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Percorso : HOME > Scriptorium > Petrarca: Seniles > Lettera I a Giovannilettera I a Giovanni da Padova
Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova
LIBRO DECIMOSECONDO
LETTERA I
A GIOVANNI DA PADOVA MEDICO INSIGNE
Obtulisti mihi
Rigetta e confuta il consiglio che davangli i medici di non digiunare, non mangiar frutta, e non bere acqua pura.
[Colli Euganei, 13 luglio 1363]
M'hai tratto, amico, a scherzare in mezzo ai guai. Scherza in Cicerone un uomo egregio in punto di morte: io non ancora arrivato a quel punto, ma oppresso da una grave e multiforme infermità, da cui per avventura non sarà gran fatto lontana la morte, verrò teco scherzando. Non è mio costume il disputare di cose che non conosco, siccome sogliono pur molti, che volendo apparire sapienti, mettono allo scoperto la loro ignoranza e mostrando, come il Comico dice, di tutto comprendere, non capiscono nulla.
Io che mai non attesi né punto né poco alla medicina, e che anzi, favorito finora dalla natura di robustissima salute, trascurai come inutile per me quello studio, e non solo l'arte in se stessa, ma i suoi seguaci eziandio trattai con disprezzo, da pochi in fuori che mi furono cari perché veramente degni del nome di medici, potrei oggi io venire a contesa intorno a cose di medicina con uno che dei medici dell'età nostra o è primo, o certamente è fra i primi? Non è dunque una disputa, ma sebbene uno scherzo questo in cui teco ora mi metto, affinché per un momento tu rida delle mie opinioni, ed io mi dimentichi almeno per poco degl'incomodi e de' malanni che, come dice il Satirico, congiurati a mio danno mi assalgono e mi circondano da tutti i lati. Piena di affetto e di premura per me e degna al tutto della tua medica dottrina è la lettera che tu m'hai scritta, alla quale, credo io, lo stesso Ippocrate non saprebbe togliere né aggiungere un iota.
E come potrebbe mai alle sentenze tue contraddire egli al cui fonte tu le attingesti, se a me profano nella scienza, e molte volte di quella dispregiatore parvero tanto giuste che ne rimasi persuaso e convinto? Tu dici che a vantaggiare nella salute io dovrei, se non totalmente, almeno in parte mutare il mio sistema di vita, e specialmente il mio vitto. Ed io di buon grado mi acconcio al parer tuo: perocché secondo l'età diverso si conviene usare l'alimento tanto per l'anima quanto pel corpo; e come degli studi così dei cibi è da dirsi non esser buoni per i vecchi quelli che propri son de' fanciulli. Così dispose natura nel suo magistero che ad ogni parte della nobilissima sebbene caduca e fragile sua fattura, diverso secondo la diversità dei tempi si convenisse apprestare il nutrimento. E come il saggio architetto le parti di una casa dispone in guisa che queste per l'inverno, quelle servano per la state, ed altre per le rimanenti stagioni dell'anno, così accorta e solerte la natura distinse nell'uomo età da età, ed a ciascuna diversamente provvide secondo il bisogno. Comincia la primavera della vita nell'infanzia, e nella puerizia, a cui tiene dietro l'adolescenza, seconda parte della stagione medesima vicina alla state.
E sebbene nessuna età sia di questa più leggera, più improvvida, e più soggetta agli stimoli della voluttà, lei segue quell'altra che veramente a me pare doversi dire l'estate, cioè la gioventù, meno florida ma più robusta, meno instabile ed esposta alla furia de' venti, ma più bollente per fuoco di concupiscenza e di sdegno. Appresso le viene questa più matura età nostra detta vecchiezza, che secondo Agostino comincia a sessant'anni, quantunque altri prima, ed altri più tardi ne stabiliscano il principio: e simile all'autunno è di tutte le altre più placida e più tranquilla, come quella in cui spento dagli anni e dalle virtuose abitudini il fuoco delle passioni, meglio si possono raccogliere i frutti maturati dal tempo trascorso. Ultima viene la senile decrepitezza, pigra, inerte ed avida di calore e di riposo, la quale peraltro alcuni nobili e fervidi ingegni d'inusitate fiamme rinfocolarono. Ma di questo sarebbe troppo lungo il discorrere. Or come a ciascuna di queste età si convengono diversi gli studi e gli esercizi, così è da dirsi del nutrimento e de' cibi: e se per le tre prime già me lo provò la esperienza, per l'ultima non me ne lascia la ragione aver dubbio. Vedi bene come teco io m'unisco a sostener la tua causa, e gli argomenti da te brevemente accennati io stesso svolgo ed amplifico. Or prima che, proseguendo, tutto ti esponga quel che mi sono proposto, soffri che io premetta una protesta a me dettata non da minima volontà ch'io m'abbia di adularti in cospetto del pubblico, ma da solo amore del vero, e dalla fida e sincera amicizia che ti protesto.
Quella fede stessa che presterei ad Ippocrate e ad Esculapio io ti dichiaro che presto a te: anzi te la presto maggiore, perché se pari a quei sommi ti credo di arte e di scienza, di te mi fido assai più per l'amor che mi porti. Se pertanto io dirò alcuna cosa diversamente da quelle che tu hai detto, se talvolta io ti sembri o veramente io sia di sentenza contraria alla tua, fa' di sopportarlo in pace, e pensa che non a te, ma a quei primi trovatori della medicina io contraddico. Io sono intimamente convinto che a te la mia salute sta a cuore quanto la tua. E tengo per fermo ugualmente che nulla tu ignori di quanto da quei maestri fu scritto, anzi che alcuna dottrina tu coll'ingegno tuo aggiungesti alle loro. Da questo lato pertanto nulla io trovo a ridire. Quello di cui mi lascio venire alcun dubbio si è se tutte le cose dette da loro s'abbiano a credere come se dette le avesse un Dio, per guisa che sia delitto il portarne contrario giudizio.
