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lettera V  a Giovanni Boccaccio

Immagine di Giovanni Boccaccio a Firenze

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LIBRO PRIMO

LETTERA V

A GIOVANNI BOCCACCIO

 

Magnis me monstris

 

All'amico afflitto perché altri gli aveva annunziata la vicina morte, e fatto divieto di attendere alla poesia, risponde non essere da temere la morte vicina, né da rispettare quel divieto.

[Padova, 28 maggio 1362]

 

 

 

Mi riempì di spavento, o fratel mio, la tua lettera, e mentre io stava leggendola, quindi stupore quindi tristezza mi avevano l'animo tutto compreso: ma e l'uno e l'altra, poiché ebbi finito di leggerla, si dileguarono. E come avrei potuto ad occhi asciutti, e ponendo mente a quel che sonavano le lue parole, legger ciò che scrivevi del pianger tuo e della vicina tua morte? Ma poiché addentro ebbi ben fissato lo sguardo sulle cose di cui si trattava, si mutò di trista in serena la mente mia, e si cessarono in me la meraviglia e il dolore. E vado passarmi dapprima di ciò che trovo in sul principio della tua lettera, dove con parole di modestia pienissime e di riverenza tu dici che disapprovar non ardisci il partito preso da me, cui con soverchio di umiltà chiami frattanto inclito tuo precettore, e pensi che reputando io gl'Italiani indegni della mia presenza e del frutto delle mie fatiche, mi sia deliberato di costringere a trasmigrare con me fra i Tedeschi e fra i Sarmati le Muse e l'intero Elicona, del quale fui, come sai, oscuro un giorno e volgare abitatore, ed ora da estranee cure distratto abbandonai quasi al tutto le belle pendici.

Or sappi che a cosiffatto tuo rimprovero io fui più sensibile che stato non sarei ad una satira scritta con tutto il vigore della tua eloquenza. Lodo per verità cotesto zelo, e questa disposizione dell'animo, per la quale, come disse Virgilio, Nulla sicuro da timor scorgendo, meglio ti piace eccedere nel timore, che nell'amore venir meno. A te peraltro, cui nessuno de' miei riposti pensieri deve esser segreto, voglio della inferma mia mente aprire lo stato. Sappi dunque com'io che del contemplare questa italica terra mai non mi sazio, sono (e il medesimo scrissi non ha uguali a Simomide) delle cose che nell'Italia avvengono tanto infastidito, che ben soventi volte risolsi fuggirne per riparare non in Germania, ma in qualche oscuro angolo del mondo, ove a tutti nascosto potessi quietamente vivere, quietamente morire; lontano da questi rumori e da questa guerra degl'invidi, alla quale mi dette in balìa non tanto la mia condizione, degna forse di dispregio, ma non certamente d'invidia, quanto la fama non so d'onde acquistata del nome mio: e ben mi sarebbe venuto fatto, se dal luogo a cui mi spingeva il desiderio me non avesse respinto Fortuna. Ma non per questo ch'io ti diceva, verso il settentrione era adesso rivolto il mio viaggio: ché non fra quei barbari e sotto quella inclemenza di cielo poteva io sperare di trovare riposo. Colà soltanto mi guidava un sentimento di ossequio e di riconoscenza, sembrandomi poter essere causato non che di superbia, ma di fellonia, e quasi di sacrilegio, se negassi una visita ed una breve dimora all'Imperatore, che tante volte e con tante preghiere a sé mi aveva invitato. Dato che, come scrive Valerio, i padri nostri capace reputarono di qualunque misfatto chiunque ai Principi prestar non sapesse la dovuta venerazione.

Ma stai sicuro, e cessa i lamenti: ché da questa parte ancora chiuse le strade trovai dalla guerra. Né me ne increbbe: mirabile a dirsi: dove di buon grado io m'avvisava, più volentieri m'acconcio a non andare. A soddisfare il mio dovere, e il desiderio del Principe basti l'averlo io voluto: del resto la colpa ricada sulla fortuna. Ma lasciato tutto questo da banda, si parla di ciò che nella tua lettera m'ebbe maggiormente colpito. Tu dunque mi scrivi che un tale Pietro nativo di Siena religioso di gran nome, e famoso ancora per miracoli operati, venuto non ha uguali a termine di vita molte cose intorno a molti, ed alcune ancora intorno a noi profetando predisse: e questo per mandato di lui a te venne detto da certo tale, cui avendo tu chiesto come quel sant'uomo da noi punto non conosciuto ci conoscesse, ei ti rispose: doversi credere che quegli avesse in animo di compir per se stesso una buona opera; ma impeditone dalla morte che conobbe vicina, aver in grazia chiesto da Dio con efficacissime preci, che si degnasse elegger persone atte ad adempiere quello ch'egli più non poteva: e per quella intimità che l'anima del giusto congiunge a Dio aver egli compreso che la sua prece era esaudita; anzi perché ogni dubbio da lui fosse rimosso, essergli allora apparso d'innanzi Cristo Signore, nella cui faccia ei tutto vide, il presente, il passato ed il futuro; non come Proteo presso Virgilio, ma mille volte, più chiaro, più perfetto, più pieno; ché non v'è cosa cui non veda chi vide l'Autore di tutte cose.

