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lettera VII  a Francesco bruni

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

 

 

LIBRO PRIMO

LETTERA VII

A FRANCESCO BRUNI

 

Quod me ad fugam mortis

 

Non doversi temere né fuggire la morte.

[Padova, estate 1362]

 

 

 

Empietà e stoltezza delle divinazioni astrologiche. Delle tante premure che tu mi fai perché io fugga il pericolo di morire ti ringrazio di tutto cuore, perocché ciò mi prova quanto tu brami ch'io viva. Tu dunque ami assai uno che non conosci: dirò meglio, uno che non hai mai veduto. E per verità: se amare non si potesse quello che non si vede, nessuno amerebbe Iddio, né l'anima propria: anzi nemmeno i fratelli, i figli, gli amici, che crediamo vedere mentre realmente non essi vediamo, ma la casa od il carcere che li tiene chiusi. Questi che corpi diciamo, non altro sono che vincoli, i quali se fragili di loro natura non fossero e a sciogliersi agevoli, eterna sarebbe la nostra sventura.

Perché meritamente è lodata la sentenza di Plotino, là dove di ciò parlando e degli uomini, disse avere il padre celeste per sua misericordia data a quei vincoli natura mortale. Ma facendo ritorno all'amorevole tuo consiglio, dirò che quanto per l'affetto onde muove esso è degno di un amico e di un fratello, tanto considerato in se stesso esso è vano ed inutile. Non v'ha strada per fuggir dalla morte: anzi soventi volte avviene che fuggendola le si corre incontro. Migliore adunque e più sicuro di ogni altro partito quello si è di star saldi fra il desiderio e il timore, e non darsi briga né ad affrettare né ad attardare che si compia il divino volere, ma memori di quel tribolato e [60] pazientissimo vecchio che a Dio rivolto diceva: tu mi chiamerai ed io ti risponderò, tenerci pronti alla chiamata, perché né della troppa fretta né della renitenza nostra abbia egli ad offendersi.

Imperocché siccome il non rispondere a Dio che ti chiama è superbia, o il rispondere non chiamato è pazzia, così è stoltezza ugualmente il temere e il desiderare la morte. Quello è viltà, questo impazienza: vana la paura, inutile il desiderio. Indarno si teme ciò che evitare non si può: indarno si desidera ciò che certamente deve presto avvenire. Porgiamoci forti e tranquilli, ché nulla tanto all'uomo ed al savio si disconviene quanto il timore e la trepidazione. Dal dì che nascemmo ci circondarono i pericoli, i fastidi, i travagli, i dolori, e se ancora non gli piombarono addosso, deve ad ogni ora il mortale prevederli, aspettarli. Non sappiamo noi dunque quale arena, qual palestra, qual pugna sia questo mondo in cui siam venuti? C'ingannò il portinaio se in sulla soglia non ci annunziò tutti i mali che per noi stavano apparecchiati. Non sa di esser uomo chi non sa di essere esposto alle umane vicende, e si dimentica della sua mortale natura chi non pensa alla morte, chi non l'aspetta in ogni ora, in ogni luogo. Questa è la nostra sorte; e ben possiamo piangerne e lamentarne, siccome fecero con interi volumi uomini sapientissimi, e il feci pur io in non poche delle mie lettere. Ma a che valgono le querele ed i pianti? Scritta in adamante è la legge, Iddio ha parlato: E creato ad entrar sola una volta Nella vita mortal, dal suo divino Labbro ciascun la propria sorte apprese. Conciossiaché, come disse un altro poeta: ...... grave, immutabil pondo Han di Dio le parole, e obbedïente Le siegue il fato.