D'Ippocrate so ch'egli fu uomo e nulla più. D'Esculapio e gli antichi e i moderni credono che fosse un Iddio,, ma che perisse di un fulmine a lui scagliato da un Dio maggiore di lui. E so pur bene che, se io ti lascio venire in campo colle dottrine degli autori tuoi, non sarà cosa detta da te, cui non ti riesca provare: ma in causa propria sono sospetti i testimoni domestici. Sogliono molti nelle dispute intorno la verità o la falsità di una dottrina addurre in prova le sentenze di quegli autori medesimi, ai quali appunto si dubita se debbasi prestar fede; e questo a parer mio è vizio massimo nel disputare: ché a provar quel che vuoi non devi recare in mezzo ciò che non devi, e che cade esso stesso in questione: né si conviene il dubbio risolver col dubbio. Sia pur dunque lodato quanto si vuole un testimonio, se depone in causa propria, io lo rigetto. E andiamo innanzi. Tu dici e poni come base ai tuoi consigli essersi in me con la età mutata eziandio la natura: e con filosofica gravità mi ammonisci di por mente all'età mia. Siamo in questo perfettamente d'accordo, e quello che tu dici a parole, io lo sento per prova. E a confermare la tua sentenza io considero che velocissima corre, anzi vola la vita.
Volano gli anni, diceva Cicerone, ed io di buon grado userei, se vi fosse, qualche parola, che più del volare esprimesse il rapido dileguarsi del tempo. Ma lento è il volo d'ogni augello ragguagliato al volare de' giorni nostri.
Chè di quelli ci vien fatto distinguere il moto delle ali, l'avanzarsi che fan nello spazio, e l'avvicinarsi al termine, ed il raggiungerlo; ma a noi medesimi, tranne alcuni pochissimi privilegiati dal cielo per singolari doti d'ingegno e di cuore, passa il tempo senz'avvedercene, e inaspettata improvvisa ci si para innanzi la mèta. Meglio dunque che al volo dell'augello paragonar si dovrebbe il rapido corso della nostra vita a quello di un dardo lanciato non dall'arco, ma dalla balestra: e se di questo fossero i giovani persuasi, come sono i vecchi, sarebbe in quelli più onesta e più innocente la vita, e a questi ne tornerebbe più grata e più dolce la memoria. Ma la speranza di una vita più lunga acceca l'adolescenza e la gioventù, che improvvida si precipita fra le colpe e i delitti, e non se ne avvede che quando, sopraffatta dalla vecchiezza, tutta comprende la vanità delle sue speranze, e non altro le resta che lavarle col pentimento e col pianto.
Or secondo che in noi si mutano i sentimenti e gli affetti, ci avvediamo del mutarsi che fa l'età nostra, e così dividendo in tante parti la vita, ci diamo a credere ch'ella sia una gran cosa. Quindi le speranze che mirano ad un lontano avvenire, e i grandiosi progetti, ed i magnifici esordi di lunghe e laboriosissime imprese, quasi che perpetua dovesse fiorire la giovinezza per noi, che domani saremo vecchi cadenti e miserabili. Né questo dico perché in se stessa la vecchiaia sia miseranda; la quale per lo contrario è felice a chi vi giunse non ingannato dagli errori dell'età precedente: e a questi pure è dato sperimentarla dolce e tranquilla, se da questi errori riscosso volga le spalle alla vanità, e seguendo le dottrine di Platone l'estrema parte della vita consacri al culto della verità e della sapienza.
E se tanto impromettevansi gli antichi filosofi, quanto più non dovremo sperare noi, che per giungere alla sapienza, alla virtù, alla salute non abbiamo, com'essi, bisogno di dubbie prove, di faticose ricerche, ma certi siamo di conseguirle col sincero pentimento e col divoto dolore? Quella è da dire veramente miseranda vecchiezza, cui da una parte, come a me accade, travagliano la debolezza e le senili infermità, e dall'altra sconvolgono la giovanile intemperanza, e le turbolente passioni, dalle quali piaccia a Dio di tenerci le mille miglia lontani. Ma tornando ai vani errori e alle fallaci speranze de' giovani, non è punto da meravigliare che lecita essi si facciano qualunque cosa, chi consideri che nessuno li contraddice, e che non solo il volgo, ma l'universale degli uomini la sente con loro. Qual che però si sia cotesta erronea e comune opinione, noi abbiamo un bel fare a dividere in parti, a moltiplicare, ad allungare la vita: essa non è che un nulla, tanto è rapido il volo dell'età nostra, di cui tutti parlano e nessuno è che vi pensi, se non quando giuntone il termine si rivolge indietro a rimirare il percorso cammino, e dubita fra se stesso se la sua vita fu sogno o cosa reale. E che col mutar dell'età si muti anche l'uomo chi è che nol senta? E chi potrebbe negarlo? Prosieguo sempre a confermar la tua tesi, e dico esser bene secondo natura che composto di fragile creta e di corruttibili umori a poco a poco l'uomo si consumi e si strugga, poiché vediamo corrose dagli anni cader le moli marmoree, e infrante precipitare le mura di fortissime città.