Gran portento, conviene pur dirlo, è cotesto, che Lui vedessero occhi mortali; grande, se è vero. Ma nuovo e inusitato non è che fole e menzogne si coprano sotto il velo di religione e di santità, e del giudizio di Dio si faccia mantello alla frode e all'inganno. Di questo peraltro al presente io nulla voglio definire. Quando cotesto messaggero del morto, che prima a te, perché forse più gli eri vicino, recò l'ambasciata, e quindi passato, come tu dici, a Napoli, s'imbarcò per la Gallia e per la Bretagna, a me da ultimo si farà innanzi, e meco per la parte che mi riguarda adempirà la sua commissione, allora vedrò qual grado di fede debba aggiustarsi alle sue parole. Tutto in lui scruterò attentamente: l'età, la faccia, lo sguardo, i costumi, le maniere, e lo starsi, ed il muoversi, e l'atteggiarsi della persona, e il suono della voce, e il tenore del discorso, e sopra tutto la conclusione di questo, e l'intenzione di lui che favella. Stando per ora a quel che tu dici, io debbo credere che quel sant'uomo in punto di morte vide noi due ed alcuni altri, ai quali volendo far sapere segretamente alcune cose, costituì dell'ultima sua volontà esecutore costui da te stimato uomo accorto e fedele. Questa è la storia del fatto. Del resto quel che agli altri abbia ei detto s'ignora: quanto a te, tacendomi il rimanente del suo discorso, a due soli capi tu lo riduci: il primo che a te già sovrasta la morte, e che per pochi anni ancora ti durerà la vita: l'altro che rinunziare tu debba allo studio della poesia. Ecco onde nacque quella costernazione dell'animo tuo, che leggendo la tua lettera io pur sentii, ma che ripensandovi si dileguò, come tengo per fermo che se a me darai retta, anzi a te medesimo ed ai dettami della ragion naturale, non solamente tu pure la deporrai, ma sarai convinto che ti dolesti di cosa onde era invece da rallegrarsi.

Non creder già che io voglia scemar fede al vaticinio. Quel ch'è da Cristo si dice non può non esser vero: esser non può che la verità mai mentisca. Ma qui sta il punto: e si conviene giudicare se questo veramente Cristo abbia detto, o non piuttosto del nome di Cristo altri si valga, come vedemmo soventi volte essersi fatto per acquistar fede all'impostura. So ben io che fra coloro i quali il nome di Cristo ignorarono, a crederne i Poeti ed i Filosofi, frequenti furono i vaticini dei moribondi: e di molti è memoria ne' libri nostri e in quelli de' Greci. Ettore in Omero profetizza la morte ad Achille, Orode in Virgilio a Mezenzio, in Cicerone Taramene a Crizia, Calano ad Alessandro: e, quello che più s'accosta ai casi tuoi, Possidonio filosofo de' tempi suoi famosissimo narra di un tal Rodio, che venuto a morte, di sei coetanei suoi non solamente annunciò che morrebbero anch'essi fra breve, ma disse ancora qual primo di loro e qual dopo avesse a morire. Siccome peraltro e queste storie, ed altre molte che se ne raccontano, e quella ancora che cotesto tuo spaventatore ha spacciata possano esser vere, io non vedo che tu abbia ragione di spaventartene. Le cose insolite ed impreviste possono commuoverci e perturbarci: ma le ordinarie e notissime da noi non meritano che disprezzo.

