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Immagine di Giovanni Boccaccio a Firenze
LIBRO TERZO
LETTERA I
A GIOVANNI BOCCACCIO
Praesentiam tuam
Piange la morte di Lelio e di Simonide: lamenta i danni della peste che già da sedici anni devasta l'Italia, indi lungamente combatte la temerità e la ignoranza degli astrologi: finalmente invita il Boccaccio perché ritorni a Venezia.
[Venezia, 7 settembre 1363]
Che dovesse riuscirmi cara la tua compagnia lo sperai, lo sapeva, e ben mi avvidi quanto fosse il diletto che dalla mia tu prendevi. Ma quello che io non sapeva si era ch'essa mi fosse ancora occasione di buona ventura; conciossiaché ne' pochi ed ahi! velocissimi mesi che tu ti piacesti passare in questa, che dicono mia, ed è tua casa, parve la nemica Fortuna avermi concessa una tregua, e te presente, di nulla che lieto non fosse mi fu cagione.
Meravigliava io tra me stesso come avvezze sempre a ricevere dolorosissimi annunzi, avessero le orecchie mie trovato pace in quei giorni, sì che nessuna triste notizia mai le percosse, e segretamente parlando con me medesimo: or che è questo, diceva, e che fa ella la mia nemica? Si è forse dimenticata di me, o stanca dal colpirmi, e vinta dalla mia pazienza ristette dalle offese? Comprendo or bene ch'io m'ingannava, e più riposta, e tutt'altra era la causa di quella breve, ed insolita calma, che m'ebbe accordata. Forse che sentì vergogna di malmenarmi siccome suole alla presenza di tanto amico, e per non colpire te pure, ebbe me risparmiato? Ah no!
Ravviso anche in questo non ombra alcuna di vergogna o di misericordia, cui l'iniqua mai non conobbe, ma sì la raffinata malizia dell'indole sua perversa e crudele. Ferir me non volle quell'empia finché te vide compagno al fianco mio, e capace di prestarmi contro di lei soccorso e conforto; ché ben conobbe siccome tu le avresti opposto il petto a mia difesa, e me vacillante avresti sostenuto, o stesami amica la mano a sollevarmi da una caduta.
Sospese ella e rattenne per poco il colpo che meditava, ed aspettando il tempo a nuocere più opportuno, aguzzò intanto sulla cruenta cote i suoi mortiferi strali.
E sciolto tu avevi appena dal lido, che sbucando insidiosa fuori dall'agguato, e vistomi afflitto e piangente della tua partita, trasse il dardo improvviso, e m'ebbe profondamente ferito. E sì che prostrato al tutto m'avrebbe quel colpo, s'egli non fosse che forte m'appresi al proposto, cui benché tardi, se Dio m'aiuti, mi son risoluto attenermi in mezzo alle tempeste che ferocemente mi trabalzano in questo mar della vita, ed è l'avere fisso sempre e presente il pensiero che alla morte e ad ogni mortale vicenda deve chi nacque mortale esser sempre disposto e rassegnato. Come dunque altre volte già fece, ora da ultimo mi percosse la mia nemica Fortuna... Ma che è questo ch'io dico; ove son io ... E qual follia pur or quest'alma invade?
Imperocché, più che a colui cui Marone le attribuisce, si convengono tali parole a me, che vinto dal dolore in onta alle più note verità, e contro quello che sento io medesimo, esco in vani lamenti contro la Fortuna, quasi che nuova Orizia, o Pentesilea potess'ella avermi colpito e trafitto. Ahi! che non tanto ingiuste quanto stolte reputare si debbono presso che tutte le querele degli uomini, i quali dovrebbero far senno una volta, e credere e confessare che nulla avviene quaggiù se non per giusto, come ché ascoso, giudizio di Dio, ed essere insania il porne cagione ad una immaginaria Fortuna. Continuando adunque il discorso che cominciai, sappi che non appena tu fosti partito mi vidi tornare d'innanzi quel sacerdote, al quale io aveva consegnate le mie lettere per Lelio, e restituirmele chiuse come avute ei le aveva.
Non vi fu bisogno di altre parole: intesi tutto al vederle: guardai la soprascritta, riconobbi intatto il sigillo: e che vuol dir questo, esclamai: perché a me ritornano non aperte queste mie lettere? Che fa il mio Lelio, dov'è? Abbassa quegli lo sguardo, e lo fissa a terra senza nulla rispondere; ed io da lunga abitudine accostumato a divinare senza che altri le annunzi le mie sventure, compresi appieno quella che avevami incolto. Morto egli è dunque un tanto amico, e precedendomi, giunse là dove con rapido corso a seguirlo io m'affretto. Unico al mondo per ingegno, per eloquenza, per virtù qual amico ei mi fosse è inutile il dirlo; ché tutti lo sanno. Sono ora appunto trentaquattro anni da che cominciò la nostra amicizia, tempo ben lungo, se alla corta durata, ma breve ahi! troppo, se al desiderio si ragguagli del viver nostro.
Or mentre sulla piaga che sanguina porto a sollievo la mano tentando quasi impedire che per essa s'apra l'anima il varco, ecco giungere un altro, ed annunziarmi che fra le sue braccia è spirato Simonide. O anime benedette vissute sempre concordi, e quasi ad un'ora partite da questo mondo, voi, come io spero, già siete beate: a noi però, che qui siamo rimasti, il partir vostro cambia la vita di soave e contenta che la faceste, in affannosa palestra di pericoli e di dolori. Tale, o amico, è il governo che di noi fa la morte: e non per altro si astiene dal colpire noi stessi, che per darci più lungo tormento, affinché non una, ma cento volte moriamo al doloroso spettacolo de' cari nostri, che ad uno ad uno ella sotto gli occhi ci uccide. E segua pur ella suo metro: ché io dal mio lato già quasi impietrai, già nulla più sento, e il dolore convertito in abitudine non è più dolore, ma fatto è quasi natura. Di alcuni animali si narra che nutronsi di veleni: ed io mi pasco de' mali miei, con crudele voluttà faccio mio cibo i gemiti e il pianto, e veggo in me avverato quello che diceva Davide: sono le lacrime e giorno e notte il pane mio: o quel d'Ovidio Cure, pianto, dolor danmi alimento. Di questi nutrito, cresciuto fra questi approprio a me stesso quelle parole del vecchio afflitto: Fuggirono quali veloci corsieri i giorni miei, e mai non ebbero ombra di bene.
