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lettera VI  a Donato

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

 

 

LIBRO OTTAVO

LETTERA VI

A DONATO APPENNINIGENA GRAMMATICO

 

Duce quidem nuper

 

Si congratula con lui della vita conversa in meglio, e lo conforta a studiare nelle lettere sacre.

[Pavia, 10 giugno 1366]

 

 

 

Scritte da te in diversi giorni, e non so se ugualmente spedite, mi vennero ricevute due lettere ad un tempo, e come appena con grandissimo piacere io l'ebbi lette, mi sentii voglia di scriverti un mondo di cose: ma le mie tante faccende mi forzarono a deporne il pensiero. Trattasi in una di esse di domestici affari, e a quella darò, come soglio, risposta a parte, bastandomi per ora quello che voglio rispondere all'altra, nella quale mi parli dello stato tuo. Dico di quello stato che veramente è tuo, ed unicamente tuo, fuori del quale ogni altra cosa che tu possieda è passeggera, caduca, e dipendente non dirò dall'arbitrio della fortuna (perché non voglio entrare in contraddizione con me stesso), ma certamente non dipendente da te.

Tu mi parli dello stato dell'anima tua, e con infinita mia gioia sento da te come tu l'abbia purificata colla penitenza e colla salutifera confessione. Intorno alla quale molte sono le cose discorse da santissimi personaggi, ed alcuna potrei dirne pur io, se come il buon volere, così ne avessi anche il tempo. Farò peraltro quello che sogliono tutti gli affaccendati ed i poveri, i quali non potendo agli amici soccorrer dell'opera, li aiutano di consigli.

Ti piaccia dunque a me venire per poco. Non io di lontano, come quella misera nutrice presso Stazio fece coi duci Argivi, ma avendoti vicino voglio additarti un limpido fonte di acque che zampillando s'innalzano alla vita eterna: né temo che il serpente mi offenda, perché a me non fa paura un Archemoro, ed hommi un antidoto infallibile nel mio disprezzo. Quello che darti non posso di mio, ti mostrerò d'onde possa tu prendere, conducendoti a due beatissimi spiriti diletti a Dio che in terra da reciproco amore, e in cielo congiunti dalla carità sempiterna io pure mi piaccio e scrivendo e parlando unir sempre insieme: Ambrogio, dico, ed Agostino, anime elette ed api operosissime fabbricatrici di favi immortali e di mèle celeste. Scrisse ciascun di loro un trattato intorno a questa materia, cioè a dire la penitenza, né v'ha di quelli altro più utile a dirigere il corso di questa vita, e ad avvalorare la speranza dell'altra. Un'altra opera compose Agostino intitolata le Confessioni e divisa in tredici libri. De' quali ne' primi nove confessa tutti gli errori ed i peccati da sé commessi fin da quando succhiava fanciullo il latte materno: nel decimo espone quello che in lui rimane tuttavia delle antiche colpe e descrive le condizioni della sua vita presente: negli ultimi tre manifesta i suoi dubbi, e spesso ancora, per ciò che riguarda le divine scritture, la sua ignoranza.

Per la quale confessione, se ho a dir quel che penso, egli si pare fra tutti i dotti dottissimo. Or bene: se tu vorrai prendere in uso di leggere con animo attento e devoto questo libro, io ti sto pagatore che mai non ti verranno meno pie lacrime e salutari. E perché il consiglio di uno che tu ami maggiormente t'infiammi nel desiderio di leggerlo, sappi che per esso io feci il primo passo nello studio della sacra letteratura. Preso da soverchio amore per la profana, falsamente giudicando di me stesso, pieno, il confesso, di giovanile baldanza, e come ora chiaramente conosco ed intendo, nella mia superbia confermato dalle diaboliche suggestioni, tenni le sacre lettere a vile, e come rozze, ineleganti e a ragguaglio delle profane da non aversi in alcun pregio, le disprezzai. La lettura di questo libro produsse in me tal cambiamento, che se da quei vizi, come pur vorrei, interamente non mi corressi, cominciai d'allora a non avere più a schifo le sacre lettere, indi a gustarle, e finalmente così me ne piacqui che quella incolta semplicità mi allettò, e mi costrinse ad applicarvi gli occhi e la mente. Perché posi in esse il mio amore, ed ammirandole mi persuasi che meno di fiori per avventura ma assai più di frutto dallo studio di queste si raccoglie che non da quello delle altre per lo passato a me predilette.