E che? se costui non veniva per dirtelo, ignoravi tu dunque quello che saprebbe anche un fanciullo venuto or ora nel mondo, se l'uso avesse della ragione, esser breve la vita che ci rimane? Breve di tutti i mortali, de' vecchi è brevissima: anzi spessissimo avviene che deludendo il pensare e lo sperare degli uomini, i quali tuttodì ne fanno pianto e lamenti, morte rovescia l'ordine posto nel nascere, e quelli che vennero da ultimo costringe a partire i primi. È un fumo, un'ombra, un sogno, un prestigio la vita che noi meniamo, campo di travagli e di lutto, e sol per questo pregevole ch'è strada ad una vita migliore. Se questo non fosse, non che disprezzarla dovremmo averla in orrore, e trovare che giusta è la sentenza di chi disse: ottima cosa il non nascere: prossima a quella il morir presto. La quale, se mai a te fosse sospetta come sentenza di uomo pagano, io ti dirò che la conferma il sapientissimo degli Ebrei, e che, fatta giusta ragione de' tempi, ebbe ad osservare Ambrogio nel pianger la morte del fratello suo, e non Salomone dai filosofi, ma questi da quello averla appresa. Ed io piuttosto di Ambrogio che non di Salomone voglio qui a te recitar le parole, perché una sola dottrina da doppia autorità venga posta in sodo. «Ottima delle cose, egli dice, è non nascere, secondo quello che lasciò scritto Salomone, la cui sentenza seguirono anche coloro che vennero in fama di grandi filosofi; poiché di tutti i nostri più antico egli è che disse nell'Ecclesiaste: E i morti preferirei a quelli che vivono, e più felice dell'uno e degli altri giudicai esser colui che non è ancor nato e non ha veduto i mali che si fanno sotto del sole.» E poco appresso: «chi è, dice, colui che così parla se non quegli che da Dio chiese la sapienza e la ottenne?» Indi soggiunte alcune cose della sua sapienza, «or come esser potrebbe, si fa egli a domandare, che ignorasse le cose mortali quegli cui furono svelate le celesti, e che intorno alle condizioni della sua natura, che per propria esperienza conobbe errar potesse o mentire? Ma non egli soltanto così pensò, quantunque solo usasse queste parole: perocché letto egli aveva nel santo Giobbe: - Perisca il giorno in cui io nacqui; - ché conosciuto aveva esser quel giorno il principio di tutti i mali, e bramò che perisse perché così si togliesse di quelli l'origine.»

Addotte quindi le testimonianze di Davide e di Geremia, così egli conchiude: «Se dunque dalla vita aborrono gli uomini santi, che inutile a sé la stimano quantunque a noi utile sia, che dovremo far noi, che non potendo giovare altrui, la vita possediamo come una somma di danaro preso ad usura, e sentiamo di giorno in giorno accrescersi il peso del debito accumulato per i nostri peccati?» E se questo disse Ambrogio, se dissero questo prima di lui personaggi di tanto merito, che dovrò dir io, la cui vita non solamente è da peccati inquinata ed oppressa, ma quasi è da dire tutta tentazione, tutta peccato? Ma su questo proposito, sebbene molte più siano le cose che per altri trovansi dette, e che pur da noi dir si potrebbero, io fo ragione che il discorso finora per te basti ed avanzi, perché non hai tu bisogno di scuola; ma solo di eccitamento per richiamarti alla mente le dottrine di quegli uomini divini, che furono pure dottrine tue, prima che l'inaspettata paura ne spegnesse in te la memoria. Poiché peraltro di questa materia impresi a trattare, voglio continuarla ancora un poco. E sebbene quelle sentenze da grandissimi uomini profferite s'abbiano a reputare gravissime per lo doppio argomento della ragione e dell'autorità, non sarà per avventura fuori di proposito il sentire quel che altri ne pensino. La prima, cioè a dire, che questa vita nostra è morte, trovasi scritta da Cicerone mentr'egli era giovane nel sesto libro della Repubblica, e da lui già vecchio ripetuta nella prima giornata delle sue Tusculane.

