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lettera III  a Tommaso del garbo

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

 

 

LIBRO OTTAVO

LETTERA III

A TOMMASO DEL GARBO FIORENTINO

 

Peregrinam ac iucundam

 

Qual sia più potente se l'Opinione o la Fortuna.

[Pavia, 9 novembre 1366]

 

 

 

Quanto bella e piacevole, tanto vasta e profonda materia di ragionare mi avresti tu messo innanzi, se da una parte mi avessi ingegno e tempo a svolgerla sufficiente, e tu dall'altra interrogandomi mi avessi lasciato alcun che da rispondere. Ma poiché di quello che mi chiedi hai già tu stesso con sommo artificio detto quasi tutto che dire se ne poteva, meglio che risponderti, a me si conviene ammirarti. Rinnovato hai con me l'esempio del Salvatore, che fattosi ad interrogare i dottori della legge, insegnò loro, se sordi non erano, quel che dovevano rispondere. E per vero dire le precise domande e le sottili questioni che dagli uomini dotti intorno a qualunque cosa si propongono, implicitamente sempre contengono una nascosta dottrina. Imperocché a dubitare mai non s'inducono se non per gravi cagioni, e queste esponendo a coloro che mai non ne avevano concepito dubbio veruno, porgono ai loro ingegni eccitamento ad un tempo ed istruzione. Or questo meglio che mai io vidi avverato per la domanda tua. Sottile veramente ed incerta è la questione, che, a pro mio, come dici, ma in realtà per comune vantaggio tu mi proponi, qual cioè tra le due sia più potente se la Opinione o la Fortuna da te riconosciute entrambe potentissime.

E cominci dall'esporre dell'opinione gli effetti molteplici e meravigliosi, per cui si vede un animo debole violentemente fra diverse ed opposte sentenze agitato vacillare incostante, e dall'una passare nell'altra per guisa che spesse volte s'adagia alfine nell'errore. E il ciel volesse che avvenisse questo di rado, sì che vero non s'avesse a tenere il proverbio esser di tutte le cose donna e regina l'opinione. E perché mai, se non per questo che tu dici (aggiungo or io), mentre l'uno fra le ricchezze si crede povero, un altro si stima nella mancanza di tutte le cose ricchissimo? A quello l'opinione mostra esser poco quel che possiede, e molto quello di cui abbisogna, a questo fa parere abbondanza l'inopia, e mette in cuore il disprezzo delle ricchezze, per guisa che contento dei beni dell'animo, riguarda come incomodo imbarazzo ogni bene della fortuna. E per la stessa ragione mesti e piangenti vediamo talora alcuni che godono fior di salute, e ridere e stare in tripudio altri che inferme hanno le membra e farnetico il cervello.

E se di tanto è capace la falsa opinione, di che non sarà capace la vera? Guarda come franco e sicuro passeggia colui sopra una fragile ed angusta trave che di poco si solleva sopra la terra, e vedilo tremar di paura sulla cima di solidissima ed alta torre. Uguali in ambo i casi sono la forza e l'agilità delle sue membra, uguale la portata della sua vista, più fermo più solido il secondo che non il primo sostegno de' piedi suoi: solo più debole è in lui l'opinione, anzi a dir meglio, solo questa è più forte, poiché riesce ad abbattere il suo naturale coraggio per modo che tremi sopra saldo terreno, mentre reggesi impavido sopra instabile fondamento. Ti sovverrà di aver letto come quel Cassio, il quale unitamente ad altri con mano audace (cui non oso chiamare scellerata per non definire con una parola la dubbiosa natura di quell'azione) trafisse Giulio Cesare, quando nei campi della Tessaglia le furie civili nuovamente infiammarono i petti romani, agitato da paurosi affetti credé vedersi venire incontro a spron battuto e tutto in armi Cesare stesso, e tanta fu in lui la possanza dell'opinione, che cui vivo e imperante non temé ferir di coltello, a lui sepolto ed esanime con grida di spavento e di orrore vilmente fuggendo volse le spalle. Nulla si può dire di certo del ratto di Paolo, perché dice di non sapere egli stesso se fosse uscito del corpo, o in quello rimase. Ma delle stimate di Francesco questa certamente è l'origine; tanto assiduo e profondo essere stato il suo meditare sulla morte di Cristo, che piena avendone l'anima, e parendogli d'essere anch'egli crocifisso col suo Signore, poté la forza di quel pensiero passar dall'anima nel corpo, e lasciarvene impresse visibilmente le tracce.

