Percorso : HOME > Scriptorium > Petrarca: Seniles > Lettera I a Papa Urbano 

lettera I  a Papa Urbano

Immagine di papa Urbano V

Immagine di papa Urbano V

 

 

LIBRO NONO

LETTERA I

AD URBANO V PONTEFICE MASSIMO

 

In exitu Israel de Aegypto

 

Si congratula del suo ritorno a Roma, e lo conforta a rimanervi e a non più tornare in Avignone.

[1367]

 

 

 

Nell'uscita d'Israele dall'Egitto e della famiglia di Giacobbe da quel popolo barbaro esultarono gli angeli in cielo e le anime dei buoni tripudiarono in sulla terra. Ed ecco tu, Beatissimo Padre, quanto è da te, rendesti felice il popolo cristiano. Più non sarà costretto di andar vagando in cerca del suo Signore o del vicario di lui sulla terra: ma quello su nel Cielo e nell'interno dell'anima sua, poiché l'uno e l'altra sono sede di Dio, questo troverà nella sede sua propria, cioè a dire in quella sede che Dio medesimo si ebbe scelta, e dove il primo de' suoi vicari tenne sua stanza infine che visse, e morto ancora si rimase. Quasi sole risorto dopo lunga notte tu fugasti l'errore delle tenebre e riportasti il sereno nel mondo. Oh! te felice che puoi piacerti di sì grand'opera. Pareva impossibile, e tu l'hai compiuta. Ma teco era quel Dio che disse agli apostoli suoi: Senza me voi non potete far nulla.

E questo è merito tuo singolare, rarissimo, che mentre Dio creatore e conservatore, dell'umano genere a molti, anzi a tutti si porge guida e consigliere, tutti o quasi tutti da sé lo respingono e si fanno seguaci del mondo, della carne, del demonio, della superbia, delle voluttà e d'ogni peggiore nequizia, che curvi tenendoli sulla terra, loro impediscono di sorgere e di arrendersi alla mano che Dio stende loro per sollevarli: ma tu consapevole appieno della umana imbecillità non solamente non respingesti l'aiuto celeste, né turasti le orecchie ai salutari consigli che dal suo spirito ti venivano al cuore, ma lo invocasti con quelle devote preci e con quelle lacrime pietose, che han virtù di ottenere divina mercede; e poiché quegli a cui mai invano non si ricorre, ai tuoi preghi benigno porgendosi venne e ti stese il potente suo braccio, a lui facendoti incontro tutto a lui ti abbandonasti, e la fedele anima tua interamente ponesti in sua balìa. E so che in segreto e chetamente tutto questo tu adoperasti per impedire che, conosciuto l'avvicinarsi a te del Signore, i suoi nemici, che sono nemici pur tuoi, non attraversassero sul bel principio l'adempimento dell'alta impresa. Ma poiché maturati con lui nel silenzio i consigli, nel preso proposto ti fosti risolutamente confermato, apertamente svelandolo, e lui seguendo per duce, ponesti mano alla grand'opera, e superate le comuni speranze, magnificamente la consumasti. Oh! te felice, e felicissimo il giorno in che dall'utero materno uscisti qual astro novello ad allietare la terra.

Or sì che in te ravviso il vero, il massimo, il Romano Pontefice, a buon dritto chiamato Urbano, successore vero di Pietro, vero vicario di Gesù Cristo. Tale, io non lo nego, eri ancor prima per podestà, per dignità, per officio: ora peraltro è fatto chiaro che tale sei pure per volontà, per pietà, per esercizio. So bene che somma la pietà, e santa in te fu sempre la volontà: ora però sì fattamente coll'opera si manifesta, che più non è chi non la veda, e non confessi essere al tutto impossibile con maggior prontezza e con più grande prudenza di quello che tu facesti, la volontà, che per se stessa è sterile, mettere in atto. Tu in pochi giorni riparasti al danno ed alla negligenza per sessanta e più anni continuata da cinque Pontefici a te pari di grado ma non di animo. Deh! poiché nulla io ti chiedo, nulla bramo da te fuor che la tua benedizione, permetti, o padre beatissimo, che scevra di ogni sospetto di adulazione io renda lode pienissima a quello che di pienissima lode reputo degno, siccome, e tu lo sai, liberamente voglio riprendere quello che di biasimo mi sembra meritevole. Uomo, omiciattolo qual io mi sono osai più volte non solo gli altri principi della terra, ma i due più grandi luminali del mondo, le due maggiori spade della giustizia, e te che sei l'uno di quelli, non è gran tempo passato, tanto arditamente ferire, che l'averlo fatto o ad eccesso di fede, o a vera demenza mi si doveva imputare. E sia pure chi mi accagioni di questa: io mi so bene che solo la fede mi spinse a scrivere siccome feci.

Me accende vivissimo il desiderio del pubblico bene, e poiché vivendo vidi le cose del mondo andare alla peggio, vorrei se possibile fosse, vederle ricomposte innanzi ch'io muoia; e dopo Iddio altri non vedo che possa i miei voti trarre ad effetto fuori che te, e quell'altro che delle temporali bisogne è moderatore supremo. Or come medica mano punge ed unge, così mi pare che farlo alla mia fede pur si convenga, quantunque forse all'uno ed all'altro officio io mi sia disadatto. Sebbene poco abbia io imparato, molto ho letto, e di molte cose nel breve corso di questa vita fui testimonio d'udito o di vista: ma francamente affermo nel nome di Cristo vero Dio, che né veduta né udita mai nel secolo nostro, anzi nemmeno mi venne mai letta impresa alcuna che a questa grandissima ora eseguita da te per intenzione, per sapienza o per effetto si possa paragonare. La più gran parte de' principi, e mi duole il dirlo, de' prelati eziandio non d'altro sono solleciti che di se stessi, e de' piaceri e vantaggi propri. Tu magnanimamente, posti in non cale ed obliati gli affetti che come uomo ti avrebbero a tutt'altro sospinto, solo fra tutti i Pontefici dell'età nostra non ad altro intendesti che al bene pubblico.