Credimi: io sono quasi fuori di me: per improvvisa metamorfosi mi sento al tutto cambiato: abitudini, costumi, tenore di vita, tutto in me s'è mutato, tranne la persona. Tanto mi trasformarono i pochi e tristi anni finora vissuti: e mentre lieta e serena pareva in me cominciare quella vecchiezza, che sempre trista disse il Poeta, ecco di fosche tenebre l'ottenebrarono i lutti per gli amici perduti, ed io vivo morendo per guisa che quand'anche mi si offrisse qualche cagione di gaudio, io più non saprei goderne e rallegrarmene. Or via: coraggio: torniamo colla memoria sulle cagioni del nostro dolore.
O Lelio mio, poiché teco, e coll'altro io favello, come se vivi foste ancora e a me presenti, o tu vero Lelio per me, sebbene per te io non potessi essere Scipione, quanto largo pianto non hai tu versato per me in quest'anno medesimo, credendo alla fama che s'era sparsa della mia morte! Ne fanno a me testimonianza le lettere tue. O dolce Simonide, per me di tal nome degnissimo perché sacerdote, perché poeta, anzi perché sacerdote insieme e poeta, quanto non era in te il timore e lo spavento che prima di te potess'io morire, e quanti voti al Cielo tu non porgesti, perché questo non si avverasse! Ahi! che pur troppo il Cielo accolse le tue preghiere, e fu sordo alle mie. Oh vane cure degli uomini, stolte paure, speranze fallaci!
Qual timore fu il vostro, di che foste tanto in angustia ed in pena! Ecco quell'io, la cui morte o falsamente annunziata, o preveduta possibile tanto profondamente v'ebbe commossi, io che pur tanto bramava di morire prima de' miei più cari, son rimasto a temere che morrò l'ultimo: di che tanto più amaramente mi dolgo, perché ciascuno di voi punto non ebbe cura di far quello a cui entrambi amorosamente scrivendomi mi esortaste, che fuggissi cioè dall'aere maligno, o dai luoghi che fatti aveva infami la pestilenza. Ma a che tutte queste parole che a vano sfogo di dolore io dirigo a tali che dar non mi possono alcuna risposta? Oh! fosse piaciuto al Cielo, che come sempre furono dell'animo, così compagni a te fossero adesso delle persone, e teco accolti sotto un medesimo tetto, fuggito avessero la peste che Roma e Napoli orrendamente devasta.
Lode a Dio che tu almeno lo facesti, e che ti piacque cercare salvezza in casa mia, quando dal male stesso gemeva oppressa la patria tua: ma quei due, mentre affannosi si adoperavano a consigliar me che fuggissi, per se stessi non vollero usare alcuna cautela: o forse non poterono: ché malagevole cosa è resistere al fato. E quanto a Lelio, se fisso era in cielo che dovesse ora morire, a buon diritto ne volle per sé le ceneri Roma, che a lui aveva date le prime aure della vita: ma la spoglia dell'altro non a Napoli che la rapì, ma sì a Firenze era dovuta. Così la parte mortale del mio diletto Simonide riposa accanto a Virgilio, e se lungi dalla patria sortì la tomba, amico e cultor delle muse se ne conforta perché trovò quel vicino. Ma l'altra parte d'entrambi gloriosa e immortale volata è al cielo: così credo, così prego, così bramo, e che così sia tengo per fermo.
Ad altra mèta non vanno anime delle sì fatte, e si compiace il Regnatore de' cieli di così nobili ed eletti spiriti. Ma perché mai primo ad uscire dall'aspro cammino di questa vita è quegli appunto che della nostra schiera fu l'ultimo a entrarvi? Sarei ben corto dell'intelletto se nuovo trovassi in questo fatto l'insegnamento, che già per mille e mille altri argomenti mi fu manifesto: non esser ordine alcuno in questa bisogna della vita umana. Tant'è: ed ecco mi tornano alla penna quelle lamentazioni che la ragione condanna, e che dall'animo io volli per sempre bandite. Vi son de' malati a cui tien luogo quasi di farmaco il molto compiangersi del proprio stato, sembrando loro che con i lamenti il male si disacerbi: vi sono taluni che stanchi e spossati non san trovar riposo se non sospirano, e non si lagnano, e del brontolare e delle querimonie si appagano come di soffice letto e di molli piume. Quanto a me, se finora per mala consuetudine mi lasciai troppo trascorrere la penna o la lingua, fermamente mi sono fisso in mente un proposto, al quale non senza sforzo, una lunga serie di affannose vicende m'ebbe condotto: cioè di sprezzare ad un modo speranze e paure, allegrezze e dolori.
Conciossiaché sono questi gli affetti che abbattono gli animi più costanti e più generosi, e omai vicino è quel giorno che tutte farà per noi svanire le cose onde tanto si travaglia o si rallegra la vita. Per ora ad altro non è da pensare che ad esser fermi contro le paure e contro i colpi della sventura: imperocché dalla contraria parte nulla abbiamo che temere: e già è gran tempo da noi per grazia del Cielo allontanate, e usciteci di vista né ci dettero, né mostrano a pezza volerci dar briga alcuna quell'affannosa speranza, o quella viva allegrezza che esaltando la mente poi la travolgono in precipizio. Ma, lasciate da un canto queste considerazioni, a te ritorno, e al nostro Simonide. Di voi due ch'io m'aveva compagni ai miei studi, ecco mi resti tu solo; ma quegli benché partito ho pur sempre presente, anzi più presente che mai da che si partì.