E strana cosa per vero dire sarebbe stata che nessun mutamento in anima cristiana avesse operato l'eloquenza di Agostino, se tanta in lui fu capace di produrne l'Ortensio di Cicerone. Se in altro modo non ti vien fatto di procacciarti quel libro delle Confessioni, te ne manderò io una copia, ed entrerò così a parte del frutto che tu ne trarrai. Credo però che più da vicino potrai trovarlo presso quell'insigne filosofo, e vero dottore di Teologia, del quale mi parli nell'altra tua lettera, o presso il fratello di lui, compagno ad esso per professione di vita e per merito di dottrina, luminari ambedue della religione che regola e nome ha da Agostino, e doppio decoro della città di Padova, de' quali l'amore e la stima non da mio merito alcuno, ma dalla paterna loro bontà procacciatami, mi sono largo compenso ai sibili ed ai morsi di tante vipere, che ogni giorno più, e d'onde meno avrei creduto possibile, comeché punto da me non provocate, a lacerar la mia fama rabbiosamente si avventano. Ma di questo altre volte e spesso (confessarlo mi duole) troppo lunghi fui costretto a fare i lamenti: qui spontaneo mi cadde giù dalla penna, né seppi reprimere l'indignazione che me l'ebbe dettato. Comunque pertanto alle tue mani pervenga quel libro di cui diceva, tu potrai, se ti piaccia e ti sembri conveniente al soggetto, scrivervi uno di quei distici che io per letterario esercizio soleva apporre ai miei libri: Leggi devoto, se col pianto vuoi Lavar le macchie de' peccati tuoi. E basti di questo.

Di cose alla eterna salute utilissimo scrissero ancora altri molti, mirando con i loro scritti non ad arrecare scienza, che spesso è cagione di stolta superbia, ma ad infiammare le anime di umiltà e di devozione, quali sono le Collazioni, e le Vite de' Santi Padri. Ed havvene alcune non di sola pietà, ma di eloquenza, ancora tanto fornite, che mentre grandemente giovano, grandemente pure dilettano. Tale è la vita di Antonio scritta da Atanasio, la quale molti che la lessero mosse ad imitarlo, onde non è da meravigliare che dal solo sentirla ritraesse gran profitto Agostino, siccome narra egli stesso nel libro ottavo delle Confessioni. E son pur tali le vite che dettarono Martino di Severo, e Girolamo d'Ilarione, di Giovanni Egiziaco, e di Paolo primo eremita, le quali punto non meraviglio in sentire che assai ti piacciano: perocché in esse non so delle due qual sia maggiore la pietà o l'eloquenza. Né sono da dimenticare fra i libri di questa spezie quei due di Giovanni Crisostomo, de' quali l'uno ha per titolo Il risorgere de' caduti, e l'altro La compunzione del cuore.

E poiché lungo sarebbe il noverarli, ti basti che tutti e questi ed altri troverai quando tu voglia nella piccola mia biblioteca. Di questo cibo vorrei che tu ti pascessi, e che in questi trovassi piacere, perocché ti sto pagatore che a petto a questi sono frascherie gli aforismi d'Ippocrate come rimedio alle infermità, e documenti di vera salute. Né ti rattenga l'indugio posto da te nel metterti per questa via. Quando si tratta di convertirsi al bene è meglio tardi che mai, anzi non è mai tardi per fare il bene. Perocché sebbene l'indugiarsi apporti pericolo, cessa questo per lo apprestar del rimedio, e se il rimedio è efficace, non è mai tardo, e per esso finisce ad un tratto e l'indugio e il pericolo. Rammenta le parole dei tragico: Alla virtù non è che sia mai tardo Il ritorno: e del fallo in cor chi accoglie Penitenza, quegli è quasi innocente.