Oh! veramente insigne, e se non unico, rarissimo esempio ai tempi nostri di amore alla virtù, e di disprezzo ai piaceri: sebbene a chi vede il vero sia manifesto non essere al mondo piacere più grande, più durevole e più sicuro di quello che provasi nel servire ai voleri di Dio, e nell'adempiere i propri doveri; ma de' piaceri io parlava a cui si lascia prendere il volgo, e che dirittamente si oppongono alla eterna salute. Questi dal retto calle costrinsero a deviare i cinque che ti precederono nell'alta tua dignità, traendoli a forza con terrene blandizie e con carnali lusinghe. Ben essi ora intendono quanto meglio sarebbe stato per loro seguir la ragione che l'appetito, e mantenere col fatto quello che colle parole alcuno di essi aveva promesso: comeché superflua al tutto debba stimarsi la promessa di adempiere il proprio dovere. Oh! quanto meglio ad essi si conveniva operare con quella onestà che al grande loro officio addicevasi, di quello che darsi vinti alle lusinghe de' sensi passaggeri e caduchi, e mascherare la verità con falsi artifici, prendendosi giuoco di Colui del quale sta scritto: Odiasti tutti coloro che operarono il male, e perderai tutti quelli che parlano la menzogna.

A nessuno tanto disdice la doppiezza e la finzione quanto al Romano Pontefice, che puro e costante deve procedere siccome il sole, cotalché di lui possa dirsi quel che un amico già disse di un duce Romano, esser più facile trarre il sole fuor del suo corso, che non lui rimuovere dal suo proposto e dal sentiero della virtù.

Tu, vero padre della Chiesa, nulla a parole, molto col cuore avendo promesso, conosciuto com'ella giacesse inferma, e giovandoti del consiglio di espertissimi medici, dal tristo esilio al luogo nativo e a respirare aure purissime la riportasti. Ma non così fu a te facile il farlo come a me il dirlo: gran fatica, grand'arte, mirabile accortezza di acuto ingegno e prudente si vollero per svellere ad un tratto e senza offesa di alcuno la bella pianta, che messe aveva così profonde le sue radici. Ma che dissi senza offesa? con gravissima offesa di molti, e con acerbo dolore tu lo facesti: ma quella stessa mano che recò la ferita seppe mitigarne e curarne l'asprezza. Grazie siano dunque, immortali grazie prima a Dio, poscia a te, poiché questi occhi miei videro alfine quello che senza speranza pur tanto ardentemente bramai, ricondotta cioè alla sua sede la madre mia, ove, te sano, non potrà più essere inferma, e ricondotta da te, sotto le cure tue riprenderà il suo primiero vigore. Applica ad essa, o Padre Santo, tutte le forze del sacro tuo ingegno, a cui non può venir meno in tanto bisogno il lume di Colui, che per soccorrere alle presenti necessità innalzare ti volle all'altissimo officio. Correggi i costumi, rinfranca la debolezza, raffrena l'avarizia, allontana l'ambizione, torna in onore la sobrietà dimenticata, scaccia la sozza libidine, stimola il languido torpore, rattieni l'ira bollente, rimetti nel retto cammino chi ne deviò per invidia, raumilia le altere fronti de' superbi: ché ben tutto questo tu puoi, cui non avrebbero potuto coloro, ne' quali, per lunga dimora fra questo lezzo, s'era il costume convertito in natura. A te cresciuto ed educato nelle contrarie virtù tutto riuscirà piano ed agevole. Il più difficile già l'hai compiuto: su dunque pone mano a quel che resta.

Come all'antica sede riconducesti la Chiesa alle tue mani affidata, così fa' di ricondurla agli antichi costumi per guisa che torni a parersi irreprensibile e veneranda agli occhi del mondo intero, qual era un giorno, e quale, sia detto in pace di quelli che n'ebbero colpa, non fu pur troppo da lungo tempo. Nato alla grand'opera fa' tu di compierla. Ammonisci i tuoi Cardinali, e ad uno ad uno, e tutti insieme li esorta che si ricordino di esser uomini, né sempre a darsi sollazzo, ma pensino ancora qualche volta alla morte e alla vita eterna. Aguzzino gli occhi, e vedranno nulla quaggiù esser durevole, ma tutte le mondane cose brevi e fuggevoli più del vento, tutto nella vita nostra dubbio, variabile, vacillante, caduco: e vane le cure, fallace la speranza che si paiono nutrire di star saldi sopra un labile fondamento, affannandosi nella ricerca di cose ridicole e dispregevoli. Imperciocché con infinita mia indignazione e dolore, intesi esser tra loro alcuni che si crucciano di non trovare in Italia il vin di Borgogna. Oh! non fossero mai nate, o così tutte potessi tu divellere e sperdere quelle triste viti, se spremere si doveva da quelle un succo tanto funesto alla Chiesa di Cristo.