Perocché finché visse da me lontano, io l'aspettava che a me tornasse; ed or che morte me lo vieta, più non l'aspetto, ma già tornato lo credo, e mi conforto col fingerlo a me presente. Su te, e su lui aveva io posto gli occhi pensando che, se la morte m'incogliesse prima che avessi compiute le opere mie, sareste voi per me Tucca e Varo. Or poiché Iddio volle tener quest'altr'ordine, faccio ragione che da me si convenga prestare a lui quell'officio che io da lui mi aspettava. Se pertanto imperfetta a me rimase qualche parte delle sue lettere, o d'altri opuscoli suoi, fa' di dividerli meco, e poiché noi pure vuole divisi la sorte, secondo la natura de' nostri ingegni manda a me la mia parte, e per te ritieni la tua. Questo è il debito nostro inverso lui, né tu puoi disconoscerlo. Viva egli nel Cielo, e finché noi viviamo, viva nella memoria nostra: ma dopo noi, viva nella memoria de' posteri, i quali se lo conosceranno, dovranno, né amore m'inganna, averlo caro: e a tal fine comeché io oppresso mi trovi da mille faccende, se siavi bisogno dell'opera mia, di lui ricordevole modestamente io la prometto.
Per ciò poi che riguarda la promessa a lui fatta, e da lui tanto aggradita di dedicargli tutte le lettere che scritte avessi dopo la morte del mio Socrate, e che come credo, continuerò a scrivere finché mi duri la vita, punto non mi rimuovo dal mio proposto. La morte a questo non porta alcun mutamento, né m'impone il silenzio. A lui non posso più scrivere, ma di lui chi può vietarmi ch'io scriva e parli e mi ricordi finché mi ricorderò di me stesso? Mai non sarà pertanto ch'io cangi la mia dedicatoria: quello che promisi a lui vivo e fiorente, pagherò al freddo suo cenere, al nudo suo nome: qual ch'ella sia, quell'opera sarà di Simonide: né dir saprei quanto lunga sia per riuscirmi, ma sarà certo in proporzione della mia vita, la cui durata è incertissima.
Vero è che già comincia ad esser più lunga che io non sperassi, più lunga ancora che non bramassi. Imperocché anche in quegli anni in cui più forte è l'amor della vita, bramai di vivere, ma non solitario e privo d'ogni conforto di vecchie e sperimentate amicizie, le quali già vedi come quasi tutte la morte mi abbia rapite, per modo che sarò fra breve ridotto o alla misera e cruda sorte di vivere senza amici, o alla difficile e dubbia prova di procacciarmene de' nuovi. Ma per non tornare ai lamenti che ad ogni parola si riaffacciano, e mio malgrado prorompono in ogni discorso, prendiamo a trattare di altra materia, sebbene da questa non molto dissimile. Tu vedi, amico, a quale stato siano ridotte le umane sorti; ché a non vederlo e' si conviene o dormire, o esser cieco. Anno di pianto per noi fu il 1348, ed ora conosciamo che al nostro pianto fu quello il principio, né mai d'allora in poi esser cessata questa straordinaria e, da che mondo è mondo, inaudita violenza di morbo, che a modo di ferocissimo battagliere, a dritta e a manca senza intermissione colpisce ed uccide.
Percorso già più volte il mondo intero, e non lasciato paese immune, alcuni per la seconda, altri devastò per la terza volta, e in alcun altro tornò crudelmente a imperversare in ogni anno. Milano città capitale, e metropoli della Liguria, per salubrità di cielo, per dolcezza di clima, per moltitudine di abitanti lieta e famosa, preservata finora da questa peste, ne fu ad un tratto invasa nel 1361 e fatta in un subito squallida e deserta: e tu sai bene qual tesoro perdessi in quella tempesta io che per volere del Cielo me ne trovava lontano. Più mite a quel popolo, ma a me d'assai più crudele fu l'anno seguente che quanto di meglio io aveva nel mondo mi tolse, cioè a dire l'amico di cui, come la terra non ha chi lui somigli, la perdita è tale che a nessun'altra può assomigliarsi: né voglio io qui nominarlo perché il suo nome al pianto non mi costringa, e perché tu già intendi chi egli sia. Anche in Verona seminò quell'anno la strage, e tal governo ne fece ch'essa non sarà più mai quale la videro gli occhi nostri ne' tempi andati. O ferocissimo cuore di crudele tiranno, di cui leggiamo che ti lagnasti della età tua perché colpita non fosse da qualche pubblica tremenda calamità, e desiderasti vedere la desolazione che sparge in mezzo ai popoli la pestilenza, oh! perché risparmiandone a noi l'orrore non concesse la sorte agli empii tuoi sguardi, o Caligola, che si pascessero con gioia feroce di quest'orrendo spettacolo! Ed ahi! quanto lunga e quanto flebile sarebbe la storia degli altri mali di questa età, né dico già di quelli che accadono oltre monti e oltre mari, ma sì veramente de' mali nostri. In una parola: vuoto ormai d'uomini è il mondo; ma pieno di nequizia: e così tutta da pochi si raccoglie l'eredità dei delitti, né dobbiamo meravigliare che tanto siamo peggiori, quanto siamo più pochi, conciossiaché necessariamente debba avvenire che questo veleno delle menti, questa rabbia, questo lusso, questa farragine di vizi costantemente rinfocolata, non mai sminuita, anzi di giorno in giorno sempre accresciuta, tanto più sobbolla e divampi quanto più angusta è la cerchia che la contiene. Ma procediamo innanzi.
Quest'anno terzo, che, a contar dal principio, di tanti mali è il decimo sesto, vide nuovamente infierire il contagio in molte città nobilissime, e tra le altre in Firenze a cui la presente estate fu tanto micidiale e funesta da far quasi dimenticare l'estate di sedici anni indietro: ed all'interna strage si unì il furore della guerra esterna con varia vicenda combattuta coi Pisani, dalla quale grande ad entrambe le parti provenne il danno, maggiore il pericolo, e dubbie più che mai pendono adesso le sorti.