Pietosa sentenza, e degna ancor di un cattolico. Che poi dal mio consorzio e dall'amicizia mia a te provenga qualche vantaggio per l'acquisto della scienza, per l'esercizio della virtù e per questa mutazione di vita santificata colla confessione e colla penitenza, vorrei che fosse vero siccome dici, e siccome, ingannato dall'amore che mi porti, forse ancora tu credi. Ben so peraltro che solo di qualche schietto e fedele consiglio io rare volte ti ho potuto aiutare. Stanno negli animi nostri quasi coperte dalle ceneri del corpo mortale, e nascoste dal velo di questa carne alcune celesti scintille, che suscitate dal soffio di Lui che spira dove più gli piace, avvalorate dalla speranza e dalla divina carità facilmente divampano in grande incendio, specialmente in petto a coloro che ben comprendono lo stato ed i pericoli della vita presente, fra i quali certamente, o amico, ti annovero. Or tu vorresti me far partecipe dell'opera di Dio: e piacesse al Cielo che a te e a tutti i miei io potessi essere utile o colla dottrina o coll'esempio. Ahi! però che né per l'una né per l'altro io son buono da nulla, e per lo secondo temo anzi esser di danno: e se, sgombrata la nube onde amore acceca gli occhi più perspicaci, vorrai tu pure ficcar lo sguardo dentro le tenebre che ti fan velo, vedrai pienamente esser vero questo ch'io dico.

Né creder già che del dirlo io mi piaccia: assai di miglior grado lo tacerei, e vorrei potermi vantare del contrario. Ma alla verità non si resiste: e da una parte la forza di questa, dall'altra l'amor che ti porto mi costringe a parlare e ad esser sincero, affinché mentre di te stesso rettamente tu giudichi, il mio silenzio non ti tragga a giudicar falsamente di me. Quello che da ultimo per eccesso di amorevolezza scrivesti, esserti l'amicizia mia tornata a pro pur negli averi, non tanto a meraviglia, quanto a riso mi mosse. E come potrei alla tua borsa aver giovato io, che se direttamente non ti tolsi danari, ti rubai il tempo, ti distrassi dalle cure e dalle occupazioni con cui i danari si acquistano, e dal consorzio delle popolose città ti costrinsi a seguirmi nella solitudine delle selve, e tutti i giorni, quasi fossero festivi, ti obbligai a passare nell'ozio innestandoti la non curanza, la parsimonia, la poltroneria e tutta insomma la mia gelata inerzia intorno alla domestica economia? In verità non so se tu voglia la baia de' fatti miei, o se tu abbia chiappato un bel granchio nel rivedere tuoi conti. Posso dirti che alla mia scuola nessuno si è fatto ricco, e che alcuni divenuti per essa poveri più non vorrebbero, quand'anche potessero, tornar quei ricchi che furono. E se duriamo a lungo la vita insieme, a lungo dico quanto si può fra mortali, io temo forte che tu di me debba un giorno dir quello stesso che sai di Diogene Cinico aver già detto il discepolo Antistene: «Di ricco ch'io m'era mi ha ridotto mendico, e da un palazzo mi trasse ad abitare dentro una botte.»

Ma ricco o povero che tu sia, bada a star sano, e a ricordarti di me.

Di Pavia, a' 10 di giugno.

 

 

 

NOTA

La lettera non abbisogna di dichiarazione, essendone per sé chiarissimo il contesto e l'argomento. In quanto pregio avesse il Petrarca le opere di Sant'Agostino, e specialmente il libro delle Confessioni, appare manifesto dalla frequenza con cui ne cita i passi, e ne espone le dottrine. Se il lettore brami sapere chi siano i due dottissimi fratelli Agostiniani di Padova, dai quali il Petrarca diceva a Donato che si potrebbe procacciare il libro delle Confessioni, e della cui stima egli si teneva tanto onorato, dirò ch'io credo fossero il padre Bonaventura Badoario da Peraga, ed il padre Bonsembiante di lui germano, de' quali parleremo più di proposito nella Nota alla lettera 14 del libro XI di queste Senili.