Solo che alcun poco di carità accogliessero in petto verso Dio, verso gli uomini, e qualche amore serbassero alla sede di Pietro, alla propria fama, alla salute del popolo, vergognerebbero di rivolgere a sì basso segno le loro cure. Ma se alcuna pure ve ne rivolgono (ed io del supposto sento montarmi in viso quel rossore di cui non sono essi capaci), se questo vile affetto non sanno deporre, né v'ha ragione che possa guarirli da tal frenesia, pensino almeno che a sbramare la sete onde sono tormentati facile e piana hanno la via, di cui parmi aver detto abbastanza nella prima lettera che ti diressi: alla quale però son costretto dal dolore che provo ad aggiungere qualche altra cosa non ostante la reverenza che ti professo. I primi apostoli de' quali costoro sono i successori, con pietoso studio cercavano qual fosse la terra su cui potessero per Cristo versare il sangue loro: e nessuno di loro ascese al cielo senza averlo versato. Ahi! quanto diversa cura agita il petto degli apostoli d'oggidì. Cercano questi qual sia la terra ove migliore si sprema il sangue dai grappoli per innaffiarne le loro avide gole: né solo di questo ragionano ne' lauti conviti, ove dal luogo trarre potrebbero forse la scusa, ma anche in mezzo alle conferenze de' più gravi negozi. Non quello ove vivano numerosi gli uomini dabbene, ma quello ove migliori si fanno i vini è il paese prediletto ai successori degli apostoli: ivi per essi è Sionne, ivi Gerusalemme, ivi Roma.

E fossero almeno giusti giudici nell'accordare questo primato: ché non avrebbero potuto per tanto tempo prediligere Avignone con manifesta ingiustizia a tante altre città: imperocché tutti sanno come, se non vi si porti, nulla ivi si trova di buono. Avvi peraltro il fiume, essi dicono; e volesse il cielo che questo pure già da mille anni si fosse disseccato, o piuttosto che mai non fosse venuto fuori dalle viscere della terra, se doveva esser esso cagione all'esilio della Chiesa. E di questo fiume dicono mirabilia, quasi non avesse simile al mondo. Ma se punto si piacessero nella lettura delle antiche storie, saprebbero sul Rodano essere non la sede de' Pontefici, ma il soggiorno de' rei e de' condannati all'esilio, e costoro non so perché lo tengono come se fosse un fiume del paradiso: anzi so perché tale lo stimino: ciò è perché apporta loro il vin di Borgogna, ch'essi riguardano come quinto fra gli elementi della natura.

Ma tu usato a nutrirti di pane e d'acqua, e ad avere per bevanda di lusso la posca, mostra a costoro la tua paterna indignazione, rampognali, sgridali, puniscili, e contro i loro appetiti spiega il rigore con cui domasti i tuoi. Sogliono contro i vizi massimamente sdegnarsi quelli che ne sono esenti: chi ne partecipa a mala pena si scuote per grandi misfatti. Né lo sdegnarsene basta a punirli: di zelo fa d'uopo e di potenza. La vita monastica, eremitica, religiosa, il digiuno, e sopra tutto la naturale tua frugalità ti sono cagione ad aborrire i golosi: il Papato ti pone in grado di castigarli. Ascoltaci tu pastore d'Israele, tu che conduci Giuseppe come una pecorella, egregio pastore di greggia eccellente bada che le agnelle non lasciviscano.

E pensa che di tutti i vizi quelli che l'uomo maggiormente inviliscono, e lo fanno quasi simile ai bruti sono appunto la gola e la lussuria. Insegna a' tuoi figli ed a' fratelli tuoi a disprezzare quello che amarono, ad amare quel che temerono ed aborrirono. Comincino ad odiare se stessi poiché tanto odiarono quel che dovevano amare. Degna d'essere impressa a lettere d'oro è quella sentenza di Agostino: Nessuno può amare perfettamente l'oggetto a cui vien richiamato, se quello non odia da cui si distacca; e poco appresso: Né mai diverrà quale brama di essere se prima non aborre da quello che è. Agli occhi loro smarriti, che cercano ancora le brutte case e le paludose campagne del Rodano, mostra tu i bei luoghi salutari d'onde il custode delle porte celesti, e il dottor delle genti, entrambi, come canta la Chiesa, giudici del secolo, e veri luminari del mondo, trionfando l'un colla croce e l'altro colla spada, salirono cinti d'immortale corona ad assidersi nel senato della corte celestiale. Accenna loro col dito poco lungi dalla porta della santa e vasta basilica il luogo in cui Simon Pietro fu sospeso al patibolo della croce, d'onde con in mano le chiavi del regno eterno volò nel grembo di Cristo.

E poco più lungi addita ad essi dove l'apostolo Paolo lume del mondo intero, curvata sotto il ferro la testa, patì pur egli per Cristo glorioso martirio. Assai volte queste cose cantarono e lessero anch'essi di quegl'invitti campioni, ma quei luoghi forse non videro mai: ed io mi confido che a quella vista ne rimarranno colpiti, e sentiranno vergogna di quegli altri profani luoghi ed infami, ne' quali non per retto giudizio, ma per torti affetti e per mala consuetudine avevano posto il loro amore. Chiamali a riguardare cogli occhi della mente quel venerando e santo vecchio che fu Pietro, quando non per andare in cerca di un raro vino, ma per giusto timore della morte che gli si minacciava, partì da Roma, e vistosi a mezza strada venire incontro Cristo Signore, vinto siccome dicono da una sola parola di lui, incontamente si rifece sui passi suoi e tornò intrepido ad affrontare il supplizio; e vedano poi pendente da una croce colui, dal quale, se al tutto sconoscenti ed ingrati non siano, debbono ripetere i loro dorati scanni, gli sgabelli eburnei, e quanto essi posseggono di ricchezza, di eminenza, di gloria. Volgansi quindi a riguardar meditando il tronco capo del gloriosissimo Paolo, vaso di elezione, emporio di celeste dottrina, sole splendidissimo di nostra fede: e lo ascoltino invocare morendo ad alta voce e fino all'ultimo respiro il suo Gesù. Prodigioso monumento del fatto vedonsi ancora su quel luogo tante fontane quanti furono i punti del terreno che toccò quel santo capo rimbalzando poiché fu spiccato dal busto: e al suono di quelle voci, al gustare di quelle acque miracolose io mi confido che sentiranno non solamente nascersi in cuore aborrimento alle transalpine melodie, ed alle povere fonti che son presso il Rodano, ma che infiammati da sete più nobile, porranno in eterna dimenticanza il vino di Borgogna, che ignoto a tutti gli scrittori antichi e moderni, né mai noverato tra i vini più preziosi, venne poi da costoro tanto esaltato, e messo quasi a pari col nettare degli Dei, che io non seppi tenermi dal parlarne con giusto sebbene iracondo disprezzo.

