Percorso : HOME > Scriptorium > Petrarca: Seniles > Lettera I a Boccaccio 

lettera I  a Boccaccio

Immagine di Giovanni Boccaccio a Firenze

Immagine di Giovanni Boccaccio a Firenze

 

 

LIBRO OTTAVO

LETTERA I

A GIOVANNI BOCCACCIO

 

Mos est iuvenum

 

Intorno ai pregiudizi che correvano sull'anno sessagesimo terzo della vita umana.

[Pavia, 20 luglio 1366]

 

 

 

Hanno i giovani per costume di scemarsi qualche poco degli anni, ed i vecchi di accrescersene altrettanto, e forse di più, per la ragione che va più franco nel mentire chi aggiunge che non chi toglie, e trova ancora più facile l'altrui credenza. Diversa, ma certa è la ragione che gli uni e gli altri muove a ciò fare: i giovani stimola il desiderio di durare più a lungo la vita per non dire le voluttà: i vecchi quello di procacciarsi più grande autorità e maggiore rispetto. Ma e questi e quelli sono nel mentire gli anni loro così costanti, che i giovani a furia d'ingannare gli altri, giungono talvolta ad ingannare se stessi, e si credono veramente più giovani che non sono, sebbene mai non ingannino la morte che li aspetta al termine stabilito: i vecchi poi affannandosi a sostenere una bugia s'intricano in altre, e sono costretti a dire di aver vedute molte cose che, avvenute prima del nascer loro, veramente non videro. Io mi proposi tenermi lontano dall'una e dall'altra di queste menzogne: ché turpe è l'una, l'altra inutile. Pure non mi vergogno di confessarti che per lunghi anni alla prima delle due schiere mi feci seguace ancor io, se non parlando, almeno tacendo.

Perocché pensai che il volto mio, su cui la natura suole di sua mano scolpire il numero degli anni, aiutato dalla vivacità dell'indole mia, e dal sistema della mia vita dedita alle giovanili intemperanze, valer potesse naturalmente a farmi creder più giovane meglio che fatto non avrebbe una mia sfacciata menzogna. Vero è peraltro che a questa speranza faceva ostacolo la canizie venuta anzi tempo, la quale fin dagli anni più teneri, e quasi coll'apparire della prima lanugine, m'imbiancò la chioma per modo, che dicevano sull'aspetto mio parersi alla floridezza della gioventù mista la gravità senile, né questa riuscire ingrata alla vista, perché temperata da quella.

Ma perché non sempre le bianche chiome sono veraci testimoni dell'età, e tutti avevano in me veduta avvenire improvvisa quella precoce mutazione, che a nessuno poteva farmi credere vecchio, sperai che da quella nascer non potesse alcun giudizio contrario alla mia giovinezza: e così fu veramente.

Frattanto ove a leggere o ad udire m'avvenissi della canizie di Numa, della candida barba di Virgilio e de' bianchi capelli onde era pieno Domiziano ancor giovanetto, ed anzi tempo pur essi Stilicone e Severino, cresceva in me quella fiducia, e dall'esempio di quegl'illustri prendeva conforto. Ma sebbene io di me stesso con tutta certezza possa affermare di non avere mentita mai l'età mia, se, come talora avviene, alcuno dicesse di reputarmi più giovane, senza confermar la menzogna, io me ne piacqui: se per lo contrario mi stimasse più vecchio, me ne sdegnava in cuor mio: e se per caso, o per più maturo giudizio apponendosi al vero alcuno indovinasse il numero giusto degli anni miei, da quella verità sentendomi offeso, io mi stimava quasi tradito. Né so ben dire io medesimo perché ciò facessi. Non nego già che una volta menassi ancor io siccome gli altri giovani scorretta la vita. E benedetto sia Iddio, la cui mercé, come disse l'Apostolo, sarò liberato da questo corpo di morte. Ma per ciò che spetta a questa parte delle umane miserie, spero che la grazia di Cristo Signore già me ne abbia interamente liberato.

Già da molti anni, ma specialmente dal Giubileo in poi, da cui questo che corre è il diciassettesimo, benché ancora robusto delle forze, io da quella peste così libero sono rimasto che l'ho adesso in abbonimento ed in odio mille volte più di quanto prima mi piacque: per modo che se quelle turpitudini talora mi tornano alla mente, io mi sento compreso di vergogna e di orrore. E che io dica il vero lo sa Cristo mio liberatore, che dalle frequenti mie lacrime commosso, stese a me misero e piangente la destra, e si degnò a sé sollevarmi, perché come scrisse il poeta: In pace e in quiete, almeno morte mi trovi. Ciò posto, io non posso a meno di meravigliare che d'allora in poi fino al presente a me sia tornata gradita, ancorché falsa, l'idea d'esser giovane, e tanto più ne stupisco perché mi ricorda di aver letto fin da fanciullo, e di non aver dimenticata giammai quella sentenza del vecchio Catone riportata da M. Tullio, e da me sempre tenuta per verissima, tanta essere della vecchiezza, e specialmente dell'onorata vecchiezza l'autorità, da doversi stimare mille volte più che tutti i piaceri della giovinezza. E pensandovi, e ripensandovi, non altra cagione mi venne fatto di ritrovarne, che l'abitudine, della quale come buoni sono gli effetti allora ch'è buona, così pessimi sono quando ella è cattiva.