Ed in vero: se la voce fato viene da fando, che val parlare, siccome non costui solo, ma molti santi dottori e specialmente Agostino furono d'avviso, sarà lecito ancora a noi di ammettere il fato, non però ne' moti degli astri, sì nelle parole e nella provvidenza di Dio. A nulla monta pertanto l'esser timidi o impavidi: sarà degli uni e degli altri quello che fu decretato dalla natura e da Dio. Della necessità di morire non v'ha chi si lasci aver dubbio. Del quando, del dove, del come, al par che di ogni altra futura cosa, generale è la dubbiezza, anzi non dubbiezza soltanto, ma notte oscura, profonda di tenebrosa ignoranza, cui non può diradare ingegno d'uomo qualunque. A che giovano gli aruspici, a che si affannano gli astrologi, a che perdono il tempo in vane speculazioni i matematici? So che invano a costoro si predica la verità, dalla quale si stimano offesi, e non si lasciano correggere. Pure io non so tenermi che loro non gridi: - lasciate, o stolti, lasciate compier le stelle i loro giri. O nulla esse possono sopra noi, o nulla mostrano di certo, o di quel che possono e mostrano noi nulla intendiamo: e che una almeno di queste cose sia vera dalle vostre menzogne è fatto manifesto. Delle tre sentenze quella scegliete che più vi piace: di qui non s'esce: perocché stolta è la ricerca del nulla, ed è da pazzo il tentare di giungere a mèta che sia inaccessibile.

A che dunque intronarci le orecchie colle vostre ciance? Siamo stanchi di darvi retta, stanchi d'aspettare: perocché nulla mai si avvera di tutto quello che come sonnolenti ubriachi andate borbottando, tranne alcun che di rado ed a caso, siccome avviene talvolta ancora a quelli che mentiscono volendo: che non sempre si può, volendo ancora, dire il falso, e a dispetto del labbro che mente esce fuori la verità. E voi di alcun vero, che solo a caso fra mille menzogne vi avvenga di proferire, inorgoglite superbi, mentre all'uomo onesto è cagione di rossore fra mille veri una sola menzogna? Annunziateci con certezza, un fatto prima che avvenga, ed a provare che non fu caso fortuito preditene un altro. Perché inventate i vaticinii a fatto compiuto, o date il nome di avveramento all'accidente? Perché stancate e cielo e terra ed uomini, e pretendete soggettare gli astri lucenti alle insulsissime vostre leggi? Perché volete voi stessi e i figli vostri ridurre in servitù di corpi privi di senso, quali sono le stelle?

Oh la ridicola temerità e l'inaudita impudenza ch'è codesta di vendere a questo modo la libertà del genere umano, e mentre nessun compenso potete averne dagli astri a cui la fate schiava, estorcerne a forza prezzo e mercede dagli stolti e dai miseri che riducete in servitù! Mirabile mercato invero e specioso contratto di nuovo genere stretto con pazzi, che nulla sapendo delle presenti cose e delle passate, si affannano a saper le future delle quali la scienza a tutti è negata. Utile e facile riesce a voi questo giuoco cogli stolti, mentre i più savi si fanno beffe delle vostre ciurmerie. E che avete voi di comune con Marte, con Venere, con Saturno, con Giove? A che andate scavando cotesti nomi già vieti, e con empie o stupide fole tentate d'illuderci? Nomi son questi di tali che già piombarono colle anime nell'inferno, locati in cielo da altri che giù li seguirono colle loro. E voi volete che noi cui fu promesso di salire al cielo, in così fatti nomi poniamo fidanza? Sebbene più vero è forse, siccome disse Virgilio, che ... natura divina, e nome agli astri Primo impose il nocchiero, e non già colui che li creò nel principio de' tempi, e ad uno ad uno li conosce senza chiamarli a quel modo.

E se alcuno pur fosse che al par di lui potesse conoscerli, questi davvero si avrebbe vanto di astrologo da disgradarne Tolomeo, Archimede, Giulio Firmico, o qualunque altro de' più celebrati. Da questi nomi adunque attribuiti dall'uomo a genti dannate poscia all'eterno supplizio, o inventati per aiuto de' naviganti non deve la vita nostra né temere supplizi, né attendere aiuto. Non isperate, o mentecatti, di trarci in inganno: potrete illudere il volgo; a noi son note le insidie vostre, e contro quelle stiamo all'erta ed in armi. E che? vorreste voi per avventura far seguaci noi pure, come voi siete, di coloro, cui per bocca di Sofonia riprende il Signore? Adorano, ei dice, sulle cime de' loro tetti la milizia celeste, la luna, il sole, le stelle, e muovon guerra alla scienza di Dio, degli umani eventi accagionando il sorgere e il tramontare degli astri, e giurano in Dio ed in Melchin adoperandosi a cosa impossibile, qual è piacere ad un tempo al mondo ed a Dio. No: ché ossequiosi in cuor nostro non la milizia del cielo, ma lui che del cielo è regnatore supremo Dio padre onnipotente, Gesù Cristo suo figlio unigenito crocifisso, lo Spirito Santo paraclito procedente dal Padre e dal Figliuolo, Triade santissima adoriamo, e in questa tutta poniamo la nostra speranza, la fede nostra. Lungi da noi ogni materiale superstizione. Obbietto del nostro culto è colui che come noi, così gli astri ed il cielo ha creato e governa, né pel governo di noi ha degli astri bisogno più che di noi non ne abbia pel governo di quelli. Se fosse alcun altro che avesse su noi potere, di buon grado vorremmo ad esso pure inchinarci: ma noi nessuno ne conosciamo da lui in fuori.