L'altra, che ottima cosa sia il non nascere, e prossima a quella il morir presto, si legge nello stesso libro primo delle Tusculane. E forse altrove Cicerone medesimo, ed altri molti avranno l'una e l'altra massima ripetuta. Ma in quanto alla prima, sebbene gl'innumerabili mali, a cui chi vive soggiace, le diano sembianza di vero, pure conviene confessare che quel riciso chiamare morte la vita, è frase meglio ardita che propria e pensatamente vera. Ond'è che a me piace quella via di mezzo additata da Gregorio in un sermone quotidiano; la vita nostra mortale ragguagliata all'eterna doversi piuttosto chiamare morte che vita. Espressa a questo modo io credo la sentenza più sicura e più salutare. Fra tanti illustri scrittori che l'una e l'altra insegnarono piacciati adesso sentire quel che ne pensasse il dotto ed eloquente Lattanzio Firmiano, che in non so qual libro delle sue Istituzioni ragionando contro l'umana impazienza «Come dunque, scriveva, potremo tenerci dal condannare l'errore di quei tali, i quali come un bene invocano la morte, e come un male rifuggono la vita, e nell'un caso e nell'altro ingiustissimi, perché non sanno di pochi mali trovar compenso in beni maggiori? Passano costoro la vita intera in mezzo alle voluttà ed ai piaceri, e sol che a questi si mesca alcun che d'amarognolo, ecco si fanno a desiderare la morte, e si lamentano di non aver avuto mai bene, solo perché una volta provarono il male. Quindi condannano tutta la vita e la dicono piena a ribocco d'ogni sorta di mali: ond'ebbe origine la stolta sentenza esser veramente morte questa che noi chiamiamo vita, e vera vita quella che temiamo col nome di morte: e primo di tutti i beni il non nascere, prossimo a quello il morir presto; la quale per crescerle autorità, attribuiscono a Sileno. Cicerone anch'egli nel libro della Consolazione: Ottima fra le cose, disse, è non nascere, e il non trovarsi nel mezzo agli scogli di questa vita; ma se nascesti, il meglio per te sta nell'esser presto sottratto all'incendio della fortuna. E conviene dire che a questa vanissima dottrina ei consentisse perché le aggiunse di suo qualche ornamento. A lui peraltro io domando: in pro di chi sia quel massimo bene del non nascere, mentre alcuno non v'ha che possa sentirlo; né altro che il senso può distinguere il bene dal male. E chi ti disse che tutta la vita è scogli ed incendio, quasi che di nostro arbitrio noi siam venuti nel mondo, e non Dio, ma la Fortuna ci abbia data la vita, e la natura di questa si possa per qualche lato alla natura di quella assomigliare?»

Fin qui Lattanzio. Ed io ti volli a bella posta di diversi autori recare in mezzo le discordanti opinioni, per ché tu me non creda servilmente addetto ad alcuna, e liberamente tu scelga quella che ti sembri più conforme al vero. Quanto a me, per tornare d'onde mossi il discorso, voglio dir questo solo, che qualunque sia il giudizio sulla verità delle riferite sentenze, tale certamente è la vita nostra, che come troppo amare non la dobbiamo, così dobbiamo tollerarla fino al termine, e per essa, quasi per via scabrosa, compir sino all'altra il nostro viaggio, e giungere infine alla patria desiderata. Esser non può che nati non siamo. Or se dunque è la vita piena di travagli, di pericoli e di miserie, né alcun che viva può di ciò dubitare, se accecato da vani piaceri perduto non abbia la coscienza di se stesso e il bene dell'intelletto, ragion vuole che come un bene sia da desiderarsi il fine dei mali, e se negar non si può che la vita in se stessa considerata ci è cagione di pianto, piangere si dovrà non perché quella finisca, ma sì perché sia cominciata. E questo sappiamo essere in uso presso alcune nazioni, che a buon diritto direi dotate di naturale filosofia, le quali piangono al nascere de' figli loro, e si rallegrano della loro morte. Che se v'è per noi ragione a temerla, non nell'attaccamento a questa vita fugace, ma solo è da vederla nel timore degli eterni supplizi: i quali quand'anche differir si potessero, evitar non si possono che per opera della virtù e della misericordia. Ma no che manco il differirli è possibile.4 Inutile al tutto dunque è temere la morte: e sol dobbiamo adoperarci a corregger la vita: unico mezzo ad ottenere che cessi la morte d'esser paurosa.

E' si conviene frattanto addomesticarsi con questa, e non solamente l'ingrato suo nome, ma la natura e la immagine sua sempre tenerci d'innanzi, perché avvezzi a pensare di lei, intrepidi ne miriamo l'avvicinarsi, e, non ne prendiamo spavento, come di cosa a noi sconosciuta. Questa di Platone, e dei filosofi dopo lui eccellenti è la dottrina, secondo la quale la stessa filosofia e tutta la vita del savio altro non è che una continua meditazione della morte. Né altrimenti pensava Paolo l'apostolo quando diceva ch'ei moriva ogni giorno. dato che naturalmente morire nessuno può che solo una volta: il morire più spesso, e il distruggere coll'abitudine l'orrore di ciò che al volgo degli uomini è tanto pauroso, nasce dal meditarvi continuo, e non da natura. E come lo Questo ed altri passi che si vedono scritti in corsivo così scorretti nel testo, che noi dobbiamo protestarci di averli piuttosto interpretati che tradotti. meditassero i filosofi essi se lo sanno. Meditazione assai più chiara noi cristiani troviamo in Cristo Signore, nella vitale morte di lui, e nel trionfo ch'ei riportò sulla morte. E qui mi soccorre alla mente, e non posso tenermi dal rammentare un consiglio che porge Ambrogio in quello stesso libro sulla morte del suo fratello: né ti prenderà meraviglia che tanto mi piaccia di questo scrittore io che quasi dieci anni vissi in Milano, e cinque anni interi nelle sue case.

