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Percorso : HOME > Scriptorium > Petrarca: Seniles > Lettera III a Giovanni Aretinolettera III a Giovanni Aretino
Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova
LIBRO DECIMO TERZO
LETTERA III
A GIOVANNI ARETINO
Ignoti hominis
Ne accetta l'amicizia e gli dà precisa contezza dell'origine sua, e del luogo de' suoi natali.
[Arquà, 9 settembre 1370]
Ignoto l'aspetto, ma noto mi era il nome di chi mi scrisse la lettera che lessi con infinito piacere. Fu già un altro Giovanni d'Arezzo, cui, finché egli visse, mi strinse lunga e costante amicizia. Al nome dunque di Giovanni Aretino, che così dolce sovente mi sonava all'orecchio, mi parve quasi da lungo sonno esser riscosso: e sollevando la testa e lo spirito, con gioia sentii di quel dolcissimo amico in me rinfrescarsi la memoria.
Ma dell'aver conosciuto ora in te un altro Giovanni d'Arezzo assai pure mi piacqui per l'indole tua nobilissima, per la gravità del tuo stile, che in te d'età giovanissimo quello si pare d'uomo già canuto, e soprattutto per lo affetto e per lo amore che dimostri per me, cui non so se veduto abbia tu mai, ma cui certamente non conoscesti; amore che non potrebbe esser tanto né tale, s'egli non fosse che alcun falso concetto del merito mio ti avesse tratto in inganno. Grande per vero dire, se così fosse, sarebbe l'errore tuo; ma sarebbe pur nobile, ed in codesta età tua degno ancora di lode. Conciossiaché nuovo il caso non sia che dall'altrui fama, comeché non giusta, eccitati, molti, lasciandosi dietro le false scorte che prima seguivano, si mettessero nella strada che li condusse alla gloria.
Or tu mi dici bramare, e bramando mi preghi che io voglia la sterile mia amicizia concederti, e a te dirigere sol una mia lettera perché serbarla tu possa come raro tesoro e preziosa reliquia a durevole onoranza di te non solo ma e de' posteri tuoi. Non sono io no, non son quel desso, amico mio, che tu credi: e ben di pochi, come tu sai, è il privilegio di render famosi quelli cui scrivono. Indarno tu lo speri da me, che del bel numero punto non sono.
E come potrei ad altri comunicare quella fama, che con tanto stento non seppi procacciare a me stesso? Non perché dunque tu n'abbia vanto, ma perché non si paia ch'io non ti curi, ecco ti scrivo; e di buon grado lo faccio, sebbene messo nelle angustie, ed oppresso da una farragine di cose, per la quale, venendomi meno il tempo, io son costretto ad essere breve, e tu dovrai aver più caro il buon volere che mi muove a soddisfarti del tuo desiderio. Né questa fretta torrà ch'io risponda a quello che tanto premurosamente da te si chiede, cioè se vero sia ch'io nascessi in Arezzo come per avventura ti venne udito, e vorresti che fosse, stimando che alla patria tua tornar ne potesse alcun lume di gloria. E sì che veramente per lo natale dei grandi uomini, comeché prima oscure ed ignobili, vennero alcune terre in celebrità ed in rinomanza.
Di Omero incerta ancora è la patria, ed hanno per essa lite fra loro diversi popoli, ché ciascuno per sé lo vuole, e del suo nome si fa glorioso. Certo è però che Pitagora a Samo, Biante a Priene, Talete a Mileto, Democrito ad Abdera, Anassagora a Clazomene, Senocrate a Calcedonia, Zenone ad Elea, Aristotile a Stagira, Teofrasto a Lesbo, nascendovi, procacciarono fama immortale: e dei nostrani Cicerone Arpino, Virgilio il meschino e povero villaggio di Andes nel Mantovano, Agostino Tagaste, e Girolamo Stridone resero per tutti i secoli illustri e famose. Ma né son io, te lo ripeto, da ragguagliare a codesti, né ad esser tenuta nobile abbisogna del nome di chicchessia la patria tua, che fin dai primordi del Romano Impero sappiamo essere stata una delle tre capitali città dell'Etruria. Poiché però tanto ti affanni a voler di questo sapere il vero, io ti dirò più ancora che tu non chiedi, ciò è che in Arezzo veramente io nacqui; e precisamente in quella interna viuzza della città, che ha nome l'Orto, non solamente sbocciò, ma fu pur seminato quest'arido fiore, questo insipido frutto che mi son io. Erano di Fiorenza i miei parenti, ma cacciati in esilio quando, secondo l'usato costume de' nostri paesi, banditi dalla patria i migliori, parte a Bologna e parte in Arezzo trovarono pietoso ricovero.
