris, 1984, p 15-23.

(16) - Acta SS. Maii, t. I, p 57 in Mons. Righetti L'anno liturgico Manuale di Storia Liturgica, cfr. op. cit. pag. 3, p. 424-425.

(17) - F. Cabrol e H. Leclercq, Dictionaire d'archéologie Chrétienne et de Liturgie. cit. pag. 76, p. 2298

(18) - Fivizzano, Archivio parrocchiale, ms. cart. , P.C. Vasoli, Osservazioni e discorsi di Pietro Carlo Vasoli da Fivizzano, sopra la precedenza de' Parochi nel Sinodo Diocesano ..., cit. p. 5, p. 104.

(19) - "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me". Gal. 2, 20, pag. 213-214.

(20) - A. Benoit, Le bapteme chrétien au second siecle. La theologie des Peres, Etudes d'histoire et de philosophie religieuse, Université de Strasbourg publiées sous les auspices de la Faculté de théologie protestante, Presses Universitaires de France, Paris, 1953, p. 56.

(21) - Mrc, 16,17.

(22) - Cor I, 4, 16 – Cor I, 11, 1.

(23) - C. Carena, Le Confessioni di Sant'Agostino, Milano, Oscar Mondadori, 1984, Cap. II°, pag. 142

(24) - Acta Ioannis, 85 M. Erbetta ed., Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, Vol. II: Atti e Leggende, Marietti, Casale Monferrato, 1966, p. 56

(25) - Mons. Righetti, L'anno liturgico Manuale di Storia Liturgica, L'anno liturgico, Manuale di Storia Liturgica, cit. pag. 74, p. 426

(26) - Mons. Righetti, L'anno liturgico Manuale di Storia Liturgica, L'anno liturgico, Manuale di Storia Liturgica, cit. pag. 74, p. 415

(27) - Sermo 235, 1; P. L. 38, 1447, in Mons. Righetti, L'anno liturgico Manuale di Storia Liturgica, L'anno liturgico, Manuale di Storia Liturgica, cit. pag. 74, p. 423

(28) - Mons. Righetti, L'anno liturgico Manuale di Storia Liturgica, L'anno liturgico, Manuale di Storia Liturgica, cit. pag. 74, p. 416.

(29) - Mons. Righetti, L'anno liturgico Manuale di Storia Liturgica, L'anno liturgico, Manuale di Storia Liturgica, cit. pag. 74, p. 420.

(30) - L. Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra antichità e Medioevo cit. pag. 72, p. 78

(31) - Particolarmente famoso è il caso delle lampade che illuminavano l'altare di San Pietro in Vaticano, costruito proprio sulla tomba del Santo.

(32) - A. Thiel, Epistolae romanorum pontificum genuinae, Brunsbergae 1868, T. I, ep. 77, p. 873.

(33) - Gregorius Magnus, Registrum epistolarum, 1.4, ep. 30, ed. D. Norberg, Gregori Magni, Registrum epistolarum, Corpus Christianorum. Series latina, 140, Brepols, Turhout 1982, p. 250

(34) - F. Cabrol e H. Leclercq, Dictionaire d'archeologie Chretienne et de Liturgie. cit. pag.76, p. 2306

(35) - Agostino, De civitate Dei, 22, 8, in La Città di Dio, Traduzione e note di C. Borgogno; Introduzione e revisione di A. Landi, II ed., Roma 1979.

(36) - Gregorio di Tours, De miraculisi sancti Martini I, P.L., LXXI, col. 825 Paris

(37) - D. Sartore e M. Triacca, Nuovo Dizionario di Liturgia, Edizioni Paoline, Roma, 1984, p. 1340

(38) - All'imperatrice che chiedeva "caput eiusdem Sancti Pauli aut aliud quid de corpore eius", il papa replicava :"Cognoscat autem, tranquillissima Domina, quia Romanis consuetudo non est, quando Sanctorum reliquias dant, ut qiudquam tangere praesumant de corpore. Sed tantummodo in buxide brandeum mittitur, atque ad sacratissima corpora sanctorum ponitur; quod levatum, in ecclesia, quae est dedicanda, debita cum veneratione reconditur, et tantae per hoc ibidem virtutes fiunt, ac si illic specialiter eorum corpora deferantur, in .Mons. Righetti,L'anno liturgico Manuale di Storia Liturgica, L'anno liturgico, Manuale di Storia Liturgica, cit. pag. 74, p. 430

(39) - L. Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra antichità e Medioevo cit. p. 72, p. 87

(40) - D.Sartore e M.Triacca, Nuovo Dizionario di Liturgia, cit. p. 84, p. 362

(41) - Mons. Righetti, L'anno liturgico Manuale di Storia Liturgica, L'anno liturgico, Manuale di Storia Liturgica, cit. pag. 74, pag. 424 .