In mezzo a tante sciagure farneticando gli astrologi predicono dover durare il maligno influsso degli astri fino al sessantacinque, e dopo quello doversi mutare, per coloro che vi giungeranno, i tristi casi in lietissimi; e come che non si sappia chi li affidi della veracità del prognostico, certo è che lo fanno: e già sì presso è il tempo da loro predetto, che ben per poco può vacillare la fede ai detti loro: la fede, dico, del volgo facile sempre a porgersi credulo non che agli astrologi, ma a qualsisia temerario spacciatore di promesse profetiche: non già la nostra che fin da ora possiamo far ragione di quel che sarà, rammentando siccome si avverassero le loro promesse per lo passato. Spacciano ora pertanto che Marte e Saturno vadano vagando fra non so quali stelle, e che la congiunzione di quegli astri, per servirmi delle loro, stesse parole, dovrà dopo questo durare altri due anni. Cosa invero da farne le meraviglie che da tanti secoli essendosi aggirati per l'intero spazio de' cieli mai quei pianeti non s'incontrassero in questo luogo: o se vi si incontrarono, cosa ancor più ammiranda che da quella congiunzione tanto diversi si sortissero gli effetti. Di qui non s'esce: o l'uno o l'altro confessino: o provino che alcun che di simile si sia veduto, letto od udito da che creato fu il mondo, e se creato dire nol vogliamo, da che il mondo è mondo.
Se questo non possono, si tacciano una volta, e lascin gli altri tranquilli, né si confidino d'infinocchiarci colle loro tantafere. Nulla sappiamo noi di quel che avviene nel cielo, ed essi di saperlo menano vanto temerario, e impudente; ma di quello che nel mondo è accaduto sappiamo abbastanza. Che sia pur esso nelle sue leggi sconvolto, e ne' suoi moti discorde il cielo, sì che fatti per vecchiezza imbecilli, o per rancore rubelli abbiano i corpi celesti deviato dal corso, e veramente erranti a caso le stelle, rotta ogni legge, scosso ogni freno, lanciandosi come Fetonte fuor del Zodiaco, percorrano irregolari le orbite loro ad eccidio funesto di noi mortali? Queste ed altre stoltezze delle siffatte, anzi che confessare la propria ignoranza, saran capaci di dire costoro, de' quali non la ignoranza soltanto, ma la cecità e la pazzia già mille e mille casi in ogni tempo chiarirono, ma nessuno più di questa pestilenza fece a tutti aperte e manifeste. Oh! si vergognino di se stessi una volta, e confessino di non sapere quel che non sanno, e che di più non v'ha chi non sappia ch'essi nol sanno. Ben più modesti su questo particolare s'addimostrarono i medici, de' quali alcuni fra i più famosi soventi volte dichiararono in mia presenza non aver l'arte loro rimedio alcuno contro questo segreto veleno della crudele natura; ed io della ignoranza loro vorrei perdonarli, se come in questo così nel resto la confessassero. Ma quelli che si vantano astrologi, meglio torrebbero di morire che di confessarsi ignoranti di alcuna cosa. Vergogna, mala abitudine, ostinatezza, amor di guadagno, follia dei tanti che sempre anelano alla cognizione del futuro, son le cagioni che da quella confessione li fa abborrenti. Solo l'eculeo potrebbe loro strapparla di bocca. Uomo non v'ha che a confessare la propria ignoranza si adduca, se un interno affetto di verace modestia non ve lo sproni.
Sanno ben essi (e se ne avessero dubbio, il cielo che a tante loro menzogne solennemente contraddice, ne li convinca), sanno ben essi che fiabe vendono, comprano fiabe, e sol di fiabe alle orecchie ed al petto degli avidi e degli stolti danno pasto e alimento; ma di quelle fiabe vogliono che a tutti resti nascosta la nullità, perché ove questa si paresse, si parrebbero un nulla essi medesimi. Chè tale è ciascuno quali sono le cose ond'egli si piace, e congenere alla natura dell'artefice è quella dell'arte sua. Ecco della loro ostinatezza la prima cagione. Temono di apparire quello che sono, e quel che non sono desiderano parere, perché veramente son nulla, e dalla pessima consuetudine impediti altro esser non possono: e quello scelgono che credono solo possibile, ciò è apparire quel che non sono. Stolti se il credono: finché parlare essi vogliono dei moti celesti, dei venti, delle piogge, del caldo, del freddo, della serenità, delle tempeste, e annunziare l'eclissi della luna e del sole, esser potrà talvolta utile, dilettevole sempre il prestare ad essi l'orecchio; ma se si fanno a predire i casi e le vicende degli uomini che solo da Dio son prevedute, non altro che fabbri di vili menzogne sono da giudicare, e non che i dotti, ma tutti i buoni debbono averli in avversione e in orrore. Mirabilmente peraltro ostinati e perversi, le cose possibili essi trascurano, ed alle impossibili pongono lor opera, e giunge la sfacciataggine loro a tal segno, che queste appunto sentenziano più facili ad essere conosciute.
Non so se forse ti sia giunto all'orecchio quello che or ora avvenne nella guerra di Pavia. Quel magnanimo Signore, che adesso ne tiene il governo, a giusta vendetta di ricevute offese risolse prender d'assalto quella forte e munita città. Era già da molti giorni apparecchiata la spedizione, e tutti gli astrologi, ma specialmente questo nostro cui la fama commenda non qual presago, ma qual veggente delle cose future, ad alte grida chiedevano si sostasse alcun poco, e le spiegate bandiere si trattenessero, finché giunta da essi non si giudicasse l'ora fatale. E come questa all'astrologo parve arrivata, dette egli il segno della partenza, ed al suo cenno le schiere mossero unanimi alla grande impresa.
