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lettera III  a Francesco Bruni

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

 

 

LIBRO SECONDO

LETTERA III

A FRANCESCO BRUNI

 

Quanta vis esset

 

Si congratula coll'amico eletto a Segretario di Urbano V. - Lodi di questo Pontefice. - Regole a scriver bene. - Digressioni sull'arte nautica. - Dei critici invidiosi.

[Venezia, 9 aprile 1363]

 

 

 

Nota e provata da mille fatti è la forza delle parole cui la eleganza e la ragione aiutino di ben composta disposizione e di aggiustate sentenze. Tanta non è la robustezza nelle braccia di Milone e di Alcide che di quella più potente non si abbia a reputare la facondia di Cicerone: ché se con grande sforzo erano quelle capaci di sollevare una mole inerte ed un ignobile peso, questa a sua voglia moveva e dirigeva gli animi umani, fra tutte quante sono le cose a guidare più malagevoli, e di natura nobilissima e poco meno che divina.

A tali pensieri mi richiamava la lettera tua, la quale come appena ebbi letta, io mi sentiva quasi da opposte forze sospinto, trascinare violentemente a contrarie sentenze: per guisa che mi pareva dovermi teco ad un tempo congratulare e condolere. Mi fu cagione a letizia l'udire che sano e salvo fossi giunto alla mèta, e che quale la speravi avessi trovata benigna e clemente l'accoglienza del santo Padre: ché nulla tanto è spiacente quanto il dileguarsi di una concepita speranza. Della sua umanità, del suo costume soave, dell'angelica sua conversazione oltre la fede che io ne aveva a molti che me ne scrissero, e specialmente a te, erami già pegno certissimo il nome di Urbano: conciossiaché la volontaria scelta di un nome è a parer mio una manifestazione non punto equivoca dell'interno proposto. Ottima invero, a Dio gratissima e agli uomini, e tale che non può fallire a mèta felice è la strada per cui egli si è messo, a molti sconosciuta, abbandonata da molti, ma a lui ed alla sua condizione più di qualunque altra conveniente.

mperocché sebbene al mondo non sia personaggio più eccelso, più nobile, più venerando del romano Pontefice, a cui non è alcuno che sulla terra possa venire a paraggio, egli però a tanto onore sollevato, e sottoposto ad un tempo a tanto peso, pieno di reverenza e di stupore parer si deve modello di pietà e di cortesia, e porgersi umile a tutti e benigno più ancora che per lo innanzi non fece. E di questo ch'io dico potranno forse meravigliare coloro che di ogni umana prosperità inorgogliscono; non egli che ben si rammenta, e col fatto dimostra di sostener sulla terra le veci di colui che diceva: Imparate da me che son mansueto ed umile di cuore. Chè turpe sarebbe ed assurdo veder superbo il Vicario, ed umile il suo Signore. Non altre testimonianze pertanto io mi aspetto di lui, oltre quelle che mi recarono la fama e le tue lettere.

E qual vorresti d'animo invitto e di fermissimo cuore segno più certo del non cedere alle minacce, e del resistere alle lusinghe della fortuna? E da qual cosa più grande vorresti prenderne esperimento che dalla maggiore di tutte? Esser non può cosa al mondo da cui si lasci commuovere chi vedutosi all'apice di ogni umana grandezza stette saldo ed immoto. Oh! nobilissimo l'animo che a così fatte prove resiste. Lui felice per le sue virtù, felice il mondo che gli obbedisce, felice te che lo servi, e lui più per la virtù sua che per l'alto suo stato, te più felice per questa servitù che non saresti se fossi libero! Talora la libertà è travaglio, il regno è servitù: tal'altra la servitù è regno: ond'è ch'io teco mi congratulo per la tua fortuna e per a tua gloria. Che se per la fatica ti compatisco, mi son ragione a confortarti la robusta tua età, la nobiltà ed il merito delle fatiche, l'eccellenza di lui che deve darne giudizio, nella quale il maggior bene consiste dei felici ingegni che aspirano ad alti destini. Sotto la sua scorta pertanto e col favore del Cielo adempirai qualunque siasi il tuo compito con indefessa e virile alacrità, memore della sentenza di Flacco: Senza molto sudar nulla si ottiene. Ricco di fede, destro dell'animo, nulla troverai difficile ad intraprendere, né malagevole ad eseguire. La fede tramuta anche i monti, e a chi fermamente vuole non è cosa che non riesca.