Dice egli dunque: «Che altro è Cristo se non la morte del corpo, e la vita dell'anima? Moriamo dunque con lui per viver con lui. Sia d'ogni giorno per noi il pensiero e il desiderio della morte, mercé del quale l'anima nostra impari a distaccarsi dalle cose corporali, e sollevandosi a luogo sublime cui non aggiungono terrene libidini a deturparla e corromperla, nel pensiero di morire trovi ella lo scampo dalle pene della morte.» Lascio molte altre cose che dir potrei, e se troppe più che tu non volessi io ne scrissi finora, benignamente tu mi perdona: dato che tendono tutte a ricondurti a quel segno onde per troppa afflizione ti dipartisti, a pensare cioè che tu non devi soverchiamente amare la vita, né temerne la fine ed averla in orrore, né fare le meraviglie che ad età già provetta sia vicina quella che mai dalla puerizia, o da qualunque altra età non può dirsi lontana, sebbene si creda talora lontanissima. Meravigliare anzi tu devi che a te sia sortito quello che ad uomo del mondo, se ne togli il re Ezechia, io non so che in tutti i secoli avvenisse giammai, cioè, che per detto del tuo profeta tu puoi tenerti sicuro che ti rimangano ancora alcuni anni di vita. Siano pur pochi, mai non saranno meno che due: e così mentre non v'ha mortale che possa sicura intromettersi la vita per un giorno, per un'ora intera, tu puoi riposarti sulla promessa di più anni: se pure non s'abbia a stimare degno di fede chi predice vicina la morte, e non sa dire quanto sia per durare la vita. E ben questo è proprio di tali ciance, che dall'annunzio di un male nasce sempre il timore e la tristezza: e le predizioni di lieti eventi, qualunque sortiscano l'effetto, non fruttano intanto che vane gioie, e speranze incerte. E non dovevi tu rammentarti quel di Virgilio: Fisso ha ciascun suo giorno: irreparabile Corre per tutti della vita il tempo: Ma la fama protrarre con fatti egregi Sol può virtù, con fatti, intendi, che non il vano rumor della fama, ma la virtù ti procaccino, a cui necessariamente com'ombra al corpo tiene dietro la vera gloria? Oh! il salutare consiglio, unico forse da seguire fra tante dubbiezze... stava io per dire, quando in buon punto m'accorsi esser consiglio di un Poeta, e trattenni la penna per non offendere gli occhi tuoi che di attendere a poetiche cose ebbero solenne divieto. Il qual divieto per vero dire di stupore molto più grande, che non l'altra cosa mi fu cagione. Non io troverei nulla a ridire se volto esso fosse ad un uomo che già vecchio imprendesse siffatti studi; e — sei vecchio, a lui si dicesse, hai la morte alle spalle: pensa dunque alle cose dell'anima. Chè disacconcio ed amaro è il cibo delle lettere ai vecchi che a quello non si siano adusati ed assuefatti: e dolce lo provano quelli soltanto che nel gustarlo invecchiarono. Tarda e intempestiva è per te questa bisogna. Lascia le Muse, l'Elicona, il fonte Castalio: non si addicono a un vecchio molte cose che ad un fanciullo si converrebbero: indarno ti sforzi: torpido è fatto in te l'ingegno, debole la memoria, appannata la vista, tutti in somma i sensi del corpo languidi e non capaci di nuove fatiche. Fa ragione delle tue forze, misura l'impresa a cui ti sei messo, e guarda che sul più bello morte non interrompa i tuoi vani conati. Pensa piuttosto a far di quell'opre che buone son sempre, e che nobili e belle in ogni età, nella vecchiezza sono necessarie.