Or mentre da molti mesi una straordinaria siccità aveva regnato sul cielo e sulla terra, quel giorno appunto vide improvviso aprirsi le cataratte del cielo, e senza interruzione per molti dì e molte notti cadere tanta pioggia impetuosa a dirotta, che inondati ne furono gli accampamenti posti d'intorno alle mura nemiche, e tutte allagate le circostanti campagne, per guisa che poco stette che dalle acque del Cielo non rimanessero affogati quelli che venuti erano a vincere colla forza delle armi: e fu veramente favor del cielo, e singolare fortuna del magnanimo condottiero se tornati con migliori auspicii all'assalto senza attender consiglio dalle stelle, riuscirono i nostri a impadronirsi della città, e a riportar sui nemici compiuto trionfo. Perché nemico qual io mi sono della menzogna non mi tenni dal rampognare quell'indovino, uomo sotto altro aspetto assai dabbene, di straordinaria dottrina, ed a me carissimo, comeché più caro ancora lo avrei se non professasse astrologia, e gli feci amichevolmente rimprovero perché in cosa di tanta importanza avesse messo così poca attenzione da non aver preveduto una sì vicina e tanto pericolosa mutazione di tempo. Mi rispose egli allora esser cosa soprammodo malagevole il prevedere i venti, le pioggie e le altre che diconsi variazioni dell'atmosfera: ed io a lui: — sarà dunque più facile il conoscere quello che a me o ad un altro di qui a molti anni deve avvenire, che non i mutamenti oggi o domani possibili del cielo, della terra e di tutta questa natura a noi visibile, mentre questi da cause naturali, e quelli da soprannaturali cagioni dipendono, cui modera a suo piacere il supremo volere di Dio? — Certo che sì, rispondendo ei mi disse, ma mentre ciò disse, io gli lessi sulla fronte la vergogna: ché sa ben egli come sia vero quel ch'io ne penso, e capace non è di negarlo in cuor suo: sebbene fin dai primordii del presente principato fra lui e me, che allora colà mi trovava, avesse luogo una controversia un poco più seria. Imperocché avendo egli preteso di determinare per oroscopo il momento propizio per consegnare ai tre magnanimi fratelli le insegne del loro dominio, mentre io per loro comando in quella solenne adunanza arringava il popolo, improvvisamente interruppe la mia orazione, e da me distraendo l'attenzione de' novelli Signori e del pubblico, proclamò giunta l'ora che senza pericolo non si poteva lasciare che trascorresse. Ed io che non volli accattar briga contro le pazze opinioni del volgo, quantunque tutta conoscessi la stoltezza di quelle inezie, troncando a mezzo il discorso, mi tacqui. Ma quegli titubante ed incerto, mancare ancora alcun poco al giunger preciso dell'ora felice, e, a me rivolto, eccitarmi perché riprendessi il filo del mio parlare.
Quando ho finito, ho finito, - ridendo io gli risposi; né mi soccorre favoletta alcuna da intertenerne il popolo di Milano. Lo avresti allora veduto sbuffare ansante, e grattarsi dell'unghie la fronte, e mentre gli uni ridevano, gli altri fremevan di sdegno, tutti generalmente tacendo aspettavano, poco stante gridare: — è ora! — Un vecchio soldato fattosi innanzi, porse allora alle mani di ciascuno dei tre principi un bianco, liscio e diritto bastoncello di quelli onde sono formate le chiuse delle nostre città, accompagnandone la consegna con parole di lieto augurio. Tanto lentamente peraltro questo si fece, che se vera è la rota di Nigidio, colla quale gli astrologi, cercan di nascondere, ed invece fan manifesta la propria ignoranza, a buon diritto s'aveva a credere che diverse fra loro esser dovessero le sorti de' tre fratelli. Né fu di fatto altrimenti: ché noto è a tutti come, non ancora un anno passato, il maggiore de' tre fratelli perdesse una delle più nobili città del suo Stato che era Bologna, e poco dopo sul più bel fiore degli anni la vita; mentre degli altri la potenza, e la vita oltre un decennio si prolungò sempre più prospera e più felice.
E ben io soventi volte mi piacqui di farlo considerare a quell'amico indovino, il quale risposemi sempre che nulla di più aspettare potevasi dall'arte sua. E dice il vero, e ad averlo per iscusato io quasi mi lascio addurre dalla grave età sua, e dalla dura necessità in cui si trova di dover mantenere una numerosa famiglia, per la quale raro non è che ad indegni artifici anche le nobili anime talvolta si abbassino: e che questa lo abbia spinto a professare tali insulsaggini me ne persuade una risposta datami un giorno. Imperocché tornando io soventi volte, per l'amore che veramente ho di lui e della sua fama, a fargli gli stessi rimproveri, sebbene e per età e dottrina io mi riconosca assai da meno di lui, mi ricorda che un giorno come se all'improvviso si destasse, mandò fuori del petto un profondo sospiro e: amico, disse, quel che tu pensi lo penso anch'io, ma è pur mestieri che io viva; e intesi allora come la dorata catena del bisogno lo costringesse: perché, mosso a compassione di lui, non dissi più verbo. Del resto la cosa è qui siccome io diceva: tale è la vergogna del confessare la propria ignoranza, tale la smania di acquistare per qualche modo un dominio sopra noi, sulle nostre fortune, e sulla libertà delle anime nostre, che postergata la nobile lode degli onesti studi, si procacciano la turpe fama dell'inganno, e la vergogna della menzogna con giudizi, ché quando son falsi manifestano la frode e l'ignoranza loro, e se talvolta veri riescono, non punto da loro scienza, ma da fortuita combinazione del caso procedono. Era giovanetto Agostino, e perciò appunto non credeva quello che più tardi non solamente credé, ma, fatto nemico acerrimo di simili stoltezze, a tutti gli altri infin che visse insegnò e persuase per vero, a lui già detto da un saggio consigliere: esser questo cioè effetto della sorte, che su tutte le umane cose distende l'impero.
E se questo non fosse, come avverrebbe mai che tante cose con somma diligenza meditate riescono a vuoto, e tante altre annunziate per caso s'avverano a puntino, ed una verità inutilmente cercata con lungo studio ad un che pensa a tutt'altro quasi per giuoco si fa manifesta? Or d'una o d'un'altra cosa che da loro predetta si avveri, menano costoro sfacciatamente trionfo: laddove alle menzogne, che spacciano continue, hanno pronta sempre la scusa, e vanno in collera se alcuno loro le rinfacci. Ed è veramente intollerabile vedere il vanto per una che ne azzeccano, e la nessuna vergogna per mille che ne sbagliano. Vorrei perdonarne l'ignoranza o la miseria, se fossero meno impudenti; ma ignoranti, e temerari, bugiardi e superbi chi può tenersi dall'abbonirli? Inutilmente, lo so, già troppe volte, e scrissi e parlai contro costoro; né già speranza di alcun pro, ma solo l'odio all'impostura mi mosse la lingua e la penna: e della inutile opera mia traggo conforto da illustri esempi.