Non vedi tu come giace l'antica Babilonia? Guarda Troia e Cartagine, sebbene a queste non tanto nocquero gli anni quanto il fuoco, gli arieti e il ferro degl'inimici. Non altro che un mucchio di rovine indica il luogo ove furono le antiche città di Corinto, di Siracusa, di Capua, d'Aquileia, di Chiusi, di Taranto. Di Sparta, di Atene non rimase che il nome. Roma soccombette alla vecchiezza, e già sarebbe distrutta e ridotta in cenere se non fosse che la sostiene la gloria del nome suo. Ed altre di numero infinite vanno pur ora invecchiando e si avvicinano al termine della loro esistenza, che non è lungi, quantunque forse a noi non sarà dato di vederlo perché più lunga è la vita delle città che non quella degli uomini, e prima che invecchi una di esse, non solo si consumano le vite, ma si dilegua e si perde tacitamente nel vortice degli anni e de' secoli la memoria di molte e molte migliaia di umane creature. Anzi perché meravigliare che alla vecchiezza cedano le città fabbricate dall'uomo, se vediamo in rovina cader le rupi, e d'uno in altro stato mutarsi le vette de' monti?
Si estinsero le fiamme sull'Etna, e divamparono sul Vesuvio. Precipitarono in basso molte cime dell'Alpi, e divelti dalla violenza dell'onde il siculo Peloro e l'italo Appennino, dove una volta essi stendevano i loro gioghi selvosi vedono la vorace Cariddi con cupo suono agitare fremendo i suoi flutti. E checché ne pensino alcuni che han nome di grandi, e in questo a mio giudizio son piccoli, noi teniamo per fede che per vecchiezza dovrà un giorno venir meno il mondo intero. Com'esser dunque potrebbe che non venissi meno ancor io? E sì che già venni meno e se lecito è il dirlo, più che non sogliono coloro che vissero nella sobrietà e nella temperanza, nella schiera dei quali non dico per mio giudizio, ma per testimonianza di quanti mi conobbero, crederei poter essere annoverato. Sono, o per meglio dire, furono sessantasei insino ad ora gli anni della mia vita: i quali se ad un per uno io li ripenso mi paiono più che millanta: ma se li riguardo tutti insieme non mi sembrano più che un giorno breve, fosco, affannoso, infelice. Or mentre io ricordo di aver veduto abbastanza sani e robusti ad ottant'anni molti che spesa avevano la vita nelle libidini e nella ubriachezza, io in quest'anno mi trovo ridotto a tale, che già da molti giorni, se i servi non mi sorreggono, sono incapace di mutar passo, fatto inutile corpo, grave peso a me stesso, e fastidioso ad altrui. E perché questo? T'odo rispondere, e teco a coro rispondono cento altri medici, causa se non unica, gravissima al certo e principale de' mali miei essere il bere che io faccio dell'acqua. Evviva dunque i beoni! Ed altri aggiungono doversene accagionare il mangiar frutta, l'astinenza dalle carni, e il digiuno. Vada dunque alla malora la sobrietà. Se tutto questo è vero, per esser sano bisogna bere a modo degli ubriachi, e somigliare nel pasto ai lupi.
Or bene: su questi punti io ti dichiaro d'esser d'avviso contrario al tuo: e tornerò a parlarne più tardi. Forse alcun altro non medico dirà de' miei mali cagione sola i miei peccati: e se così fosse, ne avrei ragione di porgermi grato a Dio, che la lordura di tante colpe si degnerebbe lavare con pena sì lieve. Che se taluno imputar lo volesse a naturale difetto della mia complessione, pronta a contraddirlo invocherei la testimonianza del mio concittadino Tommaso, che fra i medici viventi con te solo ha comune il primato, tacendomi di molti altri a lui concordi e non più vivi, perché mi sembra ridicolo chiamare i morti a fare da testimoni. Ora è un anno trovandoci entrambi a Pavia presso il signore della Liguria amico tuo in mezzo ad una folla di nobili personaggi ivi convenuti, Tommaso suddetto giurando affermò che di me non aveva veduto mai uomo più vigoroso, più sano, e di più robusta complessione. E per vero dire, quantunque io non mi ricordi di aver mostrato giammai una forza straordinaria, tale peraltro si fu la destrezza, e l'agilità della mia persona, che sotto questo riguardo crederei non fosse alcuno che mi potesse entrare innanzi. Le quali doti sebbene per l'ordinario siano le prime a venir meno dopo il caduco e vano decoro della chioma, eransi pure coll'andare del tempo in me conservate, per modo che fino ad ora tranne il saltare ed il correre, di cui né mi piaccio né abbisogno, in tutti gli altri esercizi del corpo io mi sentiva agile e destro qual era nella età mia giovanile. Ma valse per tutti quest'ultimo anno: poiché una malattia di dodici mesi siffattamente m'ebbe prostrato che non mi reggo su piedi, non posso alzarmi, non muovermi, se le braccia de' servi non mi sorreggano.
Fortuna che questo è il sessagesimo sesto anno della mia vita, e non il sessagesimo terzo, intorno al quale scrissi allora una lunghissima lettera all'altro mio Giovanni. Imperocché sebbene malagevolmente io mi adduca a prestar fede a certe stravaganti e sospette dottrine, se quel che adesso mi accade fossemi allora accaduto, chi sa che quell'astrologica fandonia non avesse fatto sul mio spirito qualche impressione. Ma lasciata da parte ogni indagine sulla causa del male, della quale a me spetterebbe il pensiero, e poiché incerta è quella, ma certi se ne vedono gli effetti, tu come medico, come amico, come onesto uomo i rimedii che ti parvero acconci dopo matura riflessione diligentissimamente mi esponesti in iscritto. Se mal non mi appongo nel numerarli, essi son sei. Mi passo dei primi tre, ne' quali io pure teco convengo. Coll'autorità dell'arte tua, tu mi prescrivi che astenere io mi debba da carni salate, da salumi e dagli erbaggi crudi onde finora mi piacqui.