Ma queste ed altrettante parole che volte ad un vecchio principiante stimar si dovrebbero opportune e gravissime, io non intendo come muover si possano a un vecchio già dotto e letteratissimo. Sei vicino alla morte: lascia i pensieri del secolo, abbandona ogni cura voluttuosa, tronca le male abitudini, purifica l'anima, riforma i costumi: fatti piacente a Dio, e da' nuovi vizi aborrendo, i vecchi onde avevi cominciato a purgarti, sterpa animoso fin dall'ime radici, e sopra tutto l'avarizia, che non so perché sia de' vecchi il peccato più generale: a questo intendi, di questo ti affanna, perché sicuro e ben apparecchiato ti trovi il giorno estremo. Ecco i consigli, ecco gli ammonimenti che ottimi io dico e prudentissimi. Ma se ad un uomo nel campo delle lettere non già novizio, sì bene veterano ed emerito, lascia, tu dica, le lettere, siano pure le poetiche od altre qualità voglia, delle quali a prova conosci il bene ed il male, e in cui finora tu ritrovasti non fatiche e travagli ma dolce sollievo, e soavissima soddisfazione dell'animo, non altro a me pare tu fai di lui che spogliarlo di quanto dava presidio e conforto alla sua vecchiezza. Or che stato sarebbe se alcun che di simile si fosse comandato a Lattanzio, o messo in opera da Agostino? Né quegli avrebbe con sì robusta mano scosse le fondamenta delle stranie superstizioni, né questi la città di Dio con arte tanto mirabile edificata, e sarebbe rimasta talvolta ad un Gioviniano la cura di rispondere a Giuliano, e agli altri eretici di quella risma.

E se Girolamo avesse un cosiffatto consiglio eseguito (che narra egli stesso di aver ricevuto, e come è da credere ancor Vigilanzio), se le poetiche, le filosofiche, le oratorie, le storiche discipline avesse egli al tutto abbandonate, non egli avrebbe per certo con tanta efficacia di persuasione le calunnie di Gioviniano e degli altri eretici combattuto, né con tanto sfoggio di dottrina avrebbe Nepoziano istruito infin che visse, né pianto lo avrebbe poi che fu morto, mai finalmente nelle lettere e nelle altre opere sue tanto splendore di eloquenza avrebbe egli trasfuso. Siccome solo dalla verità il vero si emana, solo dalla eloquenza può apprendersi il dire artificioso ed ornato; e quella doversi cercare dai poeti e dagli oratori né Girolamo nega, né v'è chi creda far mestieri di prove a porlo in sodo.

Né io qui starei ad esaminare la cosa ne' suoi particolari; ma in poche parole tutto stringendo il parer mio, dico che intendo bene non convenirsi ad un vecchio imprendere questi studi negli ultimi anni della sua vita, perché non è mai ben fatto quello ch'è fatto fuor del suo tempo; ma non sarà mai che intenda perché vietar se ne debba un uso moderato e sobrio a chi ne ha nutrito l'ingegno fin dalla puerizia, e per lunga esperienza conobbe qual frutto trarre se ne possa, e già ne traessero quei valentuomini, che sopra ho ricordati per la scienza, per i costumi, per la eloquenza, per la difesa infine della nostra religione. Ben egli è tale che sa distinguere cosa da cosa, e qual grado di stima si meriti Giove adultero, Mercurio lenone, Marte omicida, Ercole ladro, o per parlar de' meno tristi, Esculapio medico, e Apollo citarista suo padre, e il fabbro Vulcano e la tessitrice Minerva, e come e quanto per lo contrario venerare si debbano la vergine Madre Maria e il nato da lei Redentore del mondo vero uomo e vero Iddio. Che se fuggir dobbiamo i poeti e gli altri scrittori che mai Cristo non nominarono, perché mai non lo conobbero, quanto più pericolosa non s'avrebbe a stimare la lettura de' libri dettati dagli eretici, i quali di Cristo non parlano che per combatterlo?

Eppure su quelli con ogni diligenza affaticansi i difensori della vera fede. Oh! credi a me: sono pur molte le cose che nate da pigrizia e da ignavia si attribuiscono a gravità di prudenza e di consiglio. Quello cui di conseguire disperano gli uomini soventi volte disprezzano: e proprio è dell'ignoranza tenere a vile quel che non seppe imparare, e dove essa non giunse bramare che nessuno pervenga. E quindi nascono i falsi giudizi intorno a quello che non si conosce, ne' quali meglio il livore che la cecità de' giudici si manifesta. No che non deve l'amore della virtù né il pensiero della morte vicina distorci dallo studio delle lettere, il quale, se con buone intenzioni si faccia, della virtù risveglia l'amore, e il timore della morte o sminuisce o distrugge.