E qual è mai amico del vero che uomini siffatti non odii e non rampogni? Ma è sempre indarno: ché le parole non montano a nulla, e si vorrebbero per essi non libri e sermoni, ma bastoni e scuri. Nulla al tutto sapendo delle cose passate, e delle presenti, si son fitti in capo di prevedere, anzi di predire come già conosciute le cose future a quei che loro credono. Né soli essi son da tenere miseri e malvagi, ma rozzi dell'intelletto ed incapaci di ogni verità quelli pure che loro prestano fede: contro i quali la verità, la ragione, la sapienza, e non i Santi solamente, ma anche i filosofi empirono di rimproveri i loro volumi. Lascio le sudate e robustissime opere di Cicerone, di Ambrogio, di Agostino che né al tempo convengono né allo spazio di una lettera, e a tutti notissime, sarebbe inutile il rammentarle a chi è un poco versato nella lettura. Una sola sentenza piacemi di riportare, che Ambrogio lasciò a parte registrata nel libro che scrisse intorno alla morte di Satiro suo fratello, sentenza non so qual più tra breve e vera. I filosofi, ei dice, quando parlano del cielo non san pur essi quel che si dicano.
So che costoro audaci tanto quanto ignoranti si faranno le beffe di Ambrogio: si ricordino per altro che parlar contro lui è come parlare contro lo Spirito Santo, di cui egli era pieno allora che scrisse. Ma che è questo che io dico? Rispetteranno le lingue e le penne dei Santi perché sono organi del divino Spirito costoro che lo stesso Spirito divino hanno in dispregio? Né maggior conto certo faranno di quella sentenza d'Isaia: «Se foste capaci di predire le cose future, noi vi terremmo per Iddii.» Imperocché come ignoranti gli scrittori del Nuovo Testamento, così stolti essi reputano i Profeti, e per dirlo in poco, dall'egiziano Tolomeo, e dal siciliano Firmico in fuori, tutti gli altri essi tengono a vile. E vadano essi alla malora, e i loro errori tornino in pro nostro, così che quanto più turpemente dalla verità allontanarsi noi li vediamo, tanto più tenacemente ad essa noi ci apprendiamo. Ma per finirla una volta con costoro, e non isprecar più parole con questi sordi, io ti darò in due parole il mio giudizio intorno a tutte le promesse e le minacce loro, e con un solo precetto di meravigliosa brevità t'insegnerò ad essere indovino. Fa' di por mente a qualunque cosa essi predicono; e tieni per fermo che avverrà il contrario. Chi vorrà seguir questa via di divinazione riuscirà tutto l'opposto a quello che essi sono, cioè a dire, assai di rado bugiardo, e il più delle volte veridico.
Quello dunque che io speri della promessa fine del morbo micidiale, tu già lo intendi, e chiuse al tutto le orecchie alle odiose e ridicole menzogne di questi astrologi, se tu vuoi sentire il prognostico che ne fa l'amico tuo, non consultando gli astri, le folgori, le viscere, gli uccelli od altre sorti, ma solo in silenzio ascoltando quel che gli detta la prudenza del proprio senno, e se a cotal mio presagio tu stimi doversi aggiustare qualche fede, io ti dico che i nostri mali nascono tutti dall'ira di Dio. E già da lungo tempo di questo io son persuaso: né prima avrà fine che pentiti, e corretti gli animi a diverso tenore di vita si convertano, o vinta dai meritati supplizi, ceda e si prostri l'umana pervicacia, che si parve, siccome vedi, ostentare la sua inflessibilità, ed indurire sulla incudine sotto i colpi del martello che la percuote. Intanto non altro rimedio è da cercare che vivere in modo da tenerci ad ogni chiamata apparecchiati, per guisa che mai come nuova ed improvvisa non ci atterrisca questa, che se in ogni tempo da chi stolto non è si deve prevedere inevitabilmente vicina, molto più è d'aspettarsi d'ora in ora da che cogli occhi nostri vediamo sotto questa universale rovina andar sommersi quasi tutti gli amici nostri, e quanto avemmo al mondo di più diletto e più caro: e se alcuna reliquia n'era rimasta, or questa pure travolta nel comune naufragio. Ecco l'unico rimedio a mali siffatti, e solo di questo io ti conforto a fare sperimento. Fuggir dalla morte è cosa impossibile: lo scrissi non ha guari ad un altro amico, né muto sentenza.
Chiudi ad ogni prestigio gli occhi, ad ogni menzogna l'orecchio, volgi le spalle ai medici ed agli astrologi, ché quelli offendono il corpo, questi la mente, e solo al vero, al celeste Creatore ti porgi divoto. Se l'aere dalle vicende della natura, e da qualche sconosciuta causa corrotto, se, come a taluno piace di dire, qualche ignota costellazione a noi nemica è cagione di tanto danno ai mortali, allora il danno avrà fine, quando per virtù di raggi solari sarà l'ascoso miasma o consunto, o distrutto, o trasportato lontano da noi ad infettare altre terre: ma o che questo, o che quello debba avvenire, prenunziarne il tempo non possono gl'investigatori degli astri: solo il Creatore Supremo è quegli che lo conosce, o forse per grazia di Lui qualche anima sapiente e divota cui siasi degnato di rivelarlo sol'egli Iddio, e non già Marte o Saturno. Pretender che questi lo insegnino è fola di ciurmatori che vorrebbero farci soggetti alla dominazione degli astri, eludendo per quanto è da loro i consigli di Dio, e distruggendo la libertà dell'umano arbitrio, cui stoltamente ragionando s'avvisano quindi di ristorare coll'asserire che agli astri il sapiente impone sue leggi: e così mille menzogne accolgono in una: perocché né gli astri al sapiente, né il sapiente agli astri, ma a quello e a questi non altri comanda che solo Iddio. E d'onde mai se non dagli astri, secondo la folle opinione di cotestoro, ottenne la sua sapienza il sapiente che si confida di dominare su gli astri?
