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FOCA ACCETTA: LA CONGREGAZIONE DEGLI ZUMPANI E LA PROVINCIA DI CALABRIA

Il monastero agostiniano di Paola

Monastero di Paola

 

 

I RAPPORTI CON GLI ALTRI ORDINI RELIGIOSI

di Foca Accetta

 

da ANALECTA AUGUSTINIANA, LXVII (2004)

 

 

 

La penetrazione agostiniana in Calabria è stata, invece, contrastata dagli altri Ordini religiosi. Alla base di questo atteggiamento ostile contro i nuovi insediamenti, soprattutto dove la presenza dei mendicanti era più forte, erano motivi pastorali e economici. Infatti, la fondazione di un nuovo convento aveva come conseguenza immediata la riduzione dell'azione pastorale, il decurtamento delle entrate e l'instabilità economica dei conventi già esistenti. Emblematico è il caso di Reggio Calabria dove gli agostiniani si erano insediati nel 1590: "per beneficio di quello loco e quando si ha passare a Messina per accomodamento degli padri e [per] quello che troveranno de' bisogno" (F. ACCETTA, La presenza agostiniana a Reggio Calabria. Fondazione (1589-90) e reintegrazione (1639) del convento, in "Rivista storica calabrese", n.s., XVII (1996), pp. 305-329).

Costretti a lasciare la città, perché "più volte saccheggiata e bruggiata de' Turchi", ritornarono nel 1639 suscitando le proteste degli altri regolari; infatti, i domenicani, i minimi, i riformati e i cappuccini il 5 agosto dello stesso anno presentarono alla Congregazione dei Vescovi un ricorso per impedire la riapertura del convento agostiniano: "mesi addietro sono venuti in questa città di Reggio di Calabria alcuni frati di S. Agostino per fondare un convento dell'Ordine loro et mons. Vicario Capitolare con passione (con riverenza) l'accettò, et non obstante la nostra protesta l'ha ammesso che vengano alle processioni pubbliche, senza il nostro consenso di noi mendicanti, che è contro alle disposizioni delli Brevi Apostolici, sotto pretesto che detta Religione, cinquanta anni in circa sono, havesse havuto convento in questa città, il che è falsissimo perché vennero dui frati ad agitare una lite e per quella finita si partirono senza mai havessero retto convento [...]. Oltre che dato e non concesso havessero allora eretto convento non sono in tempo di ripigliarlo senza il nostro consenso essendo trascorsi cinquant'anni in circa che detti padri mancano da qui, et in verun modo possono detti religiosi fondare convento in questa città senza il nostro consenso, et mons. Vicario Capitolare accettandoli e mantenendoli ci fa molto aggravio [...]. Le Vostre Emminenze restino servite ordinare a detto mons. Vicario Capitolare che faccia partire detti religiosi di S. Agostino, et non l'ammettano all'erettione di novo monasterio senza il nostro consenso, ne vengano a processioni" (F. ACCETTA, La presenza agostiniana a Reggio Calabria. Fondazione (1589-90) e reintegrazione (1639) del convento, in "Rivista storica calabrese", n.s., XVII (1996), pp. 305-329).

Tuttavia, l'iniziativa non ebbe l'esito desiderato: gli agostiniani riuscirono a provare l'inattendibilità delle rimostranze degli altri regolari e a documentare la loro precedente residenza a Reggio Calabria: "I Domenicani con gli altri Regolari hanno strepitato non potendo soffrire l'applauso col quale siamo stati ricevuti e reintegrati, della quale reintegrazione e non fondatione ho mandato le scritture autentiche al Procuratore Generale dove appare il gran mandace asserto da Padri Domenicani, che giammai la Religione Agostiniana fosse stata per la dietro in questa città di Reggio e perché appaia maggiormente questa bugia s'è presa sommaria via juris, ed i più seniori e saniori della città testificarono de visu l'essere stata habitante la Religione per la gran pezza d'anni nella chiesa di S. Maria della Melissa" (F. ACCETTA, La presenza agostiniana a Reggio Calabria. Fondazione (1589-90) e reintegrazione (1639) del convento, in "Rivista storica calabrese", n.s., XVII (1996), pp. 305-329, lettera di p. Solera al cardinale protettore del 20 ottobre 1639). Quale era il vero scopo del ricorso? Probabilmente andava al di là della salvaguardia delle disposizioni apostoliche circa l'assenso che bisognava chiedere alle altre famiglie religiose già dimoranti in un luogo per procedere ad una nuova fondazione. In una lettera del 23 giugno 1639, inviata al priore generale, p. Deodato Solera propone una chiave di lettura che mette in ombra i protagonisti della vicenda e in modo particolare i domenicani. Questi ultimi avrebbero iniziato e sostenuto la querelle al solo fine di ammorbidire la rigida opposizione degli agostiniani all'apertura di un loro insediamento a Pizzo Calabro (AGA, vol. XI, f. 462.