Ed io ti obbedirò facilmente, perché provvida la natura scemò in me l'appetito per questa spezie di cibi, né più li cerco come prima soleva, e se mi s'imponga di non toccarli più mai, il farlo non mi costerà nulla. Ma poco anzi nulla io sono teco d'accordo nelle altre tre cose. Tu vuoi primieramente che io lasci il digiuno, cui dall'infanzia fino all'età presente senza interruzione ho praticato; vuoi che, a modo di pigro corridore, già vicino a toccare la mèta, ad un tratto io m'arresti. Non è questa la prima volta che io noto come i consigli de' medici siano discordi da quelli di Dio.
So bene che i medici e gli avversari del digiuno consigliano come cosa più proficua e più ragionevole il dividere il pasto, e quello che solo a pranzo si mangerebbe, mangiarlo per metà serbando l'altro alla cena. Né sarebbe male inteso il consiglio, se rispondesse il fatto al proposto. Assistendo peraltro alla mensa di coloro che dicono di praticarlo, io ben mi avvidi come la mattina s'empiono la pancia, e tornano la sera ad empirsela un'altra volta. Non è pertanto che si divida, ma si raddoppia la dose contro il precetto di Platone che dice: aborro da coloro che vogliono due volte al giorno sentirsi satolli. Perché io son fermo, se piaccia a Dio di ridonarmi l'antica salute, di tornare al solito e inveterato uso mio di digiunare, dal quale nemmen'ora mi sono al tutto dipartito, ma solamente, a cagione dell'estrema mia debolezza, ho ridotto alle norme di ordinario digiuno quello che in tutti i venerdì sono solito fare a pane ed acqua, e coll'aiuto di Dio spero fra non molto riprendere l'antico costume. - Ma fatto tu sempre più vecchio e più debole, tu non lo potrai. - Posso ancor io qualunque cosa mercé di lui che mi conforta. - Sta bene che così dicesse l'Apostolo, ma non che lo dica un peccatore quale tu sei. - E prima d'essere Apostolo, non era Paolo anch'egli un peccatore? E Cristo abbandona egli forse i peccatori che invocano il nome suo? Non fu per essi ch'ei scese di cielo in terra? In me non si alletta tal diffidenza. Di me medesimo io temo assai: ma da lui, comeché nulla io meriti, confesso di sperar molto, e non mi lascio aver dubbio ch'ei mi dia forza a sopportare non che questi digiuni facilmente tollerabili anche a donne e fanciulli, qualunque altra cosa più malagevole e dura.
Non si conservavano forse robusti e vegeti nel deserto tanti decrepiti solitari, cui lauto cibo era il pane inferrigno, ed unica bevanda l'acqua del torrente? Non hai tu letto in Girolamo le lodi con cui celebravano il santo e giocondo loro convito Antonio e Paolo, l'uno già vicino a cento anni, e l'altro più di cento già vecchio, poiché la fame con un pane solo, e la sete avevano estinta coll'acqua del fonte? Io per me ti confesso che dalla divota lettura o dalla pietosa narrazione di quelle astinenze sento venir tanta forza che quasi parmi non aver bisogno di bevanda e di cibo a conservare la vita.
Ma quelli, dirà taluno, erano sostenuti da Dio. Lo so pur io: ma so che anche noi egli sostiene: e se questo non fosse, noi non vivremmo. Come temere ch'ei voglia da me dipartirsi quando mi adopero a fare il bene, e mentre ingrato e peccatore già mi sostenne, ora penitente mi rigetti e mi abbandoni? Oh! non temere per me da questo lato: potrò, stanne certo, digiunare senza pericolo. Lascia di creder sempre ai tuoi dottori, e fidati ad un amico, che sa per prova come il digiuno mai non gli nocque, né teme punto che nuocere gli possa mai. E chi potrebbe dirmi perché tante povere vecchiarelle per mesi interi digiunano con rozzo e parco cibo, e noi nutriti sempre nell'abbondanza di squisite vivande tollerar non sappiamo il digiuno di un giorno? È mal di gola, credilo a me, non debolezza di nostra natura.
Non sarà dunque giammai che io mi diparta da questa innocua e pia consuetudine, la quale secondo che insegna la santa Chiesa, non solo per la salute delle anime, ma per quella ancora de' corpi fu istituita. Conciossiaché ben mi venne letto ed udito che alcuni morissero di fame, e di moltissimi so che furono vittima della crapula e della intemperanza: ma di nessuno intesi mai che morisse per aver digiunato.
Or vengo all'altro de' consigli che tu mi dai, non tanto come tuo, quanto come precetto di tutti i medici. E fo ragione che in questo, sapendo di parlare ad uomo che facilmente contraddice le altrui sentenze, tu vada col piè di piombo, e prudentemente ti copra del mantello altrui.
Ma nelle opinioni degli altri io scopro la tua, sebbene gettata là lieve lieve ed alla sfuggita. E questa sentenza è che le poma, e tutte quante sono le frutta fuggire da me si debbano come l'aconito o la cicuta. Parlando dunque di questa e della prescrizione che siegue, io non potrò tenermi dal ripetere alcune delle cose che scrissi già è tempo a quell'altro Giovanni, di cui dianzi io diceva: con questa differenza peraltro che allora io scriveva con animo concitato allo sdegno per la memoria di un'antica contesa avuta da me in Francia coi medici del Papa, i quali oltraggiarono la mia fama, e mi perseguitarono a morte per una breve lettera con animo sincero e veridico da me diretta al Pontefice: ora per lo contrario senza punto ripensare a quella briga, pacato e tranquillo io scherzo scrivendo ad un amico. Dio santo e buono! Onde mai quest'avversione, questo disprezzo di cose all'occhio bellissime, al tatto, al gusto, all'odorato più che altre mai gradite e soavi?