A te non manca né l'arte né l'ingegno. Se qualche cosa d'inusitato e di nuovo a te si presenti, col vigore della tua mente penetrerai nelle sue ragioni, e da tutti i lati e sotto tutti gli aspetti volgendola, esaminandola, considerandola t'uscirà di mano rifatta migliore che non vi venne. Da uno stesso masso cavandole scolpivano statue diverse Fidia e Prassitele, Lisippo e Policleto. Non diffidar di te stesso, e ponti all'opera. Innesta il nuovo sul vecchio: se questo ti venga fatto, avranno le tue cose gran pregio. È proprio de' pusillanimi l'attenersi servilmente all'antico. Erano uomini anch'essi i primi inventori. Se le orme stampate dai vecchi c'impediscono di tentare ogni nuovo cammino, siaci di vergogna e di sprone l'esempio delle donne, alle quali questa lode principalmente è dovuta: perocché fu una donna che prima inventò queste lettere di cui ci serviamo. Né ci rattenga quella volgare e comune sentenza nulla essere al mondo, nulla potersi dire che sia nuovo. So che lo lasciarono scritto Salomone e Terenzio: ma quanto pur non si accrebbe dopo di loro il tesoro delle filosofiche discipline, lo splendore della poesia, il campo della storia? Quante arti novelle non furono trovate, quante leggi a genti diverse non si promulgarono, quanto non si aggiunse di gentilezza ai costumi, di senno alla pratica della vita civile, di dottrina alla scienza dell'uomo e di Dio?

Non v'ha parte di civiltà, di dottrina così perfetta e così piena, che nulla ad essa si possa più aggiungere. Come si piace l'infermo del sorgere in piedi e dello sforzarsi all'esercizio delle membra, così l'animo forte e generoso si diletta e si nutre della fatica. Medita prima da solo a solo ed in silenzio. Le meditate cose chiudi poi nella memoria, e vietando loro l'uscita guardale, osservale, e fanne per ogni lato diligentissimo esame. Quindi a poco a poco chiamale sulla soglia delle labbra, ed aiutate dalla penna escano fuori senza che alcuno le veda. Si soffermino alquanto di tratto in tratto quasi pensose di se medesime, e lentamente si seguano tra la fidanza ed il dubbio. Mercé del dubbio sarà circospetta, sobria, modesta l'orazione: la renderà la fidanza sciolta, copiosa, eloquente, magnifica. Quando l'intero concetto della tua mente avrai finito di scrivere fatti a rileggerlo ad alta voce, e attentamente ascoltandolo, non come autore ma come giudice, chiama a consiglio l'orecchio e la mente, e pensa qual giudizio ne faresti se scritto lo avesse un tuo nemico. E che sai tu se il tuo scritto possa o no capitare nelle mani de' tuoi nemici?

Di quali? mi chiedi. Degl'invidi, io ti rispondo, che alla virtù perpetuamente fan guerra. Appena comincia alcuno a dar opera per sollevarsi alquanto da terra, ecco farglisi incontro una folla di nemici, né già soltanto di quelli che pure aspirano all'alto, ma di quelli altresì che sdraiati si giacciono e intorpiditi dal sonno; anzi sono questi i più fieri; perocché tra tutti i vizi l'invidia è quella che maggiormente all'inerzia si accoppia, e naturalmente nemica di ogni letizia abborre dalla luce del giorno, e pone suo nido ne' cuori più vili e più abbietti. Vedi tu dunque quanto grande sia dello scrivere la fatica, e il pericolo. Ma non per questo dobbiamo lasciare di scrivere, ché di noi si direbbe come si disse del villano e del lupo averci l'invidia tolta la voce. Scriviamo pur sempre; ma siano tali gli scritti nostri che chi si prova a morderli li senta duri, scabrosi, acuti, pungenti per guisa che rotti ne porti i denti, e sia costretto a confessare verissima e degna di sovrano perspicacissimo intelletto quella sentenza: essere gl'invidiosi carnefici di se stessi. E questo ci verrà fatto di ottenere se delle cose nostre saremo noi stessi giudici retti, imparziali, severi, esaminandole come se noi non ne fossimo autori, e spogliandoci di ogni predilezione per loro.