Oh! vana ambage d'insulso discorso, o stolto e turpe accozzamento di assurde parole indegne che sano orecchio pur solo le ascolti. Com'esser può che a sé tenga gli astri soggetti chi nulla possiede che non gli venga dagli astri? Qual è mai legge che al feudatario sommettesse il signore del feudo, e non quello a questo? Ben a se stesso può comandare il sapiente, se sommesso a Dio, e riguardando a Lui, col freno della ragione moderi il corso della sua vita; agli astri per altro né può, né pur potendo vorrebbe ei comandare: ché come degli uomini, così degli astri ha solo Iddio il governo: e di questo pienamente convinto a Lui si piace di servire il sapiente, pago di non servire ad altri che a Lui, e non che del cielo, ma e della terra che abita punto non ambisce il dominio, e sta contento all'uso. Che se veramente, al dire di questi impostori, potesse il sapiente dominare sugli astri, sia che dagli astri stessi, o che d'altronde a loro venisse un tal dominio conceduto, quanti mai non sarebbero i servi, se solo i sapienti fossero i dominatori e non i servi? Ben potrei dalle Sacre Scritture trarre argomenti infiniti a dimostrare come sempre pochissimi siano stati i sapienti, e quanto vero s'abbia a riputare quel detto di Salomone essere degli stolti il numero infinito: ma di questa verità meglio è trarre la prova dalla esperienza. Guardisi ognuno d'attorno nelle più grandi e popolose città, e dica con quanti sapienti gli avvenga giornalmente d'abbattersi: faccia ognuno sue ragioni, e vegga quanti furono i sapienti con i quali ebbe a trattare: e purché nome di sapiente egli dia non a quelli che tali proclama la fama corriva o la sua opinione e quella del volgo, ma sì a coloro che per lodevoli fatti, e per onorata condotta della vita lo meritarono, io sto pagatore che a contarli sulle dita non avrà bisogno della mano destra.
Conciossiaché quando io dico sapiente non intendo già di quella sapienza che gli stolti attribuiscono ad ogni avvocatuzzo, né di quella pure che alcuni, uomini dotti riconoscono in chi sa molte cose. Una cosa è esser sapiente, ed un'altra essere letterato. Di costumi qui si tratta, e non di cognizioni, le quali se ad un animo virtuoso s'aggiungano, lo adornano grandemente e lo aiutano, ma possedute da chi è vizioso, ed inchinevole al male, non giovano mai, e nocciono spesso. E questo agevolmente io potrei con molte evidenti prove dimostrare: ma chi è che non sappia come furonvi uomini dotti che con mali consigli sovvertirono l'ordine pubblico, o accesero con le loro parole gravi discordie, e spinsero armate schiere a vicendevole esterminio, e, quel che è peggio di ogni altro male, infettarono le anime, e per tutto il mondo diffusero il veleno delle loro dottrine? Non dunque l'ingegno, ma il buon volere, non l'eloquenza del discorso, ma la pratica della virtù costituisce l'uomo sapiente.
Nessuno, secondo alcuni, secondo altri uno solo meritò il nome di sapiente: onore che dai nostri a Catone, e nella Grecia da Apollo fu a Socrate attribuito: i Greci stessi ne contano sette, e quanto giustamente essi sel veggano: né di quei sette i nomi io ripeto, che nelle scuole sono notissimi. Saranno stati per avventura anche più: ma quella vanitosa e millantatrice nazione si tenne contenta a quel numero, che pure a molti parve eccessivo sì che lo volsero in derisione. Si fa presto a dir sapiente; ma ben molto si vuole ad esser tale: e se cogli occhi veder si potesse tutto quello che manca a divenir sapienti in coloro che di tal nome menano vanto, ne verrebbe il rossore sulla fronte anche de' più sfacciati ed impronti. Io non dirò più raro un sapiente della fenice, che ad ogni cinquecento anni rinasce, ma egli è per certo un uccello rarissimo, né vola a stormo, né in qualunque luogo fa il nido, né sopra qualunque ramo si posa, né ad ogni primavera si riproduce; e Cicerone il nascer di lui stima più raro del parto della mula, straordinario tanto che si riguarda come prodigio. Quand'anche adunque alla forza degli astri possa imporre freno questo sapiente che al mondo è solo, o rarissimo, agli altri, a tutti gli altri che rimane da fare? Non altro che vivere in servitù degli astri, e servitù non de' corpi soltanto, ma e dell'anima, che d'ogni altra servitù è la più miseranda.
Ma costoro di questo non si danno briga: ché la salute degli uomini avendo a vile, ad altro non mirano che a trarne lucro, non agognano ad altro che a farne preda, e questa sperar non potendo da uomini liberi, né farli schiavi a se stessi, schiavi li fanno degli astri, spacciandosi consiglieri, e mediatori fra gli schiavi e i padroni. Vedi perversa temerità di promesse, vedi stoltezza di paurosa credulità per le quali avviene che d'ogni colpa si dichiara l'uomo innocente, e reo Iddio; imperocché, come osserva Agostino, mentre per volere del cielo dicono essi all'uomo inevitabile il peccato, e ne pongono cagione a Venere, a Marte, a Saturno, l'uomo che è carne, sangue e vile putredine si dichiara incolpabile, e tutta ne ricade la colpa sopra il Sovrano creatore, e reggitore della terra, e del cielo, bontà per essenza, e fonte indefettibile di ogni giustizia. Ma poiché voglio finirla davvero, siccome già sopra io m'era proposto, con questi ciarlatani, contro i quali mi lasciai nuovamente trasportare dall'ira, riguardando al flagello che ci percuote come a semplice effetto di cause naturali, contro di esso pur voglio darti quello che a me si pare più salutare consiglio; ed è quello stesso che dissi or ora: dalle miserie di questa vita, che in mezzo a mille pericoli ci stringono e ci travolgono, doversi da noi cercare rifugio presso Colui che fonte è della vita e scaturigine di ogni bene.