Né io mi tratterrò a parlare della forza di quella pestifera opinione che tutto ammorba quanto è lungo e largo il mondo, per la quale da pochissimi tenuta in pregio la virtù e la scienza, sono dall'universale degli uomini come beni maggiori di ogni altro tesoro reputate la ricchezza, la potenza e la voluttà. E questa io credo la scaturigine prima delle tante miserie in cui viviamo, ond'è che a ragione la perversità delle opinioni da molti si riguarda come radice di tutti i mali. Ma perché perdermi in oscure e lontane ricerche, se sotto gli occhi e qui in casa hommi le prove della forza dell'opinione? Tu che dei medici sei, non dirò il primo, perché non voglio giudicare di altri cui per avventura io non conosco, ma certamente dei primi e famosissimo, sai per esperienza quanto intolleranti siano gl'infermi, e come anche per lieve malattia, escano tutti in pianti e in lamenti.

Tutto dì tu li ascolti dolorosamente esclamare: ohimè che è questo ch'io soffro? Qual mai peccato mi fece degno di tanta pena? Ahi che nessuno patì mai tanto!» Si leggono ancora in Cicerone i lamenti di Ercole e di Prometeo, ma quelli che senti tu son tali e tanti, da disgradarne e questi e quanti altri ne scrissero gli antichi tragici. Ebbene quest'uomo grandissimo, questo Galeazzo Visconti iuniore, signore della Liguria, che mosso dalla fama del tuo nome ti chiamò perché lo curassi, ecco già da più che dieci anni è tormentato dalla podagra: né già solo ne' piedi, onde quel male ha tolto il nome; ma nelle mani, ne' gomiti, nelle spalle, in tutto il corpo, per guisa che intorpidite, anzi rattratte e fatte immobili l'estremità inferiori, non solamente il mutare anche un passo, ma pur lo star ritto gli è reso impossibile.

E tutto questo egli soffre con tale magnanima costanza, che mentre standogli attorno noi non possiamo rattenere le lacrime alla vista degli acerbi e crudelissimi dolori che lo dilaniano, solo egli guarda impassibile, qual se fosse d'un altro, il suo corpo straziato da tanti tormenti, e costringe gli astanti ad ammirare stupefatti un tal prodigio di pazienza in uomo di carni delicatissime, cresciuto fra le mollezze, e per colmo di dolore e di sdegno (se all'uno e all'altro ei piegasse l'animo forte) giovane ancora degli anni e robusto, ed usato ad esercitare le membra in faticosi e lunghi viaggi, nei travagli della guerra, nel maneggio delle armi, e nelle giostre cavalleresche. Interroga quelli che notte e giorno gli stanno d'accanto, e udrai da loro come non solamente sempre asciutto le ciglia, ma sereno l'aspetto, mai non gli sfugga dal labbro un gemito, un lamento, e solo si oda ripetere: «Di molti beneficii mi fu liberale il Signore: e se a tanto di bene mescer gli piacque quest'unico male, nessuna ragione io m'ho di lagnarmi di lui, al quale per tanti e tanti favori debbo esser grato. Sia dunque benedetto il nome di Dio.»

Oh! degno invero per mio giudizio che in premio di mansuetudine e di fortezza sì grande sortita avesse più prospera la salute: se non che forse Iddio nella imperscrutabile sua prescienza tutte librando le cose, soventi volte i mali del corpo ordina alla salute dell'anima. Né sola in lui si pare fra tanti tormenti la pazienza, ma fan di sé bella mostra ad un tempo la magnanimità, la costanza, la provvidenza, la vigilanza, la liberalità, la moderazione negli eventi felici, l'intrepidezza ne' casi avversi, e quel ch'è più mirabile in tale stato del corpo, e fra tante minacce e tanti rivolgimenti della fortuna, un animo invariabilmente uniforme e operoso nell'intendere alle più nobili cure, che proprie sono di chi regna. Dal quale esempio mirabilmente si conferma, e si pare ad evidenza quello che disse il Romano Imperatore Settimio Severo, essere necessaria a chi comanda la testa, e non i piedi.