Assuefatto a bazzicare co' giovani, senza pur volerlo mi trovai esser uno della loro schiera, quantunque non della peggiore. Appresomi dunque alla gioventù, mentre questa fuggiva, io tenacemente a lei mi attaccava, ma non potendo né seguirla, né rattenerla, mi trovai rivolto verso la vecchiezza di cui temeva avesse ad essere infausta, ed invece trovai piacevolissima la compagnia, feconda per me di buoni frutti, quanto quella era ricca di vaghi fiori.

Son quindi venuto a tale che più non m'è d'uopo né mentire, né valermi delle menzogne altrui. Sarebbe ormai vergogna il negare ciò che negar non si può, e se si potesse, sarebbe pure vergogna. Per lo contrario il confessarlo e non fa torto, e può tornare ad onore, non già per la cosa in se stessa, ché non è merito alcuno l'esser vecchio; ma se all'età si aggiungano la gravità della mente, la integrità dei sensi, la fermezza dei proposti, e proporzionata agli anni l'apparenza della persona non cadente, non sudicia, come nella più parte dei vecchi si vede, se da ultimo una vita temperante abbia conservate le forze, ed uno studio continuo sia testimonio del tempo ben impiegato, qual pro s'avrebbe dall'occultare i bianchi capelli? Quale dal carpirli? Se di tal giuoco ti piaci, o ti converrà fra poco averli tutti divelti, o dovrai ristarti dall'opera. Che giova far violenza alla natura? Vincitore per pochi giorni dovrai alla fine soccombere; la folle resistenza dei giganti rimarrà dalle celesti forze conquisa; celata invano dall'arte si scoprirà manifesta la vecchiaia, verrà improvvisa la morte, ed il contrasto oppostole non ad altro gioverà che a rendere più insigne e più vistosa la sconfitta. Cedo dunque spontaneo per non cedere a forza: cedo e mi do per vinto, non come Cicerone alla fortuna, ma sebbene alla natura, cui non è costanza, ma stoltezza il resistere. Né io vorrò affaticarmi a nascondere in me quello che negli altri ho sempre fatto segno di venerazione e di ossequio, cioè a dir la vecchiezza, che tutti ad una voce i filosofi ed i legislatori dissero venerabile, e che veramente rispettata ed onorata fu sempre in tutte le bene ordinate Repubbliche.

Non so negarti peraltro di aver mandato in lungo la cosa finché potei. Cicerone, come mi sovviene di averti scritto altra volta, pone il principio della vecchiaia a quarantasei anni, altri lo pongono a cinquanta; più tardi che tutti, per quanto io sappia, Agostino la fa cominciare a sessanta, forse perché più degli altri ei si sentiva sano e robusto. E veramente non può negarsi che alcuni a cinquant'anni sono più vecchi che altri non siano a sessanta, il che può nascere dalla diversità, come del naturale, così del sistema della vita. Ed io che già tutte queste mète aveva oltrepassate, e per giudizio di qualunque di loro doveva tenermi già vecchio, pure esitava, ed a me stesso andava dicendo: or perché tanto vari l'uno dall'altro questi dotti uomini posero i termini? Certamente non per altra ragione, se non perché ciascuno agli altri appropria quel che ha provato in se stesso. E non potresti aver tu sortita una tempra della loro più forte?

Per vero dire tranne quel primo fiore di gioventù, e quell'agilità di membra che spariscono coll'adolescenza, null'altro in te senti che siasi mutato. Aspetta dunque fino a tanto che non a senno degli scrittori fra loro discordi, ma secondo la tua stessa esperienza tu possa sicuro profferire il giudizio. Quando vecchio ti sentirai, allora e non prima dirai d'esser vecchio. Taci frattanto, e attendi a quello che faranno gli anni. E così ragionando io cercava di allungare i termini della vita, e di mutare i confini dell'età, tentando quasi di spingere a più lontano segno le colonne di Ercole. Ma il giorno d'oggi, che è il giorno mio natalizio, vinse la mia pervicacia, e portando il pensiero sulla passata, e sulla futura mia sorte, mi spinse a prender la penna in quest'ora antelucana, nella quale secondo che appresi dai miei parenti e da chi m'ebbe in cura, degni in questo come in molte altre cose della mia fede, io venni alla luce di questo mondo. Non richiesto dunque, e spontaneo oggi a te dico, ciò che a te stesso e ad altri curiosissimi di saperlo con ogni cura in fino ad ora io tenni celato. Solo una volta, e non ha guari, me lo cavò di bocca un astrologo assai celebrato, che diceva di volerlo conoscere per verificare se il tenore e la fama della mia vita rispondesse a quello che nell'arte si chiama il mio significatore, e per dedurne poi una conseguenza sulle vicende, e sull'esito della mia vita futura.