Potrebbe l'abbandono di lui ingenerare quella sospettosa diffidenza, di cui la sapienza veniva motivata. Siccome non fan le lettere impedimento a chi con animo ben disposto se ne procaccia il possesso, e nelle difficoltà del terreno viaggio non d'inciampo gli sono, ma di conforto e d'aiuto.

E come avviene di molti cibi, che ad uno stomaco debole e nauseato riescono pesanti quegli stessi i quali ad un altro che sano sia e di buon appetito apprestano nutrimento grato ed opportuno, così degli studi si avvera, ché ad un ingegno acuto e ben disposto riescono salutari quelli che pestiferi tornerebbero a menti inferme; specialmente se negli uni e negli altri l'accorgimento si adoperi di una sana discrezione. E se così non fosse, chi mai potrebbe spiegare quella costante e pertinace volontà con tanta lode da molti serbata fino agli estremi? Cominciava Catone ad invecchiare quando imprese lo studio delle lettere latine, e fatto già vecchio imparò le greche. Varrone leggendo sempre e scrivendo giunse a cento anni, e prima la vita che l'amor degli studi ebbe lasciata.

A Livio Druso la vecchiezza e la cecità non furono cagione che lo distogliessero dallo interpretare a vantaggio della Repubblica il diritto civile. Appio Claudio dagli stessi incomodi sopraffatto usò la medesima perseveranza. Omero fra i Greci, cieco anch'esso e vecchissimo, fece pur egli il medesimo, ed in diverso genere di studi si mostrò del pari costante. Socrate d'anni già grave si dette a studiare la musica. Crisippo un'opera difficilissima cominciata a mezzo della sua giovinezza condusse a fine già fatto decrepito. Isocrate un volume di orazioni a novantaquattro anni, Sofocle già sul centesimo compose un libro di tragedie.

Compresi tutti dall'amor dello studio, Carneade dimenticò di prendere il cibo, Archimede si lasciò torre senza badarvi la vita, Cleante fra i Greci, Plauto fra i nostri prima colla povertà, poscia colla vecchiezza combatterono da forti. Impavidi d'ogni pericolo, insensibili ad ogni travaglio Pitagora, Democrito, Platone, Anassagora corsero tante terre, solcarono tanti mari, non come molti per cupidigia di arricchire, ma solo per desiderio d'imparare.

Il vecchio Platone nell'estremo dei giorni suoi, ch'era pur quello del suo natale, lo spirito innamorato nella filosofia esalò leggendo, o, come altri vogliono, scrivendo: Filemone, mentre lo aspettavano gli amici suoi, curvo e pensoso innanzi a un libro cessò di vivere al culto delle Muse, sebbene della sua morte si abbia una più curiosa leggenda. Solone infine, cui tanto spesso mi piaccio di rammentare, divenne vecchio imparando sempre qualche cosa di nuovo, né morte che già gli stava sopra, valse ad estinguere il generoso suo desiderio. Ma posti da banda costoro; ed altri de' siffatti, ché sarebbe impossibile il noverarli, e parlando de' nostri, ai quali più noi bramiamo di farci somiglianti, non consumarono forse essi pure nelle lettere la vita loro, non invecchiarono fra le lettere, fra le lettere non morirono, per modo che molti di loro intenti a leggere o a scrivere la morte percosse?

E a nessuno fra tanti per quel ch'io mi sappia, tranne Girolamo, fu apposta a colpa la eccellenza nelle letterarie discipline, la quale a molti, e a Illi specialmente diede frutto di gloria. So ben io che Gregorio lodò Benedetto perché gli studi, che aveva cominciati, per amore d'una vita più rigida e solitaria abbandonò. Benedetto per altro non la sola poesia, ma ogni spezie di studio aveva fin allora tenuto in non cale. Credi tu che degno di lode s'avesse a reputare il suo lodatore, se avesse allora fatto lo stesso? Io tengo per fermo che no: siccome una cosa è l'avere imparato, ed un'altra lo studiare per imparare: e ben diversa è la bisogna del fanciullo che la speranza depone, da quella del vecchio che rigetta la cosa: quegli d'un impedimento si proscioglie, questi si spoglia d'un ornamento: quegli si libera dal peso di un laborioso travaglio e di una incerta ricerca: questi rigetta il frutto già certo e soave delle durate fatiche, ed un prezioso tesoro con lungo studio acquistato sperde e disprezza. Concludiamo. Molti ad altissimo grado di santità pervennero senza dottrina: a nessuno però la dottrina impedì d'esser santo.