Piacquemi intrattenerti alcun poco parlando di lui, che entrambi amiamo, vorremmo entrambi veder risanato, e cui porgiamo tu coll'arte tua quanto ad umano ingegno è concesso, io quello che solo per me si può, aiuto di caldi voti e di fervide preci. Né mi parve fuor di proposito il ragionarne un po' per le lunghe, e perché ad entrambi egli è caro, e perché l'esempio di lui acconcio tornava al mio discorso. Conciossiaché d'onde è a dirsi che nasca tanta diversità, che l'uno con femminile intolleranza non sappia sopportare i piccoli mali, e l'altro con fortezza più che virile talleri i più gravi tormenti, se non da quella forza dell'opinione, di cui noi parliamo, per la quale stima quegli il dolore essere la più grande delle umane miserie, e questi crede che solo dell'animo si può essere infelice, e che chi questo non piega è invulnerabile; onde avviene che questi accidenti, cui va il corpo soggetto, altro non sono che malagevoli esercizi della virtù per sua natura delle difficili cose appetente, ed aliena dalle piacevoli. Finalmente da questa stessa cagione deve ripetersi che alcuni incontrano lieti e tranquilli quella morte da cui la maggior parte degli uomini aborre e rifugge: perché cioè, se la morte uguale è per tutti, diversa è la opinione degli uomini intorno a lei.

Vengo ora alla seconda parte della tua lettera, in cui parlando della fortuna ne esageri la potenza. Né sei tu solo, ché quasi tutti gli scrittori, avvenga che con diverse mire, ugualmente si sforzano a magnificarla. Crispo dice di lei che su tutte le cose ha signoria: e mi piacerebbe avesse aggiunto dalla virtù in fuori. Cicerone la chiama delle umane cose dominatrice. Virgilio, che in moltissimi luoghi si fece seguace di Omero, su questo particolare tanto da lui si allontana, che mentre questi mai non nomina la fortuna, perché come dicono non ne credeva la esistenza, il poeta nostro, non solamente la nomina, e ne riconosce il potere, ma in un certo luogo la dice onnipotente.

Né ignoro io già che alcun altro de' nostri antichi, come giustamente ebbe osservato Agostino, e alcuno ancora de' moderni la collocò come Diva nel cielo: di che grandemente mi meraviglio, se pure essi non vollero seguir parlando quell'errore del volgo, cui allude il satirico là dove dice: te pur Fortuna Abbiam qual Diva, e ti lochiamo in cielo. Ella è peraltro una vergogna che anche i sapienti per aver seguaci si facciano a camminar sulla strada battuta dal volgo, a cui chi volta interamente le spalle, quegli veramente è da dire filosofo. Del resto pur troppo moltissimi sono coloro che il favore della fortuna non solo alla virtù, ma anche all'aiuto divino mettono innanzi, e meglio di quella che non di Dio vogliono essere amici. Perché non è meraviglia se credano gli uomini essere veramente qualche gran cosa colei, che in [469] tal concetto è tenuta dai dotti e dagl'indòtti, e con mirabile consentimento esaltata dal genere umano in tante cose diviso e discorde.

Or che dovrò io pensarne e che dirne? Conosco il libro di Aristotele Della buona fortuna, e mi ricordo di aver letto in Cicerone: Chi è mai che non sappia grande essere la forza della fortuna tanto ne' prosperi casi, quanto negli avversi? Se spira a seconda de' nostri voti il suo vento, i nostri desideri si adempiono; se soffia in contrario, ci coglie la sventura.» Ma ho pur presenti alla memoria le considerazioni di Lattanzio intorno a quel passo. Primieramente, egli dice, costui che nega potersi alcuna cosa saper con certezza, di questa afferma che non egli solo, ma tutti la sanno: e poi egli che le cose più vere revoca in dubbio, tiene come certa questa che sopra tutte le altre doveva parergli dubbiosa, perocché i sapienti l'hanno per falsa. Chi è che lo sappia, egli dice, io non lo so: fa' di mostrarmelo tu se puoi: fammi vedere che cosa sia cotesta forza, cotesto vento che spinge e respinge. E non è ella una vergogna per uomo di tanto ingegno l'affermar cosa che se tu la neghi, ei non possa provare?