Ed io glie lo dissi più per levarmelo d'attorno, che non per fede che io dessi ai libri suoi: perciocché come sai, e come giusto trovi tu pure, nulla dall'influsso degli astri, e tutto io speri ed aspetti dalle mani di Dio. Ma non è solo il tornare del giorno mio natalizio che in mezzo alle tante faccende che mi opprimono, mi abbia spinto a prender la penna, e a scriverti questa lettera. Tornò già molte volte questo giorno per me, eppure così assonnato io mi giaceva fra le lusinghe de' caduchi piaceri, che mai non ne fui desto, né, ponendo mente al veloce fuggir della vita, mai dissi a me stesso: eccoti fatto, o mortale, più vecchio di un anno, e di tanto avvicinato alla morte. Avvi dunque una più forte ragione che a questa confessione oggi mi astringe, e se a te non disgradi l'udirla, ecco io te la espongo.

Trattasi di un'antica opinione, singolare in se stessa, e per le ragioni che se ne adducono meravigliosa. Perciocché dicono essersi per lunghe osservazioni conosciuto che nell'anno sessagesimo terzo della vita corre l'uomo pericolo estremo o di grande sventura, o di malattia sia dell'animo, sia del corpo, o finalmente di morte: de' quali danni, tutti assai gravi; gravissimo è quello da cui l'animo è minacciato. Di quest'anno fatale scrissero molti, de' quali ora io rammento Aulo Gellio nelle Notti Attiche, Censorino nel Libro dei Secoli, ma più di tutti elegante l'astrologo Giulio Firmico Materno, che nel quarto libro delle Matematiche, diligentemente discorre la cosa, e ne adduce la ragione come se si trattasse di una verità già certa e dimostrata. E questa è la ragione che dianzi io diceva meravigliosa, di cui lascio che misurino la forza quelli che a studi siffatti applicarono la mente: e in quanto a me della scoperta non meno che delle ragioni mi rido. Dice dunque Materno che, per naturali ma ignote cause, il settimo ed il nono anno della vita sono perniciosi, e di certo danno apportatori; e quindi avvenire che il numero risultante dal sette moltiplicato per nove in sé riunisca i perniciosi elementi dell'uno e dell'altro, e raddoppi la misura de' mali che entrambi minacciano. Or come appunto questo si avvera nell'anno sessagesimo terzo, così quell'anno è da tenersi per infame, e d'infame nome lo notarono i Greci, androda lo dissero gli Egiziani, che è quanto dire spezzettare, perché l'umana natura spezza e distrugge. E qui, tessendo il catalogo dei tanti mali che, in quell'anno funesto si rovesciano sull'uomo, pone in schiera le accuse, le insidie, i disastrosi viaggi, i naufragi, gl'incendi, le rovine, le perdite dei patrimoni, le infermità, le ferite, i lutti, le morti, mali tutti assai gravi, ma sopra ogni altro gravissimo la malattia della mente, che a tutti i danni di tanto sovrasta di quanto l'anima è più preziosa del corpo, né v'ha perdita al mondo che quella pareggi delle doti dell'anima. Or chi a tali minacce potrebbe non impaurirsi? E sì che ad avvalorarne l'effetto, addurre io potrei l'esempio di filosofi, di santi, di principi, di tiranni morti appunto in quell'anno. Ma perché a scemare, non ad accrescere le paure io volgo il discorso, dirò non esser forse parte alcuna della vita fra i confini dell'adolescenza e della vecchiezza, nella quale di molti uomini illustri non sia seguita la morte.

Di questo io dunque non temo, e tutto mi affido a Colui che me inconsapevole chiamò a questa vita, m'ebbe caro fin nella chiostra dell'utero materno, mi coperse finora del manto della sua misericordia, e mercé questa vorrà finalmente a tempo opportuno a sé richiamarmi: e se peccatore e negligente qual fui abbandonar non mi volle, non sarà certo che mi abbandoni ora che profondamente pentito amando e sperando lo invoco. Tengo io per fermo che nulla avverrà di quanto minacciano questi seminatori di paure e di fole, né alcun anno della vita sarà infelice a chi si pente di averla male condotta, e o vive bene, o di ben vivere brama e si sforza. Che se pure alcuno dei minacciati mali m'incolga, pur che quello non sia che come più grave io posi per ultimo, tutti e la morte ancora io mi confido di sopportar fortemente coll'aiuto di lui del quale sta scritto: Fra l'ombre della morte saprò aggirarmi senza timori perché tu sei meco.