Imperocché non come si ama un figlio deforme sol perché è figlio, amar si possono le scritture sol perché nostre; né di queste si deve aver rispetto all'autore, ma solo guardare quali esse siano per se medesime, cioè a dire se vere, se eleganti, se nobili. E in questo esame è da por mente che non ti tragga in inganno l'apparente bellezza di una frase, di una parola da te trovata o accattata da altri. Avvi taluno di cui sul labbro ogni parola è soave: fa' che la dica un altro, e ti parrà avere tutt'altro suono. Deve chi scrive porre ogni cura nel cercare la eleganza e nell'evitare la rozzezza della lingua: ma se vuole esser certo di piacer sempre, badi alle sentenze: ché se queste son giuste, nobili, acconce piaceranno nella loro semplicità, e agevolmente si presteranno a ricevere conveniente adornamento. E non ti perder dell'animo: perocché molto puoi far da te solo nell'una cosa e nell'altra, e potrà pure giovarti il chieder consiglio prima a pochi, quindi anche a parecchi che tu conosca, meglio che tuoi, amici del vero: sebbene ove siano non della tua fortuna, ma veramente di te amici, ti si porgeranno pur essi consiglieri veraci e fedeli.

Così benché di primo getto povere e incolte, verranno in pubblico nitide e terse le tue scritture, e a questo modo adoperando, sentirai divenirti a poco a poco più leggera la fatica, finché fatto l'abito allo scrivere, non più fatica ne sentirai, ma diletto.

Le quali cose dicendo io fo ragione non tanto d'insegnarle a te quanto di ribadirle in mente mia; e perché volli farne mio pro, pregoti di avermi per iscusato, se forse di soverchio mi ci trattengo. La esperienza, dice Aristotele, è la madre dell'arte: e come di tutte è questo verissimo, così specialmente in quella si dimostra, che qui m'ho sotto gli occhi, voglio dire la nautica, alla quale, dopo la giustizia, va debitrice della mirabile sua prosperità questa città famosa, nel cui seno quasi in porto tranquillo, fuggendo le procelle del mondo, mi sono testè riparato. Imperocché tu ben sai quanto dai greci, e dai poeti nostri fu celebrata la rozza e sola nave, che condotta da semidei mosse dalle tessaliche sponde, e tra le strette e quasi contigue rive dell'Ellesponto per l'angusta Propontide e il Tracio Bosforo spinta nel Ponto Eusino, tratta dalla speranza di gloria immensa e di lucro, quasi a nuovo mondo approdò a Colco, e parve cosa degna della meraviglia e del plauso universale che avesse toccato l'alveo del Fasi.

Vedi miracolo della novità. Cominciava così dalla esperienza a nascere l'arte, ma stava ancor nella cuna. Crebbe indi a tale che con ragione poteva dirsi dover nascer da Teti chi fosse per riuscire più grande del padre. Che se in tutte le arti questo avvenne, in nessuna quanto in questa fu chiaro. Vedi dal lido italico sciogliere adesso innumerabili navi vuoi nel più fitto inverno, vuoi quando mutabile ed incostante la primavera più della fredda passata stagione che della futura estate ha sembiante. Le une ad oriente volgono la prora, le altre ad occidente, queste incontro a borea, ad austro quelle, e dirette verso le libiche Sirti, qual per lasciarsi alle spalle l'estremo confine di Gade e di Calpe, quale per correre oltre i due Bosfori, e Colco, e il Fasi, non in traccia, siccome un giorno, del famoso aureo vello, ma dall'avidità veramente dell'oro sospinte fra tante vicende e tanti pericoli in terre remote ed in lontanissimi mari. Quindi nelle tazze britanne vanno a spumare i nostri vini, il nostro mele è recato a lusingare il gusto degli Sciti, e, difficile a credersi, le legna dei nostri boschi si portano agli Egizi ed agli Achei. Quindi ai Siri, agli Armeni, agli Arabi, ai Persi da noi spedito giunge l'olio, il lino, lo zaffrano, ed a vicenda da loro vengono a noi merci diverse.