E sia pure che al gusto generalmente lo si trovi gradito: se nuoce alla vera salute, dovranno averlo gli amici della virtù in quell'orrore medesimo che si prova per un veleno che sia dolce. Ma come dissi, e questo vino può aversi in Roma con tutta facilità, e senza di esso in Roma si può vivere, non solo con frugalità e parsimonia, ma in mezzo alla profusione di lauti cibi e di squisite vivande. Tante peraltro sono le cose le quali, se non chiudano gli occhi, ad ogni piè sospinto ivi a loro si fanno presenti, che se alcun pensiero li punga o di terrestre onore o della gloria celeste, ben d'altra soavità che di questa debbano farli contenti e beati. Ma poiché di queste già molte volte mi venne in acconcio di tenere lungo discorso, e chi a parlare imprendesse dei prodigiosi monumenti di Roma mai non troverebbe la fine del suo dire, lascio il resto al tuo prudente accorgimento, e a quello torno per cui mi proposi di lodarti ed ammirarti. E sebbene alla grandezza dell'ammirazione che per te provo nell'animo male rispondano le forze del mio povero stile, mi adoprerò a sollevarlo perché l'interno affetto come dentro mi ragiona in questo scritto si manifesti, non cercando lode alcuna di eloquenza, ma bramando solo che chi mi legge senta veramente quello che io sento. Tutta, o beatissimo Padre, io pienamente comprendo la intensità degli ostacoli e delle fatiche da te sostenute nel mandare ad effetto la magnanima impresa: tutta la comprendo non altrimenti che se ti fossi stato continuamente d'appresso. Parmi sentire le blande lusinghe e il cupo mormorare dei Cardinali affaticati a farti recedere dall'alto proposto ed a tenerti lontano dal passo a cui per obbligo del proprio stato avrebbero dovuto confortarti e sospingerti. E parmi cosa mostruosa, incredibile che Cardinali della Chiesa Romana possano la città e la Chiesa di Roma siffattamente odiare, temere, o disprezzare.

E chi è mai da costoro in fuori, che possa non amare il luogo onde prende un Titolo, da cui gli viene onore, e lucro? Tutti sanno, e ne stupiscono tutti che uomini tanto reverendi, sapienti, dottissimi solo verso la madre di loro tanto benemerita si dimostrino insensibili anzi crudeli, e per consumare gli ultimi avanzi di una vita fuggevole in luogo orrendo ma da essi prediletto, punto non curino quello che da loro richiede la cura della propria salute, il ben della Chiesa, l'interesse del genere umano, la volontà di Dio. Tranne i pochi Italiani, che, a mio credere, attendevano desiosi il riscatto d'Israele, e che vissuti nell'esilio anelavano a chiudere i loro giorni nella patria ch'è patria comune, e tranne il fratello tuo, che teco cresciuto fin dall'infanzia e solito ad ammirarti ed imitarti, nulla mai volle e disvolle se non con te, gli altri tutti stimavano non di finire ma di cominciare l'esilio, e quindi dal finirlo aborrivano. Oh! forza immensa della cattiva abitudine. Tu fosti capace di cambiare in esilio la patria, ed in patria l'esilio. Le quali cose ben volentieri, siccome meglio si conveniva, a coloro avrei scritto ai quali si riferiscono, se a me non fosse da gran tempo notissima la loro superba arroganza, che disprezzando sdegnosamente ogni parola di ammonizione e di consiglio, li avrebbe fatti più pertinacemente ostinati.

A lui dunque io mi volsi, che innocente di ogni colpa solo ha diritto a correggere altrui, e che non alla mordacità dello stile, né alla condizione riguarda dello scrittore, ma solamente alla verità di quanto egli dice ed alla intenzione con cui lo dice. Lasciando dunque da parte costoro, dai quali menomamente non dubito che buono e clemente quale tutti ti conoscono avrai tu sofferto infinita molestia per vincerne gli errori insanabili, e la inflessibile ostinatezza, lasciandoli dico da parte, siccome quelli che alla fine tu potevi frenare a tuo senno, o disprezzarne il temerario contrasto, io so bene che a te fu d'uopo anche i Principi e i Re, ai quali per vantaggio della Chiesa amico e benigno ti porgi, soavemente ammonire e gravemente persuadere a mutar consiglio e sentenza, perocché questi pure concordi ai Cardinali nutrivano affetti direttamente contrari al tuo proposto. E primo fra loro inclito figliuolo della Chiesa il Re di Francia, per devoto ma giovanile ed inconsiderato affetto a sé bramando vicina la madre, senza por mente ai vantaggi e al decoro che le verrebbero dallo allontanarsi da lui, mentre tu meditavi la partenza, ai santi piedi apostolici già preparati al pietoso viaggio cercò di porre lacci ed ostacoli, e a te, siccome è fama, mandò un eloquente e dotto oratore, che al cospetto tuo e dei tuoi fratelli avidamente pendenti dal suo labbro in nobilissima orazione levò a cielo le lodi della sua Francia, e si studiò di deprimere e d'invilire l'Italia. Grande, difficile assunto in fede mia, e, non che a lui, arduo, per non dire impossibile, a sostenersi da chicchessia. Perocché può talvolta l'artificio della parola velare la natura delle cose, ma mutarla non può.