E qui mi piace narrarti cosa ch'io m'avviso ti sarà grato conoscere. Sappi dunque che nell'anno del giubileo tornando da Roma io passai per Arezzo, ed alcuni nobili tuoi concittadini, che facendomi onore mi vollero accompagnare fuor delle mura, senza dirmi nulla mi condussero a quella strada, ed ivi additatami la casa in cui nacqui, non grande invero né ricca, ma quale alla condizione di un esule si conveniva, tra le molte cose che mi narrarono ve ne fu una, alla quale, per dirlo colle parole di Tito Livio, prestai piuttosto meraviglia che fede: cioè che venuto talento al padrone di quella casa di restaurarla ed ingrandirla, ne fu dal magistrato a lui fatto divieto, perché punto non si mutasse da quella che era, quando fra quelle mura alle miserie ed ai travagli dell'umana vita nacque quest'uomo omicciattolo, questo miserabilissimo peccatore. E la mostrano a dito i tuoi concittadini, e assai più generosa si porge Arezzo ad uno straniero, che non Firenze ad un figlio.
Ma siffatte cose so bene doversi con animo forte tollerare, e le amare temperar colle dolci, quantunque siano più quelle che queste: il che facendo, come per mille altri favori, così specialmente a Dio mi porgo grato e riconoscente perché mi dette intelletto e cuore acconcio al bisogno. Eccoti pago, e dalle tue preghiere vinta la mia pigrizia, vinti gl'impedimenti delle mie tante faccende. Non posso però ristarmi dal dirti che se vuoi avermi amico, ti è d'uopo astenerti da codeste smodate lodi a me non punto dovute.
Trattami secondo che io merito: non blandirmi con carezze e con lusinghe: pungi, taglia, ferisci, brucia sul vivo: ché se non questa età, ben la passata mia vita te ne offre materia. Spontaneo ad eloquente discorso ti si porge il soggetto. Se ti è noto il mio nome, noti ti saranno puranco i vizi miei. Dar lode a chi non la merita è impresa vana e costa inutile fatica. In somma se mi vuoi bene, di me cogli altri parlando di' quello che vuoi: ma con me parla il vero come io ti chiedo, e come a ciascuno di noi e dirlo ed ascoltarlo si conviene. Finché son vivo non panegirici da te voglio io, ma satire.
Addio.
Di Arquà, fra i colli Euganei, 9 settembre.
NOTA
Sue sono i Giovanni d'Arezzo amici del Petrarca. L'uno fu l'Aghinolfi cancelliere del marchese di Mantova, ed il Petrarca lo conobbe nei primi anni della sua gioventù, quando viveva in Avignone presso il cardinal Colonna. L'altro è questi cui è diretta la presente lettera, e, secondo che narra l'abate Melius (Vita Ambros. Camald. col. CCL), ebbe nome Giovanni di Matteo Feo; perocché in un codice della biblioteca Gaddiana di Firenze vi si legge a capo: Egregio doctori Iohanni Matthei Fei civi Aretino, ed ha la data: Arquadae V idus septembres 1370. Lui di persona non conobbe il Petrarca che ad una lettera da lui ricevuta, e che probabilmente è quella riportata da Bartolommeo Fonti nelle sue Ricordanze (Cod. della Bibl. Riccardiana di Firenze, N° 111, N° XVI, pag, IX), rispose colla presente, la quale è fra le più importanti dell'epistolario, come quella in cui ci vien data precisa contezza del luogo de' suoi natali, dell'origine sua, de' suoi parenti e degli onori fattigli in Arezzo quando egli vi passò tornando da Roma nel 1350.