Finalmente egli che a frenare la troppa facilità del consenso insegna esser proprio sol degli stolti l'assentire inconsiderato a cose che non si conoscono, si lascia qui andare nella sentenza del volgo ignaro, che crede il bene ed il male distribuirsi agli uomini dalla fortuna. Le quali parole di Lattanzio io forse ho citato innanzi tempo perché direttamente contraddicevano a quelle di Cicerone. Del resto io so bene come Agostino avendo più volte in certo suo libro nominato la Fortuna, per fuggire che altri a colpa glie l'apponesse, circospetto e prudente siccome è sempre, se ne accusò da se stesso.

Or mentre quell'uomo santissimo trattando cose di sacro argomento, tanto ebbe a schifo quel profano nome della Fortuna, io miserabile peccatore, inteso peraltro a cure secolaresche, udendolo sulla bocca di tutti, e scritto trovandolo in ogni libro, lo ripetei mille volte nelle mie opericciuole: e tanto fui lungi dal pentirmene che scrissi non ha guari un libro avente per titolo: I rimedi dell'una e dell'altra fortuna, ove non già di due Fortune, ma di una sola a due facce tenni lungo discorso. Quale di questo libro sia il merito, quei lo diranno cui venga letto od udito.

Quanto a me, poiché v'ebbi dato l'ultima mano, mai non impresi a rileggerlo con attenzione, né feci in me prova dell'efficacia dei rimedi da me proposti: ma posi in lui qualche amore da che seppi aver esso trovato favore e grazia presso alcuni preclarissimi ingegni. Di questo subbietto adunque tanto trito e comune avendo io non solamente più volte parlato, ma scrittone un libro ex professo, quantunque dettato com'era per la comune degli uomini e non per i filosofi, io vi adoperassi il linguaggio seguito dal costume dell'universale, non mi tenni dal fare, come per lontano cenno, con brevi parole conoscere qual sia veramente la sentenza che io tengo riposta nell'animo, dal quale ognun sa come costantemente io rigetti gran numero delle opinioni che il volgo ha per vere. Ed ora, poiché tu lo vuoi, parlerò ancora più chiaro: sebbene utile e sicuro più del parlare a me sarebbe l'udire quel che altri ne pensi: ma ad uomo quale tu sei negar non posso risposta. Dissi dunque, e ripeto, che, come da molti insigni scrittori, così da me meschino ed oscuro venne nominata la Fortuna che rammentata si trova nelle opere sacre e nelle profane. Ricordati che Agostino parlando del Fato, che se non è la Fortuna stessa, è certamente alcun che di affine a quella, disse: se pure il Fato non trasse il nome da fando, cioè dal parlare. Imperocché negar non [471] possiamo che leggesi nelle Scritture «parlò Iddio sola una volta» e quel «sola una volta» significa una volta per sempre, irrevocabilmente. Sotto quest'aspetto pertanto non vedrei male alcuno nel credere al Fato, se non fosse che con quella parola comunemente s'intende tutt'altra cosa, dalla quale vogliamo che assolutamente abborra la mente umana. E in altro luogo del libro stesso: I regni, egli dice, del mondo, dalla divina provvidenza si stabiliscono. Or se dal Fato alcuno li riconosca, sotto il nome di Fato intendendo la volontà ed il potere di Dio, restisi pure nella sua sentenza, e muti sol la parola.

E in fede mia, se così s'interpreti, ammetto anch'io con Marone ... il grande ineluttabile Fato. Che se tanto sono efficaci, tanto potenti le parole dei Re della terra, che dovremo dire di quelle uscite dal labbro di Dio? Finsero Omero e Virgilio che, quantunque immutabile, potesse il Fato cedere alla violenza: ma il Fato, di cui qui sopra fu detto, né può mutarsi, né differirsi, né v'ha violenza, fuga, o pretesto che valga a trattenerlo o ad evitarlo. Ma nel significato che al nome di Fortuna dà il volgo, e insieme con quello una gran parte de' letterati, apertamente io ti dico, né temo la taccia che me ne venga d'uomo ignorante, che io credo lei non esser nulla. Ma, come dirai tu subito, scrivesti tu dunque di cosa che sapevi e credevi essere il nulla? Ed io ti rispondo che la Fortuna veramente ho sempre stimato esser nulla: e che soltanto raccolsi e scrissi quanto mi parve opportuno dei rimedi acconci a francheggiare l'animo umano contro gli eventi ché il volgo chiama fortuiti, accagionandone la Fortuna. Né mi parve di cambiarne il nome perché non volli con inutile [472] controversia infastidire il lettore e inimicarmelo.