L'avversione e le motivazioni degli agostiniani all'insediamento domenicano a Pizzo sono indicate in una missiva del 21 gennaio 1640 spedita da Napoli dal provinciale di Calabria p. Giovan Pietro da Tarsia al priore generale: "Ritrovandomi in Napoli mi è sopragiunto un avviso dal p[adre] nostro Giovanni da Fuscaldo il quale risiede nel nostro convento nel Pizzo, nel quale dice essere andati in detta Terra li padri domenicani, e pigliatosi un luogo, con consenso de' cittadini, sotto nome di ospitio. E perché è solito a questi padri entrar sotto nome d'ospitio e poi impatronirsi del tutto con darsi nome di convento, com'han fatto in molti luoghi, senza domandar assenso a niun capo di conventi che ivi si ritrovano; e già attualmente, tutti se oppongano, e mi viene di più havisato qualmente han incominciato a predicare et erger congregationi, del che può giudicare V.P.R. si è modo di ergere Ospitio o Convento, e nessuno ne viene più interessato di noi essendo che stà in mezzo la strada, dove sarà l'ultima mina del nostro monasterio, perché a fatto si leverà quella poca frequenza che vi è. Priego dunque V.P.R. di far quanto può in nostro beneficio alla Sacra Congregazione acciò si impedisca l'esecutione et vedere quanto s'estenda la loro autorità nelli Ospitii". Cfr.: AGA, Aa XI, f. 426. Sull'insediamento domenicano in Pizzo Calabro cfr. F. ACCETTA, I conventi domenicani nella diocesi di Mileto, in "Calabria Letteraria", XXXVIII, aprile-giugno 1990, pp. 43-46; C. LONGO, Conventi domenicani della provincia di Vibo Valentia, in I beni culturali del vibonese. Situazione attuale - Prospettive future, Atti convegno Nicotera 27-29 dicembre 1995, Vibo Valentia 1998, pp. 166-169). I contrasti per l'apertura di nuove sedi non sempre venivano portati avanti in modo leale e corretto, potevano trascendere in atti di vero e proprio sabotaggio. A Vallelonga, nel 1634, i domenicani, che avevano abbandonato la sede poi assegnata agli agostiniani dalle autorità locali, penetrarono nottetempo nei locali conventuali e portarono via tutti i mobili (AGA, Aa XI, f. 101).

Il tribunale diocesano di Mileto, investito della questione, con decreto del 29 luglio 1641, stabiliva che gli agostiniani potessero mantenere la chiesa di S. Maria di Monserrato e il convento, ordinava ai domenicani di astenersi da qualsiasi azione di rivalsa "sub poenis et censuris ecclesiasticis a sacris canonibus inflictis", infine, concedeva agli agostiniani la facoltà di ricorrere al "brachium saeculare" in caso di nuovi contrasti e molestie (AGA, Aa XI, f. 101). Tuttavia è utile ricordare che in queste vicende gli agostiniani non furono solo soggetti passivi. Al contrario si opposero ai riformati di S. Francesco e ai domenicani in occasione della fondazione dei conventi di Bucchigliero e di Pizzo. Al pari degli altri Ordini mendicanti anche gli agostiniani erano preoccupati di subire una diminuzione delle entrate e di vivere nell'incertezza economica: "Non solo perderiemo li elemosine, ma anco la frequenza della chiesa, di maniera perderiemo li elemosine, la divotione, perché oggedì il mondo si compiace di novità; come già per esperienza che prima questo convento faceva quattro, cinque e più ducati il mese adesso non passa dui ducati, perché il Rosario lo recitano nella parrocchiale sicché di questa maniera tanto è fondare Ospitio quanto Convento, che mentre vanno a fondare Ospitio non devono [i domenicani] fare stare sacerdoti, è quello che ci leva il pane". Così il priore del convento di Pizzo p. Dionisio da Catanzaro in una lettera del 28 agosto 1642 indirizzata al priore generale Ippolito Monti (AGA, Aa XI, f. 101).