Saranno dunque tutti i mortali privi di discernimento e di senno, tranne coloro che aborrono dai pomi e dalle frutta? E come mai la natura si prese cotal giuoco degli uomini nascondendo il veleno nelle più belle e più appariscenti delle sue produzioni? Opera è questa non di madre pietosa, ma di crudele matrigna che mesce al tossico il mèle. Che se tu dica non l'uso, ma l'abuso e il soverchio delle frutta esser quello che nuoce, non troverai chi ti muova contrasto. Anche le carni de' fagiani e delle pernici tenute da voi in tanta stima, se tu ne mangi a crepapancia, ti saranno nocive. E ti par questa ragione per mettere in mala voce le poma e le altre frutta? Non sono da vituperare le cose le quali non per loro natura, ma tornano in danno solo per l'abuso che altri ne faccia: perocché questo per se medesimo, di qualunque cosa egli avvenga, è sempre pernicioso. E se così non fosse, perché tanti sudori e tanta industria spender vorrebbero gli agricoltori intorno alle piante? Qual conto avrebbe a farsi d'Esiodo, di Virgilio, di Catone, di Varrone, di Palladio, e di tanti altri greci e latini scrittori che ne fecer subietto alle opere loro? Che diremo di Cicerone che nel trattato della vecchiezza difendendo quella età dalle accuse e dai fastidi onde le pongon cagione i giovani malaccorti, induce quel grande che fu Catone il Censore ad onorare di altissime lodi l'agricoltura, quale arte, sebben meccanica, pur nobilissima, e salutare e piacevole, ei dice, quanto altra mai, affermando tra le altre cose non darsi opera più bella e più ammirabile della piantagione degli alberi e degl'innesti?
E di Ciro re de' Persiani non leggiamo nel libro stesso che si gloriava additando il buon ordine e la bellezza degli alberi che colle sue mani, o sotto la sua direzione furono piantati?
Ed Appio e Decio guerrieri illustri di Roma non introdussero essi in Italia le mele che portano ancora il nome loro: dolci le Appie, subacide le Decie, e le une e le altre di squisitissimo sapore? E se poco ti cale di contraddire agli antichi, che vorrai tu pensare del comun nostro amico a nessuno secondo per l'amor che ci porta, e per le virtù che l'adornano, il quale frugando ogni angolo dell'Italia, e forse anche fuori di quella diligentemente cercando, fece raccolta di piante fruttifere di mille spezie, e non solamente il suo pomario, ma quelli ancora degli amici abbellì e fece ricchi di alberi rari e pellegrini? Vorrai tu dire che dai medici in fuori, tutti son pazzi gli uomini antichi ed i moderni? Imperocché se a buon diritto vietassero i medici il cibarsi di quelle frutta, non altro che pazzi stimare si dovrebbero quelli che posero nel procacciar questa peste tanto studio, quanto si conveniva adoperarle a disperderne la semenza. Se poi torni a ridire che non le piante e le frutta, ma l'intemperanza condanni di quelli che se ne cibano senza modo e senza misura, io ti rimando a quanto più sopra già ti risposi: e solo a scusare in parte questa fandonia de' medici io voglio aggiungere che molti di loro, e dei più famosi ho veduto a pranzo ed a cena contraddire col fatto ai precetti che danno dalla cattedra, e alle lezioni che insegnano nelle scuole. Resta che io parli dell'ultimo tuo consiglio il quale tanto è contrario a quel ch'io sento, che quasi dallo stupore si arresta fra le mie dita la penna. Mi si vieta di bere l'acqua schietta. Ma dimmi in fede tua, perché mai questo divieto?
Forse perché quel solenne vostro maestro si lasciò uscire di bocca quella sentenza: non ad altro aver esso trovato buona l'acqua, che a bersi nel male acuto? Di lui sarà per avventurata cosa siccome dice: ma noi, senza pensare al fatto suo, dobbiamo cercare se veramente a null'altro l'acqua sia buona. Ma qual ricerca da pazzi sarebbe questa? E che? Potrà da noi meritar tanta fede cotesto vecchio, cotesto greco amico forse del vino e nemico dell'acqua, che a cosiffatta misura di meschinissima utilità da noi riducasi il pregio di tante lucide fonti, di tante limpide sorgenti, di tanti ameni ruscelli, e in una parola di questo preziosissimo elemento sparso per ogni dove dalla mano benefica della natura? Misere dunque ed infelici le genti alpine, che solo coll'acqua de' loro fonti si dissetano, e non che berlo, nemmeno conoscono il vino: eppur conducono la vita tanto più sana di noi beoni, a cui lo star senza vino un giorno solo è pena di morte. Miseri ed infelici i nostri progenitori innanzi che fosse piantata la prima vigna, sebbene rozzi ed incolti com'erano, vivessero tutti poco meno che mill'anni. Misere ed infelici le antiche matrone di Roma alle quali il ber vino fu mortale delitto, e non che di pena qualunque, ma né di biasimo si reputava degno colui che trovata la moglie che ne beveva, l'avesse uccisa ipso facto.