Ed altrove: Nel mezzo ancora delle tribolazioni tu mi darai forza, o Signore. Guarderò la morte come effetto naturale, e nella speranza dell'immortalità, e della risurrezione troverò il mio conforto. Comune con me la prima ebbero sempre tutti i buoni, e tutti i sapienti: della seconda furono privi anche i più grandi: eppure per sola forza della loro virtù, lieti ed intrepidi incontrando la morte, ci dimostrarono non che possibile, facile ancora esserne il disprezzo. Or fa' tu ragione se rischiarato da tanto lume possa un uomo cristiano senza vergogna temere la morte.

Lieto dunque e sicuro oggi, e in quest'ora medesima entro io nell'anno a torto chiamato infame, che nulla di nuovo, o nulla almeno di pauroso potrà arrecarmi, se qual si conviene io mi porga forte e costante. Conciossiaché tu devi sapere, e il sappiano pure quanti non hanno a schifo quest'umile origine, che nell'anno 1304 di questa ultima età cui dà nome, e principio Gesù Cristo fonte ed autore di ogni mia speranza, sullo spuntare dell'alba, il lunedì 20 luglio io nacqui al mondo nella città di Arezzo, e nella strada dell'Orto. E giorno fu quello per pubblico evento memorando e famoso, perocché in quel giorno, e in quell'ora nella quale io nasceva, prima che il sole si affacciasse dai monti, gli esuli nostri da Bologna e da Arezzo ove s'erano ridotti, in numerosa schiera raccoltisi, si presentarono in armi alle porte della patria, sperando di prendere vendetta dell'esilio colle spade: e comeché vana tornasse l'impresa, tanto fu per essa il commovimento delle genti, tanto il terrore sparso ne' circostanti paesi, che ai nemici per certo non ne venne meno la memoria, e fino a' dì nostri se ne serba verde e celebrata la ricordanza. Ed oggi pure è lunedì, siamo pur oggi al 20 di luglio, e corre l'anno 1366.

Conta sulle dita e vedrai che son passati 62 anni da che toccai l'inquieta soglia di questa vita; sì che oggi appunto, e in quest'ora medesima io pongo il piede su quel che dicono anno tremendo sessagesimo terzo, e se tu non menti, e secondo il costume che dissi de' giovani, qualcuno pure tu non te ne scemi nell'ordine del nascere, io ti precedo di nove anni. Eccoti detto, amico, qual fosse il primo giorno delle mia mortale camera: così sapessi anche l'ultimo, come dirtelo vorrei. Ma invano io vado ripetendo con Davide: «Fammi nota, o Signore, la fine mia.»

Tutti però i giorni miei, e quell'ultimo sopra tutti io raccomando al Re de' secoli: tu, se come spero, vivrai più di me, lo saprai allora che sarà giunto da questi amici che corrono meco lo stadio stesso, ed ai quali sarà, come dice Virgilio: Giorno sempre onorato, e acerbo sempre; e paragonando al principio la fine, conoscerai (qualunque ne sarà la durata) quanto fu breve la vita mia, e con quel vecchio sventuratissimo andrai ripetendo: «Nato di donna vive l'uomo per breve tempo, ed oppresso da mille miserie sbuccia come fiore e vien calpestato, e come ombra si dilegua.» Levatomi secondo il solito a mezza notte, tali cose mi vennero al pensiero; e dato di piglio alla penna teco le volli subitamente comunicare.

Vedremo, se Dio vuole, come passi quest'anno. Se alcun sinistro m'avvenga, te ne dorrà, ne son certo: ma se fosse la morte, purché turpe non sia, fa' di non dolertene, di non ne muover lamento. Chè come non si conviene ad un figlio diffamare il suo genitore, così non deve l'uomo accusar la natura. Se poi l'anno mi rechi alcun che di più lieto che non promette, certo io sono che ne godrai, e se sarò vivo, io stesso al finire dell'anno ti prometto di rallegrarmi con te d'essere uscito salvo da questo scoglio de' vecchi, come già un dì con Caio Asellio fece Cesare Augusto, presso il quale pure si trova fatta infame memoria di quest'anno. Tu intanto osserva, e impara a mie spese quello che tu a tempo tuo debba temere o sperare, e quanto meriti di fede questa famosa sentenza. E, o ch'io viva, o ch'io muoia, fa' di ricordarti di me.

Addio.

Di Pavia, li 20 di luglio.

Sull'aurora.