Tutto da lui solo deriva quello ch'è bene: il male nasce solo da noi: ché se questo non fosse, non sarebbe degno di pena. Guardatevi dal confondere il creatore ed il creato. Che se vi piace persistere nell'errore vostro, lasciate libero il cammino della verità e della vita a chiunque ha nell'animo di andare a lui che è via, vita e verità. A che mai dirizzate i vostri voti, o ciechi ammiratori e servi vilissimi delle stelle? A quale turpe mercato tentate esporre la libertà dell'animo umano?

Esser non possono guide per noi quei globi di fuoco e quei nomi che furono nomi di peccatori or da gran tempo andati sotterra. Ben altro Giove, cui né conoscere voi volete, né amare, né credere, volge e modera i cieli, e l'opera sua egli stesso governa che la creò. A lui non a Giove vostro con ragione si esclama: nelle tue mani, o Signore, le sorti nostre sono riposte. E non sarà dunque mai a sperarsi di voi che, rimosso lo sguardo da quegli splendori che gli occhi vi abbagliano e vi accecano la mente, a lui solleviate il pensiero di cui sta scritto: Nella tua luce vedremo la luce, e cominciate una volta a credere il vostro Giove non esser nulla, e tutto essere il nostro Cristo; splendere il sole e la luna solo per gli occhi, venir dal creatore la luce che illumina le menti: luce incorporea, divina, che nulla ha di comune con quella onde si vestono i corpi ancorché luminosi?

Non io vi condanno dell'ammirar che voi fate quegli splendori onde la notte ed il giorno si abbella il cielo, e dai quali torna pur tanto grande il vantaggio al mondo, se farneticando ei non deliri: ma le anime rette e fise al sublime loro destino una più bella interna luce rischiara, e da quel raggio illuminati noi non abbiamo bisogno di astrologi ciurmatori e di bugiardi profeti, che dei creduli loro seguaci vuotano d'oro lo scrigno, assordano le orecchie di fole, corrompono cogli errori il giudizio, e la vita presente turbano e fanno triste colle bugiarde paure dell'avvenire.

Queste ed altre cose delle sì fatte contro cotali sciagurati a me non solo abominevoli, ma in odio a Cristo e a' suoi fedeli, io molte e molte volte ho ripetuto; e perché tu non ti meravigli che tornato sulle medesime, e parlando a loro io mi sia quasi dimenticato di te, sappi che ciò mi avvenne perché anche questa città, che immune io stimava da cotal peste, ne ho trovata pienissima sì che ne fui a questi giorni stucco e ristucco. E ben molte altre cose rimarrebbermi a dire: ma sono queste già troppe per una lettera, e giù dalla penna le fece piover lo sdegno che ieri e il giorno innanzi m'invase nel ragionarne. Tornando dunque col discorso onde mossi dico: che chiunque per così fatti timori si turba, ed ansioso di conoscere il futuro interamente a Dio moderatore e Signore di tutte le cose non si abbandona, è come viandante smarrito a notte buia nella sua strada. In divina sentenza cantava Orazio: Provvidamente il sommo nume cura Che notte atra e profonda L'uscite a che verrà l'età futura Ognor prema e nasconda: E se mortale v'ha che si disfide Oltra il dovere, ei ride. Né vogliamo noi pure trepidare e restar sopraffatti dalla paura; ma confidiamoci in Dio, ché altrimenti facendo verremo a scherno, o quel ch'è peggio, in abominio a lui del quale solo l'amore può renderci beati. Diamoci pace, moderiamo le cure, reprimiamo i lamenti, e taciti aspettiamo il comando del Signore provvido e clementissimo: anzi andiamogli incontro, ed affrettiamoci a porgerci obbedienti e sommessi.