Credesi generalmente che quando accade alcuna cosa senza cagione apparente (ché senza causa veramente non accade mai nulla), avvenga per caso, e s'imputa alla Fortuna. Un padre di famiglia in procinto di mettersi a lungo viaggio, né avendo cui cedere il suo tesoro, va e lo sotterra, per scavarlo quando ritornerà. Ma avviene che partito una volta ei più non torni, e dopo lunghi anni un contadino vangando, o un architetto scavando le fondamenta, trovi il tesoro. Né l'uno né gli altri a questo avevano pensato: quegli intendeva a nascondere la sua pecunia, questi a coltivare il podere o a fabbricare la casa. All'uno ed agli altri, si dice, fece la fortuna il suo giuoco: all'uno tolse, e dette agli altri. Io sono cieco, e nulla scerno di questo che vedono tutti. So che il padre di famiglia nascose, che l'agricoltore o l'architetto trovò l'oro e l'argento: so che d'istromento servirono il vomere o la zappa: e che quello o questa erano mossi dalla mano, dal braccio, dall'aratro, dai buoi. Va quegli allo studio a Bologna, o per devozione a Roma: e colto in un agguato dai ladroni vien morto, Richiamato dall'esilio Marcello, pieno di gioia si affretta a rivedere la patria, ed un empio nemico miseramente lo uccide per via. Opera, si esclama, della loro fortuna.

Io guardo e vedo il giovane studente, il peregrino devoto, il cammino dell'uno e dell'altro, il buon cittadino ingiustamente esiliato, Mitilene ove stava a confino, Atene dove fu ucciso, i malandrini, il nemico, le spade, l'assalimento, i colpi, il sangue, le cose insomma e gli uomini che le fanno, ma da queste in fuori altro non vedo. Di mezzo a tutto questo cerco la Fortuna di cui tanto si parla; e non ne vedo pur l'ombra. Dicono alcuni, quello stesso impensato ed improvviso concorso di eventi essere la Fortuna: e tanto basta a conoscere il vero. Imperocché qual altra cosa tu vedi in quegli eventi tranne gli eventi stessi, ciò è dire le ferite, gli spogliamenti, le uccisioni di cui né il fato, né la fortuna, ma solo gli uomini si debbono accagionare?

 A buon diritto pertanto con quelli io consento che pensano la Fortuna essere un nulla; e perché non dicasi che do per mie le altrui dottrine, dirò che di questa materia, come altri molti, così specialmente quei due sopra da me nominati, Agostino, e nel libro delle Istituzioni Lattanzio Firmiano, fecero dotti e sottili ragionamenti.

Giusta pertanto e pietosa fu la risposta di quei cristiani fratelli, che tratti ai tormenti e alla morte, dalla bocca dell'empio giudice udito proferirsi il nome della Fortuna, risposero ignorare i Cristiani quel ch'ella sia. Alla qual sentenza, oltre quei due che dianzi io diceva, consente Ambrogio là dove scrive non esistere il Fato, e Girolamo dove Fato e Fortuna dice esser nulla. Se dunque io ne parlo, lo faccio perché il volgo m'intenda: ma in verità ne penso anche io come quelli, e poiché il mio pensare è conforme ai dettami della religione, punto non curo che altri lo dica o stravagante o contrario alle dottrine di qualche filosofo. Già questo più volte io mi sentii rinfacciare e a parole e in iscritto: non mai però così chiaro. Perché persuaso non potersi l'opinione contraria tanto potente quanto nella parte prima di questa lettera io discorsi, per forza di ragione dalle accecate menti degli uomini diradicare, né agevolmente correggere il loro linguaggio universale, e non volendo accattar brighe senza bisogno, m'accordo nel parlare coi più, e nel pensare co' meno; e mentre uso parole che dalla fortuna prendono la loro etimologia, son però sempre fermo nel credere che la Fortuna non esista. Se però s'avesse a tenere per vera la sentenza di coloro, i quali vogliono ad ogni modo che la Fortuna sia qualche cosa, e questa conoscono o nella Provvidenza di Dio, che in modi all'uomo occulti, a sé notissimi, le cose tutte del mondo regge e governa, o in una qualche ignota ministra ed esecutrice de' divini voleri (la quale non so peraltro come immaginare leggendo ne' libri santi: egli disse e fu fatto); se questo, dico, si avesse a tenere per vero, punto non mi lascerei dubitare dal definire la tua questione, affermando di una Fortuna così fatta esser la forza superiore a quella di qualunque opinione.