Eppure non gracili e imbelli erano i figli cui quelle donne misero al mondo, e questo ancor non si resta dall'ammirarli seguaci di virtù, correttori dei vizi, domatori delle proprie passioni, conquistatori dell'universo; appetto ai quali vedi tu quali siano questi che ci partoriscono le nostre donne avvinazzate. Miseri ed infelici gli antichissimi Galli che, come narrano le storie, non conobbero il vino prima che Roma venisse in fiore: se non piuttosto infelicissimi s'abbiano a dire questi sacerdoti di Bacco e di Venere, che allettati dal gusto dei vini natìi posero in non cale e Cristo e Pietro, e la fede, e l'onore, e le anime proprie, di cui dimenticarono l'immortale natura, e la Chiesa affidata alla loro custodia, del cui abbandono sebbene per avventura altra e segreta sia la ragione, quell'una mettono innanzi, meglio stimando parere ebriosi che confessare di esser empi, mentre negar non possono né l'uno né l'altro. Miseri finalmente ed infelici non solo i filosofi delle Indie cui chiamano Bracmani e Gimnosofisti, de' quali il più famoso sorbendo l'acqua dal fonte si gloriava di succhiare il puro seno della madre terra; ma tutti quasi i popoli dello Oriente, che dalla legge han divieto di bere il vino, e soli fra tutti noi beati, felici noi, de' quali può dirsi che siam divenuti botti ambulanti! Al qual proposito io qui non posso tenermi dal rammentare un motto, non so qual più fra meritato e mordace, contro questo nostro smodato amore del vino.
Insorse non ha guari grave discordia e cagione di prossima guerra fra noi ed il sultano di Babilonia d'Egitto, ed ahi! che non la fede di Cristo, anzi nemmeno ragione alcuna di Stato od altro glorioso motivo, ma sola avarizia e gelosia di commerci e di guadagni destato avevano quelle inimicizie. Era il sultano fanciullo, e in nome suo reggeva l'Egitto un cotal uomo d'acuto ingegno e di condizione bassa e servile, siccome quegli che venduto già sul mercato, per subito rivolgimento della fortuna, era salito in alto, donde doveva fra non molto rovinando precipitare. Fattisi a lui d'attorno alcuni de' suoi lo consigliavano che seguisse l'esempio di Mitridate, e prima che i nostri ponessero in atti la minaccia di appiccar la battaglia, egli tutti i Cristiani che si trovavano ne' suoi Stati facesse mettere a morte. «Sarebbe una follia, rispose colui, uccidere per tal modo persone innocenti d'ogni colpa; ed utili al nostro impero. Quanto poi alle minacce ed alle millanterie di cotesti Cristiani e' non è da badare gran fatto: ché sebbene potenti siano e valorosi, essi bevono vino: e le minaccia che fanno la sera sono già dimenticate nella dimane». Oh di perfido cane obbrobrioso ma verace latrato!
Egli è pur troppo così com'ei diceva. Il frutto della vite è cagione a noi di vergogna: per l'abuso del vino ci ribolle nelle vene il sangue, e dileguasi il senno, rompe la lingua ogni freno, toglie l'ubriachezza ogni fede: alle parole né più gli amici ci credono né ci temono i nemici, perché promesse e minaccie divengon vane tra le tazze e i bicchieri. E quantunque tutto questo non dal vino proceda ma dall'abuso che ne facciamo, tanto profonde mise e dilatò questo vizio le sue radici, che ad estirparlo bisognerebbe non si trovasse più vino al mondo, o tanto solo ne rimanesse quanto fa d'uopo a celebrare i sacrifici divini.
- E che sarà degli stomachi, parmi sentirti gridare a coro con tutti gli altri della tua schiera. Che ne sarà? Staranno meglio, senza bollori, senza nausee, senza sconvolgimenti, senza travagli, come stavano gli stomaci degli antichi prima che il vino fosse trovato, e stanno pure oggidì quelli di tanti che non ne conoscono l'uso. Ma noi accagioniamo lo stomaco dei danni che nascono dalla gola, e i mali prodotti dal vino pretendiamo di curare col vino, adoperandoci a smorzare l'incendio col fuoco. Io conosco un cert'uomo il quale, vivendo tuttora e non molto lungi di qui, può farti fede se vero è quel che io dico di lui. Era egli nel fiore dell'età sua quando io giovinetto lo conobbi, e lo vidi dalla podagra e dalla chiragra tutto storpio e rattrappito per modo che non era buono da nulla. Dopo dieci anni lo ritrovai perfettamente guarito, e libero e franco in tutti i suoi movimenti come se mai non avesse patito di podagra o d'altro male. Di che mostrandomi a lui meravigliato «vedi, ei mi disse: il vino mi aveva concio a quel modo: l'acqua mi ha reso libero e sano».
Or son pochi giorni il figliuolo suo mi venne dicendo che dopo tanto tempo era tornata la podagra a visitarlo, ed io tosto gli scrissi che sospettava il vino suo vecchio amico avergli riportato in casa quella nemica. «Non ho bevuto vino, ei mi rispose: ma solo intinsi in quello un poco di pane, e lo mangiai.» Or fa' tue ragioni sull'eccellenza del vino, di cui basta quasi l'odore a far venire o a richiamar la podagra. Fu dal vino ingannato il primo che lo introdusse nel mondo, e la vigna da lui piantata lo trasse del senno. Lot, che da Dio fra mille e mille fu dichiarato il solo uomo giusto, cadde per l'uso del vino in un orribile incesto. Fatto dimentico della sua bassa condizione, dell'oltraggio recato a Davide, e della regale potenza di lui, Nabal Carmelo sopraffatto dal vino rimase assiso al convito, e in mezzo all'ubriachezza colpito lo avrebbe la morte, se provvida la moglie non avesse dal suo capo stornato il pericolo. A vendicare l'ingiuria della violata sorella volendo Ammone toglier di vita Assalonne suo fratello primogenito, comandò che lo uccidessero quando aggravato egli fosse dal vino: non già perché in altro tempo non si potesse fare il medesimo, ma perché il vino rende più facile il colpo a danno di chi lo tracanna.