Non è la morte che venga a noi: siamo noi che andiamo alla morte. Disse Virgilio: D'ogni mortale è fisso il giorno. Oh! che diss'egli fisso essere il giorno, se noi corriamo pur sempre, e mentre vorremmo sostare, siamo spinti a volo verso quel giorno, che come appena sarà giunto si dileguerà esso pure siccome gli altri quasi appagato della preda che si avrà ritolta? Parrà forse a taluno contraria la sentenza del Salmo, ove parlandosi del peccatore si legge: il Signore che già vede venire il suo giorno si farà beffa di lui: ed altrove: il giorno della sventura è vicino, e i tempi si affrettano ad esser presenti. Ma inutile è il disputare delle parole, quando sulla cosa siamo d'accordo. Scelga ognuno qual più gli piace delle due forme di dire, purché fisso abbia in mente che se vicino e fermo è quel giorno, ad esso dobbiamo con animo intrepido andare incontro, e se a noi viene e si affretta, dobbiamo d'un modo aspettarlo. Che dissi intrepido? doveva dir lieto, specialmente per me, cui poco o nulla quaggiù rimane; e che, mandati già innanzi tutti coloro che mi facevano lieta la vita, sento venutami a schifo la solitudine che pur tanto lodai, e abborro ormai da questa terrena dimora fatta a me inutile e forse brevissima.

Forse per me quel giorno non è punto lontano. Anzi, poiché non posso di quel che è certo lasciarmi aver dubbio, non basta il dire non è lontano: debbo dire è vicino, come disse il Salmista. E come dire altrimenti? Se chi sta sulla soglia della vita non lo ha lungi da sé, a chi ne percorse buon tratto potrà essersi fatto lontano? E quel che ti stava d'appresso in sul mattino, poiché a quel segno corresti senza fermarti mai, si troverà più lungi da te sul fare della sera? E' può ben essere, né punto sarebbe o raro o strano che quello cui la speranza ci addita a tempo remoto, avvenga oggi stesso. Or chi può dire che ottima sorte per noi non sia quella che umanamente parlando ci sembra pessima? e che quello, onde tanto fummo in timore, dobbiamo vergognarci non solo di aver temuto, ma pure di non averlo sperato, allora quando per noi sorga il giorno che sperder deve la nebbia de' nostri errori, e agli occhi nostri risplenda la luce che ci è negata in questo carcere tenebroso?

Ma basti di tal materia, intorno a cui e molto io dissi, ed altri potrebbe dire più assai di me. Né tempo è questo, né luogo a più lungo discorso, e troppo già lungo è questo ch'io tenni. Sola una cosa voglio qui aggiungere perché tu cessi di stare in pena per me. Quantunque per tutt'altra cagione da quella che tu mi mettevi innanzi, sappi che io già feci secondo il tuo avviso: e partito da Padova, ove già regna la peste, sono venuto a Venezia, non per fuggire la morte, ma per trovare, se mi sia dato, infine ch'io viva, in qualche luogo riposo.

Addio.

 

 

 

Non abbisogna di dichiarazioni questa lettera la cui data è fatta certa dalla menzione del cominciar della peste nella città di Padova, noto essendo per le istorie che questo avvenne nel 1362. E che appunto nella state di quell'anno il Petrarca da Padova si tramutasse a Venezia avemmo già più volte occasione di dirlo nelle nostre Note alle Familiari, e specialmente in quella alla lettera scritta al Benintendi, che nella nostra edizione è la XLIII delle Varie.

Francesco Bruni (Firenze 1315 - 1385) è stato segretario pontificio di Urbano V, Gregorio XI e Urbano VI, amico e corrispondente di Francesco Petrarca, Boccaccio e Coluccio Salutati.