Conciossiaché sebbene l'opinione sia intrinseca all'uomo, e la fortuna sia estrinseca, la Provvidenza di Dio, o la esecutrice di lei, irresistibilmente comanda all'anima, che l'opinione ricetta, al corpo e a tutte quante sono le cose create. Eccoti detto in fretta, fra molte brighe, senz'aiuto di libri, e tra gli apparecchi del viaggio, tutto quello che, attentamente considerando la tua domanda, a me si parve poterti rispondere. Lascio peraltro a chi è più dotto di me, e a te innanzi agli altri, il proferire più certo giudizio, pronto ad abbracciare quella che tu potessi dimostrarmi più sicura sentenza.

Sta' sano.

Di Pavia, a' 9 di novembre.

 

 

 

NOTA

Poco dobbiamo affaticarci nel cercare notizie di colui al quale questa lettera fu indirizzata. Da Dino Del Garbo medico fiorentino a' tempi suoi famosissimo nacque Tommaso celebre anch'egli nella paterna professione. Tenne cattedra di quella scienza in Perugia circa il 1320, e verso il 1345 a Bologna. Sono sue opere i commenti a Galeno sulla differenza delle febbri, e sul trattato intorno alla generazione del feto; un consiglio sul modo di vivere in tempo di pestilenza, ed una Somma della medicina, che rimase imperfetta per la sua morte. La quale il sullodato Tiraboschi egregiamente stabilisce avvenuta tra il luglio ed il novembre del 1370, e lo deduce da due lettere del nostro Petrarca, che sono le prime del lib. XII delle Senili dirette entrambe al medico padovano Giovanni Dondi. Imperocché sono queste lettere ambedue scritte nel 1370, la prima in luglio, l'altra in novembre. Nella prima adduce il Petrarca la testimonianza di Tommaso, che dice testem vivum et fide dignum intorno alla robustezza della propria complessione: nell'altra ecce, gli annunzia, mortuus est ille conterraneus meus quem nudius tertius viventem, nunc ab hac luce digressum prior epistola in testem meae complexionis acciverat. Non può dunque dubitarsi della esattezza del computo fatto dal Tiraboschi.

Quanto però alla data di questa lettera, che, secondo il Tiraboschi medesimo, dovrebbe fissarsi al 1369, io sarei del parere dell'Abate De Sade che fosse piuttosto da riferirsi al 1366. Certo è ch'essa fu scritta quando Tommaso Del Garbo chiamato da Galeazzo Visconti intendeva a curarlo della podagra. Ed è vero ciò che nella citata lettera 1, del lib. XII delle Senili, che è del 1370, dice il nostro autore di quella testimonianza sulla robusta sua complessione fatta da Tommaso anno altero apud Ticinum ubi tunc eramus sub amico illo tuo Ligurum Domino. Queste parole peraltro se provano che del 1369 Tommaso del Garbo trovavasi col Petrarca a Pavia, non escludono che a curare l'illustre infermo ei fosse stato chiamato anche tre anni prima. D'altra parte vedendosi ordinariamente nella disposizione di queste lettere seguito l'ordine cronologico, ed essendo tutte queste del lib. VIII dell'anno 1366, né incontrandosene del 1369 fino alle ultime del libro XI, io crederei che questa lettera 3ª dei lib. VIII, fosse da riferirsi alla fine del 1366, e che in quell'anno fosse Tommaso chiamato a medicar Galeazzo, cui poi tornò a visitare nel 1369, siccome apparisce dalla lettera 1ª del lib. XII.

Ed in questa opinione mi conferma il rammentare ciò che nella Nota alla lett. 9ª del lib. IV delle Familiari dicemmo intorno al tempo in cui dal Petrarca fu compito il trattato de remediis utriusque fortunae, che fu appunto del 1366. Imperocché dicendo di quel trattato in questa lettera ch'egli lo avea scritto novissime, sembra più naturale che la lettera fosse dettata nell'anno stesso che non tre anni più tardi dopo che quello aveva compiuto.