Ed oh! così avess'io potuto trovarmi allora in faccia a lui, ed essere da te stimato degno di ribattere le sue calunnie. Quantunque ad esso inferiore di condizione e d'ingegno, francheggiato dal vero gli avrei dimostrato, giudice te, tutt'altrimenti da quel ch'ei dice procedere la bisogna; e se fidato alla giustizia della sua causa egli vuol meco venire su questo tema a letterario certame, quantunque oppresso da mille faccende, e rifinito dalla fatica, ecco io mi offero ad un duello per la verità e per la patria. Scriva pur egli o quello che già disse, o quant'altro gli paia opportuno. Ultimo degl'italiani risponderò io a cotesto francese, e scritta sarà la disputa più concludente che a voce. Fuggono le parole, e gli scritti rimangono: quelle a pochi, questi a molti; quelle ai presenti soltanto, queste agli assenti ancora ed ai posteri si tramandano. E prendendo Cristo e te a giudici, io mi confido di far toccare con mano che false al tutto sono le cose da quella lingua maledica, comeché dotta e faconda, non per mandato altrui, ma per suo volere soltanto, siccome io credo, recate in mezzo. Credo di conoscere abbastanza il senno maturo, e la senile prudenza del giovane Re, del quale già è tempo in gravi negozi esperimentai la singolare urbanità di modi, e la squisitezza del cortese linguaggio.

Ch'egli a lui commettesse di pregarti e di metterti innanzi le lodi della Francia, lo credo: ma farei sacramento ch'ei mai non gl'ingiunse di vituperare l'Italia. Questo peraltro è il costume di certi oratori, che loro non sembra di far bene l'officio se qualche cosa non vi aggiungano del proprio: e son pur molti che le loro cose non sanno lodare senza villaneggiare le altrui. A stringer tutto in poche parole io dico pertanto che, fatto ragguaglio dell'Italia alla Francia, la differenza dall'una all'altra è così grande e così nota, che del giudizio non può lasciarsi aver dubbio chi si conosca alcun poco di storia.

Degl'ingegni, il solo disputarne sarebbe stoltezza. Restano i libri a far testimonianza del vero. E che dovrà dirsi delle arti liberali, e delle scienze storiche o naturali? Qual avvi parte dello scibile, dell'eloquenza, della morale, d'ogni genere di filosofia, che non sia quasi interamente trovata da Italiani? Se alcun che felicemente venne tentato da qualche straniero, o fu un imitatore degl'Italiani, o scrisse in Italia, ed in Italia ebbe imparato. Dei quattro dottori della Chiesa due sono italiani e romani: degli altri due l'uno nacque vicino, e quasi dentro i confini dell'Italia, ed in Italia certamente fu educato ed istruito: l'altro nell'Italia si convertì, e vi dimorò lungamente: e tutti poi nell'Italia ebbero la tomba. Nessuno di essi nacque, nessuno studiò nella Francia. Il diritto civile ed il canonico dagl'Italiani fu creato, ed esplicato dagl'Italiani per guisa che nessuna o piccolissima parte vi ebbero gli stranieri. E in quanto al primo sono i nostri di gran lunga superiori ai Greci: dell'altro non è chi pensi a contrastarcene il magistero. Quanto ad oratori e poeti t'affatichi indarno se li cerchi fuori dell'Italia: dico de' latini che tutti qui nacquero e tutti qui divennero famosi. Ma che è questo ch'io faccio, e a che tante parole in cosa da tutti tenuta certissima? Le lettere latine radice di tutte le arti, fondamento di tutte le scienze, la lingua latina, il nome stesso di Latino onde anche i Galli si danno vanto, non altrove che qui fra noi ebbero origine ed incremento.

E ben potrei alla spicciolata dire lo stesso di tutte quante sono le parti dell'umano sapere: ma per i dotti ho detto abbastanza, e per gli altri anche troppo. Or qual è mai cosa che a tale e tanta ricchezza di studi possa contrapporre la Gallia, se pure, mossa com'è da vana stima di se medesima e dal mal vezzo di ricantar le proprie lodi, non ci metta innanzi il suo clamoroso vico degli strami? Arroge che sempre qui regnò la civiltà, e se v'ha luogo del mondo ove ancora sia in fiore, questo luogo è l'Italia. Qui sono le due sommità del potere, il Pontificato e l'Impero. Della gloria nelle armi, delle vittorie, de' trionfi, della scienza militare, della soggezione di tutte le nazioni fatte a lei tributarie io mi passerò volentieri per non irritare l'animo del francese. Quanto ai costumi ed ai modi del viver civile confesserò di buon grado essere i Francesi arguti, faceti, leggeri nelle parole e ne' movimenti della persona, proclivi allo scherzare, giulivi nel canto, buoni bevitori, ed avidi commensali. Ma la vera gravità, la moralità della vita, fu sempre propria degl'Italiani, e sebbene, lacrimevole a dirsi, sia la virtù scemata in tutti i luoghi, se alcun che n'è rimasto essa si trova in Italia: come tutto quanto vi ha di peggio ne' costumi è colato fra loro. Non v'ha parte di mondo in cui tanto si osservino le leggi dell'onore; non avviene alcuna (e qui nessuno, nemmeno quel maledico potrebbe osare di contraddirmi) dove tanto si paia e la potestà della Chiesa, e la devozione, non dico degl'Italiani, ma di tutti coloro che credono in Cristo, quanto l'Italia ove ella nacque, si fece adulta, al sommo della gloria pervenne, e, la Dio mercé, per opera tua, siccome spero avrà perpetua la sede.