Se poco d'acqua raccolta in vasello pieno di crepature e di pertugi fosse rimasto ad un viandante, che vedendola a poco a poco trapelare temesse dover fra non molto morire di sete, qual altro miglior partito ei s'avrebbe che cercare un perenne ruscello ed una fonte cui l'acqua non venga mai meno? Non per questo peraltro io crederei doversi trascurare qualche prudente cautela, e quella sopra ogni altra del mutarsi di luogo; e loderò che volgendo le spalle ai paesi dove più cruda infierisce la peste, per alcun tempo a respirare un'aura più salubre tu ti trasporti. Così dalla procella nel porto il nocchiero, sotto il tetto dalla pioggia l'agricoltore, dentro onesto albergo ripara da qualunque pericolo il savio viandante, sebbene intrepido per natura, e messo alle strette fra il disonore e la morte, questa piuttosto che quella saprebbe fortemente incontrare. E tale appunto era il consiglio dato a me da quei due cari amici, i quali, ahi! me misero, non seppero valersene a propria salvezza. Tanto è più facile consigliare altrui che se stesso! Se pure non s'abbia a credere che liberi essi non fossero di se medesimi, o da qualche fatale necessità impediti nella elezione.
Tu dall'umana prudenza, o per dir meglio dalla divina provvidenza guidato, quando in buon punto da Napoli ti dipartisti, non alla tua Firenze, ma per più lungo cammino a me venisti, quantunque e l'una e l'altra città fosse tuttora immune dall'orrendo contagio. E della pietosa e felice tua scelta io bene mi rallegrai godendo in me stesso che me alla patria avessi preferito, e Dio ringraziando della prudenza o della fortuna che t'aveva messo in salvo. Solo mi duole, e teco ancora a viva voce mi dolsi, che troppo presto da me tu ti fossi partito. Imperocché quantunque si dicesse colà cessato al tutto il contagio, sai bene come in queste cose il volgo o mentisce, o per lo desiderio che ne ha anticipa le buone novelle. Ma l'amor della patria ti stimolava, né forte abbastanza a trattenerti era il piacere della mia compagnia, illanguidito dalla dimora che meco avevi fatta per tre mesi: ond'è che fatto a me inesorabile tu volesti tornartene a casa tua, né io poteva impedirlo, né lagnarmi perché mi posponessi a quella che a me avevi infino allora anteposta. Ma l'amore, come tu sai, occhi ha di lince, e orecchie di cinghiale, e a me pur giunse incerto rumore che duri ancora costì qualche avanzo del morbo, né sia perfettamente svanito il pericolo.
Deh! se ciò è vero, per l'amor che ti porto, io ti prego, e ti scongiuro, amico mio, torna da me. Togli dalle angustie un che t'ama più ancora che prima non t'amasse, e se vuoi saperne il perché, perché gli amici per lui son fatti più rari. Nessuno più che il monocolo ha in pregio il lume degli occhi. De' vecchi amici, come io ti diceva, quasi solo tu mi rimanesti; ché del nostro Barbato non so quello che mi pensare, se si trovi negli Abruzzi, o fra i Peligni. Vieni dunque invocato: ecco t'invitano la mite stagione dell'anno, non altre cure che quelle piacevoli e gioconde delle Muse, una casa saluberrima che non ti descrivo, perché appieno tu la conosci.
Ti attende una eletta di amici, di cui non so se si dia la migliore. Quegli che, col fatto adempiendo quel che promette col nome, il Benintendi cancelliere di questa nobilissima città, poiché davvero tutto il giorno alle pubbliche bisogne, alle private amicizie, ed agli umani studi fu ben inteso, in sul far della sera con lieto volto ed amico viene nella sua gondola a rinfrancarsi con piacevole conversare dalle diurne fatiche: e tu per prova or ora conoscesti quanto dilettevoli e soavi riescano quelle notturne passeggiate sul mare, e que' sinceri e schietti colloqui con un uomo di quella fatta. E qui pur egli ti aspetta il nostro Donato Appeninigena, che dai toscani colli, già da lunghi anni abbandonati, venne a fermarsi su questo lido dell'Adria, Donato dico, che a noi si volle donare, e che dell'antico Donato ereditò col nome la professione, dolce, schietto, amorevole a noi è noto, a te più che altri mai. Gli altri non vo' ricordare, perché bastano questi. Conciossiaché sebbene a me non sia mai piaciuta quell'assoluta solitudine che abborre da ogni uomo, né possa approvare il costume di quel Bellerofonte, che rodendosi il cuore fuggiva ogni orma impressa da piede umano (intorno al quale molte cose come meglio seppi discorsi ne' due libri che sulla vita solitaria, già è tempo, dettai nel mio campestre ritiro), pure ho sempre pensato che di alcuni pochi compagni ha bisogno l'uomo dotto e sapiente, come quegli che, se alcuno non ne abbia, imparò ad avere se stesso collocutore e compagno.
Che se poco ti aggradì questa dimora, o mal ti affidi la incostanza della stagione autunnale, quantunque a parer mio a rendere il cielo puro e sereno più che il soffio di zefiro, e di borea, valgano i lieti aspetti e le desiderate conversazioni degli amici, noi di qui partiremo, e forse utile e dilettevole al certo m'avrò date la spinta e la compagnia per andarne a Capo d'Istria e a Trieste, dove per lettere di fede degnissime, so che regna una dolcissima tempra di clima. Questo infine avrà di buono il tuo ritorno, che teco, siccome da lungo tempo mi proposi, potrò visitare il fonte del Timavo celebrato dai poeti, eppure da molti dotti non conosciuto; e non ne' dintorni di Padova, ma là veramente la cercheremo dove di trovarlo son certo. Che dell'errore fu causa un verso di Lucano, il quale lo disse vicino ad Abano ne' colli Euganei, ma i più corretti cosmografi lo collocarono nel territorio di Aquileia, Onde per nove foci in cupo suono Ripercosso dal monte in mar si gitta E i circostanti campi allaga e introna.
Addio.
Di Venezia, a' 7 di settembre.