Ora voglio costringerti a vegliare un'altra ora in mia compagnia. Alta era la notte, tempestoso il cielo, ed io già stanco e vicino a cedere al sonno era giunto scrivendo fin qui, quando un improvviso vociare di marinai mi percosse l'orecchio. Memore di quel segno udito altre volte, sorgo frettoloso, e salgo alla parte più alta di questa casa che prospetta nel porto. E guardo, e vedo. Oh! quale spettacolo misto ad un tempo di pietà, di meraviglia, di paura e di diletto. Qui sulla bocca del porto presso alle sponde marmoree, e ferme sulle ancore avevano svernato alcune navi, che si agguagliavano per mole al vasto palazzo da questa libera e liberale città concedutomi ad uso, e sorpassavano di non poco colle cime delle antenne l'altezza delle due torri angolari che lo fiancheggiano. Ebbene: la maggiore delle due in questo momento mentre coperte dalle nubi sono tutte le stelle, squassate dal vento tremano le mura, e mugghia di sotto pauroso il mare, sciolse dal lido e si pose in viaggio.

Le arrida il cielo. Stupirebbero al vederla Giasone e Alcide: e Tifi sedendosi al timone sentirebbe vergogna del nulla ond'egli venne in tanta fama. Se tu la vedessi, diresti non esser quella una nave, ma una montagna natante sul mare, sebbene gravata d'immenso carico gran parte del suo corpo essa nasconda tra i flutti. Deve il suo corso ella spingere fino al Don, oltre il quale navigando nel nostro mare non si procede: ma di quelli che porta seco molti, giunti che colà siano, proseguiranno il viaggio, né fermerannosi prima che superato il Gange ed il Caucaso, agl'Indi, agli ultimi Seri, ed all'Oceano orientale non siano pervenuti. Ecco dove l'insaziabile cupidigia le umane menti sospinge. Pietà mi prese, il confesso, di quegl'infelici, e compresi che a buon diritto il poeta miseri chiama i naviganti: né più potendo cogli occhi seguirli fra le tenebre, tutto commosso nell'animo ripresi la penna fra me stesso esclamando: oh! quanto cara agli uomini, e quanto a un tempo in poco conto da loro è tenuta la vita. Ed eccoti, o amico, narrata una storiella non necessaria a questa lettera, e che non punto cercata mi venne innanzi per caso, ma pur si rannoda a quello di cui dianzi io ti stava scrivendo. La esperienza, io diceva, è madre dell'arte, e l'uso la cresce, la nutre, la perfeziona, sì che si avvera quello che Afranio insegna, essere la scienza delle cose figlia dell'uso e della memoria: sono sue parole, e tu le rammenti: Ho padre l'Uso, e madre la Memoria. Sapienza son io: Sofia per Greci.