Ricca, nobile, è vero, è pur essa la Chiesa Gallicana: ma il capo di lei, come quello dell'impero, chi può negare che sia nell'Italia? Se alcuno de' tuoi Cardinali ciò revochi in dubbio, muti raggiunto che ha di Romano con quello della sua patria: e vedrà differenza da questo a quello, intenderà quanto corra dal capo ai piedi. So ben io che assai pesa un gran debito a chi si è fitto in capo di non pagarlo. Se tanto hanno a schifo il nome di Romano, si spoglino di quelle dignità che sono soltanto romane, e si contentino di quello che loro può dare la patria. Ma ben mi avvedo quanto sia folle il dir che lascino l'ecclesiastiche dignità costoro che non solamente tutto da quelle traggono il loro splendore e la grandezza loro, ma pieni di ambizione usurpano delle italiche città la signoria, e ne fanno così tirannico governo, che Pietro dal cielo ne stupisce e Cristo meravigliandone irritato minaccia. E sì che se questi dal cielo, e tu sulla terra non ponete a tanto danno riparo, poiché vinti quasi da narcotico farmaco giacciono addormentati gl'Italiani, vedremo tra breve ridotta l'Italia in servitù, e la Chiesa a rigor di termine militante ed armata combattere non per la fede ma per la terrena potenza: indi trionfante ancora la scorgeremo, ma non nel cielo: sebbene in questa o in quella città da chierici guerrieri soggiogate e tenute in signoria, finché riscossi al fine dal sonno quelli che dormono, con formidabile rivolgimento di cose tutto si rovesci e torni al suo sesto. Ben dunque intendo che a quanto io loro propongo mai non sarebbe ch'essi s'inducessero: pure non mi sto dallo scriverlo perché tu, o Padre, mi ascolti, e se giungano essi a conoscerlo, trarre ne possano qualche profitto.

E di vero: se addurre si potessero a contentarsi di quello che loro dà la patria, ed a spogliarsi di quanto le viene di fuori, darebbero esempio di una nobile avversione e di un generoso disdegno più ragionevole assai del disprezzo che ostentano verso le cose di cui vanno superbi ed orgogliosi. Rinunzia il forte e magnanimo barone a ricco feudo, anziché possederlo per grazia di un odiato signore. Fatto prigioniero a Corfinio, non ricco, tesoro o dignità qual si fosse, ma preziosissimo di tutti i beni la vita, che mal suo grado da Cesare gli era stata perdonata, come appena gli occorse una occasione di onoratamente morire, quasi peso importuno lasciò Domizio. Ed io ti confesso che m'aspettai per qualche tempo di vedere questi nostri magnati spinti dalla superbia e dall'odio fare il medesimo, e deporre i nomi e le insegne delle odiate italiche dignità. Ma ben mi avvedo che l'aspettarlo fu indarno. Altro da quello che io dico è il loro proposto: iniquo proposto ed ingrato, ma non già stolto. Convennero essi fra loro malignamente in un patto, e fu di vivere a spese dell'Italia senza stancarsi di farla segno dell'odio loro: di spogliarla e sprezzarla ad un tempo: e mentre questi lacci tendevano dissero fra loro: «chi sarà che li veda?» Ma li vedo ben io, li vedono molti, li vedono tutti se non son ciechi.

Eppure tutti si tacciono, e se non fosse che a rompere il silenzio mi costrinse la pietà della patria, e la enormità della cosa, forse mi sarei taciuto ancor io: ché ben rammento la sentenza di Crispo nota ancora ai fanciulli: Sforzarsi indarno per accattare non altro che odio è cosa da pazzo. Né io poteva ignorare cadere con essi a vuoto le mie parole, e queste attirarmi l'odio de' grandi: non però di te che sei grandissimo, e dal quale invece mi giova sperare ricambio di amore. Che se questo non fosse, né io ti parlerei con tanta fiducia, né tu mi udresti con quella paziente benignità, la quale dalle tue lettere, e dalla relazione di persone che teco avevano parlato, mi fu manifesta: né tu saresti tale quale e la fama ti predica, e il mondo ti crede, ed io ti conosco, prestando fede non al diverso parlare degli uomini, ma alle opere tue che mentire non possono: non saresti, dico, di vero amore infiammato verso Cristo cui servi nella devozione dello spirito, verso Pietro cui succedesti nell'alto ufficio, verso la Chiesa che reggi, verso l'apostolica cattedra, su cui ti assidi, e finalmente verso tutto l'orbe cristiano e specialmente verso l'Italia. Che se così veracemente non fosse, mai tu non avresti la Chiesa da quel baratro infernale contiguo alla tua patria in mezzo a tante difficoltà tratta fuori, e posto in non cale ogni mondano affetto, non l'avresti in Italia finalmente ricondotta. Or se qui tu ti fermi, e immobilmente ti tieni nei tuo proposto, nulla è ch'io più tema di male, nulla che non mi paia doversi sperare di bene per la Chiesa fino al recuperare quei due tesori che sono la Terra Santa speciale patrimonio di Gesù Cristo, e la ecclesiastica libertà doppio inestimabile tesoro da codesti tuoi consiglieri alle voluttà postergato del patrio suolo.