E per unire a quelli delle sacre pagine gli esempi tolti dalla storia profana, rammenterò come il giovane figlio della regina degli Sciti sopraffatto dal vino si lasciasse prendere in mezzo con tutto l'esercito da Ciro re de' Persiani, e come i nemici di Roma che sobrii l'avevano vinta, furono da lei debellati quando lasciaronsi inebriare dal vino. Alessandro il Macedone che vinse sempre col brando, dal vino fu vinto e condotto a morte immatura.
Pel vino Antonio di romano divenne barbaro perdendo a un tratto e fama e vita. Alterati tutti dal vino disse Catone quelli che mossero a danno della Repubblica, eccettuatone solo Giulio Cesare. E Catone stesso si vide dal vino addotto in pericolo di perdere la sua nobilissima fama, la quale peraltro così profonde aveva le radici che punto non si commosse. Non v'ha memoria, non lingua che all'ampiezza della materia non venga meno, se a noverare si accinga i tristi effetti del vino; e in una parola stringendola, finalmente io conchiudo infiniti essere i mali onde all'umano genere quello è cagione.
E voi pretendete di vietare l'uso dell'acqua ad uomo che dalla prima infanzia fino al termine della gioventù mai non conobbe altra bevanda, per guisa che l'uso per lui si converse in natura (circostanza, siccome sento, cui, pur secondo le vostre dottrine, è assai da por mente), e che se tardi consentì a passare nella schiera dei bevitori di vino, pur di gran lunga alla botte preferisce sempre la fonte? Né ignoro io già che a contraddirmi potrebbe mettersi innanzi quel detto dell'Apostolo a Timoteo: Fa di non bere acqua, e rinfacciarmelo come se fosse detto per me.
Ma chi vi dice che Timoteo non avesse abitudini e naturale inclinazione al tutto diverse dalle mie? Forse avvezzo da giovane a bere il vino, egli da vecchio voleva accostumarsi all'acqua, tutto all'opposito di quello che avviene a me. E se ciò fosse, ognuno intende perché l'Apostolo conoscendo a lui dannoso quel cambiamento che far voleva per devota astinenza, gli facesse quel salutare divieto che a me sarebbe pernicioso. E come altrimenti spiegare che Paolo stesso, non per uno solo, ma per tutti scrivendo, disse nel vino star la lussuria, ed esser cosa lodevole l'astenersi dal vino e dalle carni?
Nota poi che a Timoteo l'uso del vino, non come ordinaria bevanda, ma come medicina egli consiglia. Usa egli dice, d'un po' di vino a pro del tuo stomaco, e per le frequenti tue malattie. Di malattie veramente quest'anno mi ha fatto spesse volte inusitato e nuovo regalo: ma quanto a mal di stomaco, di cui sì frequente e sì comune è il lamento, io punto mai non ne soffersi: e se talora mi avvenne sentire in esso qualche gravezza, nessun rimedio mi parve migliore di un bicchier di acqua fresca. So bene che ai medici deve questo sembrare strano, incredibile: ma mi parrebbe che qualche fede si dovesse prestare anche a me quando parlo di cosa avvenuta in me stesso, e della quale ben mille volte ho fatto esperimento.
- Bada però che mutata è l'età tua. - E chi nol sa, è mutata e si muta pur mentre parliamo, e continuerà a mutarsi finché mutare più non si possa: il che avverrà quando io muoia. Ma sono io forse così scemo di senno che non distingua ciò che mi nuoce? È scemato ma non estinto il mio fuoco, e quantunque più freddo di quel che fossi un giorno, di molti miei coetanei, ed anche di alcuni più giovani di me, io mi sento più caldo: e benché meno di prima, bevo pur acqua. Insomma, tu sciupi il fiato a dirmi ch'io non ne beva. Dubito però che tu e gli amici tuoi abbiate avuto parte nel farmi venire a questi colli fertili, ameni, abbondanti di tutto, ma poveri d'acqua, per modo che, quand'anche io voglia, non posso berla pura ... perocché nel passare dalla fonte a casa mia, tanto la scaldano i raggi del sole che più nel berla non trovo gusto.
Quando però mi sarà dato di ritornare alla mia casa in città, e di attingere l'acqua a quel novissimo pozzo, saprò rifarmi del passato, e vedrò quanto sia da dar retta al consiglio de' medici. Ma tu dotto qual sei ed ingegnoso, cerchi di stringermi al muro con un poderoso argomento. Se non vuoi credere, tu dici, ai medici, credi almeno a te stesso ed alla esperienza ch'è madre dell'arte. Pensa a quanti mali gravi ed insoliti tu soggiacesti in quest'anno per aver tenuto in non cale le prescrizioni de' medici. L'acqua che bevi, i frutti che mangi ed i digiuni sono le cause de' mali tuoi.
- Quanto alla prima delle cose che tu dici, siamo d'accordo. Vero è pur troppo che ad un tratto mi piovvero addosso questi malanni. Ma chi potrà dimostrarmi vero d'un modo quelle cose che dicono i medici essere state cagione dei miei mali? E non potrebbero invece esse appunto averli fino ad ora tenuti da me lontani? Occulte, profonde misteriose sono le operazioni della natura, delle quali assai malagevole è profferire giusto giudizio. Resti dunque al suo luogo la verità: quanto a me tieni per fermo che né quel greco maestro tuo, né tutti insieme quanti sono i greci potrebbero rimuovermi da una opinione trovata vera per mia lunghissima esperienza: né gioverebbe ad ottenerlo l'astuzia di Ulisse, la spada di Achille, la violenza di Aiace, l'autorità di Nestore, lo scettro ed il brando di Agamennone.