Ed a queste o altrettali cose si par che pensasse Agostino quando definì essere l'arte la memoria di cose sperimentate ed approvate. Or dunque imprendi tu pure a far di te stesso esperimento, e sia così spesso che la esperienza si cambi in uso. Piena così la memoria ti darà frutto di eletti parti, e acquisterai facilità di fare, fidanza e compiacenza in te stesso, e gloria. Non mancherà d'infastidirti il ronzio molesto sì, ma comune, degl'ingegni plebei: e tu sprezzandone il vano rumore, trionferai della invidia colla virtù, collo studio, colla dottrina. Ma gli occhi fatti gravi dalla vigilia, le stanche dita, e l'appressarsi dell'aurora conciliatrice del sonno m'impongono quella fine da cui vigilante ancora, e non sazia del lungo colloquio rifuggirebbe la volontà. Tutto questo io ti scrissi per rispondere in qualche modo a quello che tu mi dicevi di certi cotali che costì non di te solo, ma di me pure e del mio ingegno si piacciono a proferir giudizio. Non ti sdegnare per questo, io te ne prego: non ti dar briga per essi, non ti curare del fatto loro: perderesti inutilmente opera e tempo: procacceresti a te nemici, né a me li torresti, anzi li renderesti più accaniti e più fieri. Fatale, se il dirlo è lecito, ed antichissima codesta peste è per me. Son molti quelli che si fan giudici de' fatti miei, ed io non solamente non li conosco, né mai li volli conoscere, ma pure indegni li credo di essere conosciuti, e non ti nego che mi meraviglio nel vedermi giudicato da loro. Né creder già che solamente costì questo mi avvenga.

Mi accade lo stesso nella patria nostra comune, e coi nostri concittadini, giudici anch'essi franchi ed arditi più assai che giusti ed assennati. E veramente io non so perché di questi cotali sempre ed in ogni luogo si avveri che tanto più a giudicare degli altri son pronti ed audaci quanto più sono essi medesimi ignoranti. Forse la ragione n'è questa: che il poco sapere impedisce il molto vedere, e il vuoto de' loro cervelli li fa leggeri e corrivi, per modo che brevissima e speditissima è la via che li conduce a proferir la sentenza. Havvene forse ancora un'altra, ed è questa. La fama, o che vogliamo dire la celebrità del nome, la quale per molte altre vie, e massimamente per le armi e per le lettere si procaccia, cosa è in se stessa lieve e caduca: pur d'essa avviene quello che di tutte le altre cose del mondo: ciò è che a torre e a danneggiare l'altrui nessuno è mai più destro e più pronto di quelli che nulla hanno da perdere. Del resto contro l'improntitudine dei giudizi che vengono dalla mia patria scrissi ora è poco ima lunghissima lettera. Contro cotesti che muovono di costà ho fatto proposto di non dir nulla, e di sopportarli in silenzio per ossequio a colui del quale si debbono rispettare non che i familiari, anche i cani, non solo se scherzano, ma ancora se mordono. E poi, generalmente parlando, sempre si convengono tollerare in pace gli altrui giudizi: conciossiaché se giusti siano, il rifiutarli è superbia, e debolezza è il temerli, se ingiusti. Corta vita ha la menzogna, e avviene sovente che la critica ingiusta, sebbene artificiosamente composta, torni a lode del criticato ed a solenne infamia dell'autore. Coprir si può ma non estinguere il lume del vero: ché vive ancora quando spento si crede, e tra le addensate nubi aprendosi il varco inaspettatamente rifulge.

Perché quantunque io talvolta mi adiri, e di non lieve molestia mi sia il vedermi alla sentenza di tanti e tali di me indegnissimi giudici sommesso, alla perfine poi mi vi acconcio, e sol che non nasca da odio o da invidia, ogni giudizio m'è buono. Resta da ultimo che io ti esorti, quantunque alla tua dottrina ed alla tua pietà sia superfluo il consiglio, che per tutte le cose tue mai non confidi in te soltanto, ma debba sempre dall'alto chiedere e sperare aiuto. Il basso sentir di te stesso, la costante memoria della fralezza mortale ti farà degno de' divini conforti, e dell'assistenza celeste. Non sperare al buon esito di qualunque intrapresa artificio più industre, mezzo più efficace di questo. Siegui il fidato consiglio di un amico più vecchio di te, e vivi sempre di me ricordevole.

Addio.

Di Venezia, al 9 di aprile.  

 

 

Scritta ai 9 di aprile poco dopo l'assunzione di Urbano V al Pontificato supremo, questa lettera è certamente del 1363. Avendo noi già detto che il Bruni fu eletto Segretario del Papa, ognuno intende come alla pratica di quel nobile officio ben si contengono le istruzioni e i precetti che gli dà il Petrarca sull'arte di scrivere.