Mentre tu pertanto sobbarcasti le spalle a questo grave pondo di fatica e di gloria, ed eri parato a compiere questa grande, immensa, nobilissima impresa, non si avvide colui, che innanzi a te faceva sfoggio della sua facondia, come scemo si dimostrasse di quella prima dote dell'oratore che è la prudenza, della quale se avesse avuto un briciolo, pensando cui parlava non avrebbe detto vituperio di quella parte del mondo che tu prediligi su tutte le altre, e su cui sta fondata la potenza tua e quella della Chiesa: imperocché ben può taluno pazientemente sopportare che di una cosa a sé carissima altri parli a disdoro, ma gradirlo certamente non può. Quello poi ch'egli disse dei cibi e dei vini di Francia pare a me che tornasse in grave ingiuria agli uditori: imperocché mostrò di credere che personaggi apostolici trarre si lasciassero all'esca non altrimenti che pesci od uccelli. Ahi! che pur troppo di una sì fatta vergogna si era propagata la fama: che cioè nello sceglier la sede si tenga conto della squisitezza de' cibi e della copia de' vini, quasi che non di promuovere la religione di Cristo, ma si trattasse di celebrar baccanali. Udite Paolo che ai Corinti, anzi ai Cristiani esclama: Deh! non vogliate appaiarvi sotto un giogo con gli infedeli! E qual comunione può darsi della giustizia coll'iniquità? qual società fra la luce e le tenebre? qual patto fra Cristo e Belial? Onde io fra mesto e sdegnato soggiungo: quale accordo è possibile fra Cristo e Bacco?

Forse perché il sacrificio dell'altare non può farsi senza vino, sarà Bacco da considerarsi qual Dio de' cristiani? Affè che invece di seguire i precetti ed i consigli di Cristo, obbediremo alle lusinghe ed agli eccitamenti di Bacco. Ahimè quali stoltezze, quali stravaganze sono queste che ascolto! Dovevano almeno la reverenza a te dovuta, l'ossequio alla conosciuta tua temperanza, e il venerando cospetto tuo ricacciarle in gola a quell'insano oratore. Ma tu, come bene si conveniva, corto e reciso gli rispondesti. Al suo padrone poi che lo mandava dar non potevi risposta migliore di quella che gli desti col fatto. Perocché non solamente non ritardasti, ma affrettasti il viaggio, rammentando come spesso il troppo indugio nocque a' gloriosi cominciamenti. Chè se quel Re veramente ti ama e ti venera con quella pietà che a figlio si addice, si rallegrerà di vederti nel luogo a te ed al mondo più salutare. So che una certa mollezza tutta propria della umana natura ci fa dolorosa la lontananza delle persone che amiamo, il che spesso torna a danno de' medesimi amanti.

Ma puerile e femmineo affetto è codesto, né degno di uomini forti, i quali de' loro cari non curano dove siano ma come vi siano, e meglio li bramano assenti e felici, che presenti e sventurati, perché anche assenti della persona li hanno all'animo sempre presenti: e benché tali, li odono, li vedono, entrano a parte del loro ben essere. Solo le donne ed i fanciulli non patiscono di distaccarsene, e a sé li vogliono sempre vicini: perocché dell'amore non conoscono il fine, e pascendosi solo di giuochi, di ciance e di trastulli, altro frutto che questo non cercano dalle amicizie. A quel sì ardente e da me non conosciuto calunniatore del nome italiano, che stimò grande argomento di vittoria per la sua causa l'ostentar la sua patria come più ricca di ghiotti cibi, quasi che parlasse non ad un religiosissimo e sommo Pontefice, ma ad un qualche Apicio mastro di cucina, ben molte cose potrei rispondere, se troppo a me non fosse increscevole l'intertenermi su tal soggetto, e specialmente in tua presenza: ma se con lui parlassi a quattr'occhi, saprei per avventura farlo arrossire per aver osato spacciar tante fole siccome vere innanzi a colui ch'è vicario del sommo vero.

Ma ometter non posso che i Galli, secondo che è scritto nelle storie, conobbero le viti e gli olivi quando Roma era già in fiore. E tutti sanno come quei barbari tratti appunto dal sapore delle nostre frutta e dalla dolcezza de' nostri vini, si gettassero sull'Italia, e con innumerabile esercito ci portassero guerre molte e crudeli giungendo perfino ad incendiare la sorgente città di Roma. Ma la sfrenata e sozza ingordigia condegnamente Iddio rimeritò, e furono tutti prostrati e sconfitti per modo, che al dire di un insigne storico, non uno rimase di loro che vantar si potesse di avere a Roma appiccato il fuoco. Che se si pensasse di replicare essersi d'allora in poi mutati i tempi e le cose, tanto avrei da recare in mezzo sulla ricchezza dell'Italia e sulla miseria della Gallia, e tanto di questa potrei mettere a nudo le brutture e le piaghe, che non coperto solamente lo vedrei di rossore, ma a lui dovrebbe parere di sentire i tormenti della fame e della sete. E fu questa sua procace iattanza, che contro voglia mi fece parlare sì a lungo. S'egli intendeva a darsi vanto e a magnificare come gran cosa ogni nonnulla, poteva ben perdonargli l'ardire. Ma perché scendere ad ingiurie, a calunnie, a villanie? Una menzogna che non faccia ad altri ingiuria, condotta con arte dal dicitore a sostegno del proprio assunto, può ben talvolta in pace portarsi da chi l'ascolta: ma se si volga ad offendere altrui, vi sarà sempre chi la rintuzzi. Ed io contro costui presi a difendere la causa del vero e della patria comune, e cercai di stringerla in poco: sebbene non manchino alla verità campioni più forti, e le risposte a cotali accuse sparse si trovino in tutti i libri, anzi nella realtà delle cose che stanno sotto gli occhi di tutti tacitamente ciascuno possa trovarle raccolte. Ordinatamente procedendo debbo ora qui confutare un altro errore, che testè, mentre io stava scrivendoti, mi fu riferito da persona non immeritevole di fede: esservi cioè alcuni de' tuoi Cardinali, i quali non negano essere stata un giorno nobilissima l'Italia, ma con recisa ed inconsiderata improntitudine affermano al presente non valere più nulla. Qual cecità buon Dio! quale avventatezza è codesta! Qual livore, qual rabbia può mai partorire tant'odio, che tu non voglia nemmeno vedere quello che odi, né conoscere se, e quanto veramente sia degno di essere odiato? È questo forse l'odio perfetto di cui parla il Salmista? No, in fede mia: anzi è l'opposto di quello.