- Fa' dunque a tuo senno (tu mi rispondi), ma ricordati che la poca fede ne' medici ti accorcerà la vita. - Amico: abbastanza io già vissi. Finita la commedia, si abbassi pure il sipario: e se al direttor delle scene piaccia interromperla a mezzo, io non mi lagno. Sono già stanco, e quand'anche dovessi morire oggi stesso, io non potrei lamentarmi che troppo breve fosse stata la vita mia. Se tutti che nascono giungessero all'età mia, sarebbe agli uomini angusto il mondo; e non che bramare lunga la vita, io fo ragione d'aver vissuto già troppo, allora che penso quanti e quali amici, quanti illustri personaggi abbia io veduto morire, e come il mondo proceda sempre ad un modo, e quello che ieri si fece, si torni a far oggi, anzi ogni giorno si aggiunga qualche cosa di peggio, e quanti siano i pericoli, quante le minacce della fortuna, quanti gli scherni e i ludibri che giù ci piovono di Settentrione, a noi sorgente di eterni guai, quanto docile imitatrice di quei barbari costumi si porga l'Italia, nella quale a sopportare m'è duro quello che lieve mi sarebbe in altra nazione; quanto finalmente sia il dispregio di ogni virtù, il dominio de' vizi, il fastidio e la noia che viene dagli uomini e dalle cose.
E in mezzo a sì fatti mali credi tu che soave, che dolce a me sembri la vita? Aspra per lo contrario ed amarissima ella è per me: ma so che l'asprezza e l'amarore sopportare si debbono con rassegnazione e con pazienza. Sopporto io dunque pazientemente, ma punto non bramo di allungare la vita. - Qualunque peraltro ella sia, se ai medici tu ti porgessi obbediente, potresti conservarla più a lungo. - Se questo sia vero io non cerco e non curo: so anzi esser questa una delle cose che assolutamente ignoro. Sia però che non sempre a voi si possa prestar cieca fede, sia che riesca a noi difficile prestarvela sempre, sia che a chi crede alcune cose torni pericoloso il non crederle tutte, fatto sta che io ho veduto molti che ubbidirono ai medici, anzi i medici stessi menar vita infermiccia e morir presto, e per lo contrario sani e longevi molti che ad essi non dettero retta.
Del resto lunga non può esser giammai la vita d'uomo qualunque: ma la mia, fatta ragione dell'ordinaria misura, già più non può esser breve. Non bisogna giudicare a modo del volgo, né seguirne gli errori: non bisogna esser troppo attaccati alla vita, né temere la morte: altrimenti non avranno i desideri mai fine, ci scemeremo sempre gli anni, ci pasceremo d'illusioni, brameremo di essere e di parer sempre giovani finché non giunga la morte a manifestare la verità. Mai non sarà ch'io mi lagni di aver vissuto poco: piaccia a Dio che non sia stato né inutilmente né male. Virgilio visse quattordici anni meno di quelli che io ho già vissuto: tre Cicerone ed Aristotele: dieci Cesare e Scipione domatori quegli del mondo, questi di Cartagine e di Numanzia. Taccio di Alessandro, di Achille, di tutta la caduca famiglia di Priamo, e fra i nostri di Druso Germanico, di Marcellino, e di tanti altri illustri che perirono nel fiore dell'età loro. Non dovrò dunque io chiamarmi contento di aver vissuto più a lungo di uomini così grandi, sebbene Augusto ed Agostino mi superassero per dieci anni.
Orazio per undici, Platone, Simonide e Crisippo per quindici, per quattro e più Catone, per cinque Carneade e Ierone di Siracusa, per sette Massinissa, Valerio Corvino, Fabio e Metello, ai quali si avvicinarono nel numero degli anni Isocrate, Sofocle, Cleante, Varrone; e per altri sette li vinse Gorgia Leontino? E che? Stimeremo forse lodevole e virtuoso il desiderio di primeggiare in tutte le cose, o non piuttosto dovrem chiamarci contenti se nelle cose caduche e labili la sorte nostra fu mediocre?
Quantunque pertanto non per attaccamento alla vita, che punto non sento in me stesso, ma per ragione degli studi a cui sono inteso, mi bisognerebbe restare ancora per un altro poco nel mondo, intendo bene che quando avessi vissuto altri cento anni, pur rimarrebbemi qualche altro tempo a desiderare. Ripeto adunque, come dianzi diceva, di aver vissuto abbastanza. Vivrò peraltro quanto ancor piaccia a Colui di cui sta scritto: tu ponesti i termini oltre i quali passare non è possibile, e grato sempre porgendomi a Dio, mi terrò pronto ad obbedirlo vivendo o morendo quando ch'ei voglia. Né il dono di lunga vita, che mai non gli chiesi quando ne sarebbe stata più ragionevole la domanda, ma quello divotamente mi farò ad impetrare di una buona morte, sperando, non dal mio merito ma dalla sua misericordia, che il fine di questa vita a me sia principio di una vita migliore.
Ecco come lontano da te, dolcissimo amico, teco io mi piacqui parlare scherzando, quasi mi fossi vicino e presente: e quantunque ponendo mente alla pochezza del tempo che mi rimane, mi fossi imposta la legge di esser più breve scrivendo agli amici, tu mi facesti dimentico del mio proposto: tanto mi fu soave l'intertenermi con te finché mi venne meno la luce del giorno, ed empito già il foglio, scarabocchiai tutti i margini con una cicalata che stringi stringi non monta un frullo. Tu intanto vivi felice, e non ti scordare di me.
Fra i colli Euganei, al 13 di luglio.