Vero è che all'apostolo Paolo fu data la taccia di esser venuto pazzo per lo studio: ma quanto giusta ella fosse se lo sa già il mondo. Ora, se a me si concede aprire liberamente l'animo mio, dico il cammino che per la via dell'ignoranza conduce alla virtù, esser per avventura facile e piano, ma proprio de' pigri e degl'ignavi. Unico è il fine di tutti i beni: molte però le strade e diverse che a quello conducono. L'uno più lento, l'altro procede più spedito: questi nella luce, quegli nel buio: l'un si asside più in basso, l'altro più in alto si ferma. Beato di tutti questi è il viaggio, ma quello è più glorioso che da più bella luce accompagnato giunge più in alto: ond'è che alla devota pietà di un uomo letterato, inferiore riesce nel paragone la pietà benché devota di un ignorante. Provati tu a citarmi qual vuoi più gran santo ignaro di lettere, ed io ti sto pagatore che saprò porgli a riscontro un dotto ancora più santo. Ma basti omai di tali controversie, in cui l'abbondanza della materia mi costrinse ad esser sì lungo.

Se tu peraltro sei fermo nel tuo proposito di abbandonare tutti gli studi, e veramente sei risoluto di vendere i libri, e allontanare per tal modo da te anche gli strumenti delle lettere, con tutto il cuore ti ringrazio perché ti piacque in questa vendita a qualunque altro compratore preferir me avido di libri, come tu dici, e come ingenuamente io confesso, perché negandolo potrei colle stesse mie lettere esser convinto di dire il falso. E sebbene a me quasi sembri di comprar cosa già mia, lo faccio, perché non mi patirebbe l'animo di vedere i libri di tant'uomo dispersi o venuti in mano ai profani. Come dunque, sebbene divisi delle persone, fummo noi sempre dell'animo una cosa sola, così questo tesoro che fu la scorta e la guida de' nostri studi (se piaccia a Dio di appagare il mio voto) riunito tutto in un corpo dopo la morte nostra voglio che passi a qualche Luogo Pio, che perpetuamente conservi la nostra memoria.

A tal partito m'appresi poiché cessò di vivere colui che degli studi miei io m'impromisi a successore. Fissare peraltro il prezzo ai libri, siccome per tua bontà tu vorresti, io non posso: ché d'essi non conosco né i titoli, né il numero, né il valore. Fa' tu di mandarmene una nota precisa, e attendi al patto ch'io ti propongo. Se sarà mai che, secondando il mio costante desiderio, e attenendo la promessa che un giorno quasi me ne facesti, tu ti risolva a passar meco quel tanto di vita che ci rimane, codesti libri, e questi che da me raccolti devi stimare pur tuoi, troverai uniti per modo che tu debba conoscere nulla aver perduto, ma sebbene guadagnato alcuna cosa. Resta ora ch'io ti dica come, mentre a molti, e fra gli altri a me pure, tu vai dicendo di esser mio debitore di non so quanti danari, io per mia parte lo nego, e mi meraviglio di cotesto vano, per non dire inetto scrupolo della tua coscienza. Ti posso dire con Terenzio: tu cerchi i nodi nel giunco. D'una cosa sola tu mi sei debitore: dell'amor tuo.

Ma no, che di questo debbo confessare essere stato tu primo il pagatore in buona fede. Vero è che continua il debito tuo, perché da me continuamente ricevi; ma ripagando tu sempre, non resti mai debitore. Ai lamenti che secondo il solito mi vai facendo della tua povertà io non voglio contrapporre consolazioni ed esempi di poveri illustri. Son cose a te già notissime. Solo a chiare note questo voglio risponderti: che alle molte e tarde ricchezze le quali io ti aveva offerte abbia tu preferito la libertà dell'animo, e la tranquilla tua povertà, sta bene, e te ne lodo. Ma del disprezzo che fai d'un amico, il quale t'invitò tante volte, di questo no, non posso lodarti. Io non son tale che di qua ti possa far ricco. Se fossi, non le parole o la penna, ma parlerebbero i fatti: son però tale che posseggo più che non basta a sopperire al bisogno di due, che vivano congiunti di cuore e di casa. Grave torto mi fai se mi schifi: se non mi credi, me lo fai più grave.

Addio.

Da Padova, al 28 di maggio.