Conciossiaché l'odio perfetto sia quello per cui dal male aborrendo, pur non si aborre dal bene che a quello potesse esser congiunto. Per lo contrario adunque amare il male per guisa che si aborra dal bene, è da stimarsi odio pessimo ed imperfetto quantunque sia grande: perocché non dalla quantità ma dalla qualità dell'odio se ne misuri la perfezione. Se a me nieghisi fede, s'oda Agostino che commenta quel passo: Quello, egli dice, si chiama odio perfetto per lo quale né a cagione dei vizi si odiano gli uomini, né per cagione degli uomini si amano i vizi. E costoro odiano noi siffattamente, che per amore del Rodano verso qualunque cosa noi abbiamo di buono, e perfino verso le nostre terre, cui tutto il mondo celebra felici e bellissime, nutrono invincibile aborrimento, né soffrono di aprire gli occhi a riguardar pur di volo questa meraviglia di cielo e di terra. Mirabile, è vero, ma pur quotidiano fenomeno è questo, che chi da un grave errore si lascia accecare la mente, a mille altri ben presto soccombe. Ed ecco che lo smodato affetto posto da essi ad un torbido fiume e ad un'orrida regione, mentre di cose spregevolissime li rende innamorati, di quelle che sono da tenersi in altissimo conto li fa dispregiatori: e in quella che per timor di vergogna confessano ciò che pure tenendo bordone agl'invidiosi in qualche modo potevano negare, negano quello a cui confessare la evidenza stessa del vero potentemente li costringe. Conciossiaché quando le cose antiche negassero, offenderebbero l'umana autorità e la fede dovuta agli scrittori: ma negando le cose presenti, contraddicono alla verità fatta manifesta all'universale dalla testimonianza de' sensi. Con costoro dunque che conoscendo il vero si sono fitti in capo di combatterlo, non voglio sciupare il fiato.

Ai sordi non si canta, e ragionare con chi non vuole intendere è tempo perduto. Agli altri, se pur ve n'ha, che per ignoranza vivano in inganno, ecco come io rispondo. Roma capo dell'Italia anzi del mondo estenuata da guerre molte, da stragi, e dalla lunga assenza de' suoi pontefici e principi cadde, m'è pur forza confessarlo piangendo, nella miseria, nell'abbattimento, nell'abiezione: e quanto questo stato di Roma sia pernicioso non all'Italia soltanto ma a tutto il mondo e specialmente alla cristianità, non è chi non lo veda, tranne coloro cui rese ciechi la superbia o la invidia. Tutto ciò non ostante da questa città, che a tanti nemici sottratta il Cielo pietoso riservò alle tue cure, se coll'aiuto di Dio a te venga fatto darle conforto, ti proverrà gloria immortale in sulla terra e perpetua felicità ne' secoli eterni. E può per avventura dispiacere ad un nobile artefice, che la cosa intorno a cui si travaglia manchi di qualche pregio, perché dall'aggiungerglielo torni condegna lode al suo ingegno, all'arte sua, alla sua virtù? Del rimanente però dell'Italia io non so che ripetere asseverantemente la mia antica e fuor di dubbio verissima sentenza. Né qui sto a dire quale oggidì l'abbia ridotta quella malnata universale pestilenza, di cui la simile non si ricorda in altro secolo, e che cominciata or sono venti anni alternativamente si affaccia quasi con anniversario ricorso a disertare e sommergere in un torrente di mali il mondo intero.

Ma da questo flagello nulla meno che l'Italia fu desolata la Francia, in danno della quale a quel celeste castigo si aggiunse il furore degli uomini, onde per lunga crudelissima guerra fu per tal modo devastata e distrutta, che ricomposte alquanto in incerta pace le cose, io fui mandato oratore a quel Re, ed all'aspetto de' guasti orrendi fatti dal ferro e dal fuoco in tutti i luoghi che viaggiando traversai, non mi potei trattenere dal piangerne per compassione: perché noi non siamo di quei cotali che per amor di noi stessi abbiano in odio tutto il resto del mondo. Eppure io non mi lascio menomamente aver dubbio di affermare che questa Italia per abbondanza di ricchezze, per numero d'insigni personaggi, e sopra tutto per potenza marittima non fu giammai tanto grande quanto a dì nostri: e se concordi fossero gli animi, se, quale un giorno, ne fosse valido il capo, mai non sarebbe stata quanto al presente capace di ricuperare l'impero del mondo, e di ridurre sotto la sua potestà mille genti infedeli che di regnar sono indegne. Né qui starò a dire quanto la mente commossa detterebbe alla penna, e perché non voglio abusare la sofferenza della Beatitudine tua e perché altrove su questo soggetto già disfogai l'animo mio. So che a quanto affermai contraddicono Taranto, Capua, Ravenna, ed altre molte città un dì potentissime ed ora decadute dall'antico splendore: ma a tutte queste porrò di contro quest'una d'onde io ti scrivo, Venezia: città grandissima, anzi regno potente, a cui regni antichi prestano obbedienti la sudditanza. Questa città da tutte le altre diversa che io soglio chiamare un altro mondo, anticamente era o nulla o ben piccola cosa.

Imperocché, sebbene antichissimo sia il nome di Duca Veneto, e di Venezia considerata come provincia, di Venezia città non rammento che si trovi memoria anteriore all'impero di Vespasiano, ed a non molti anni riducesi il tempo da che ella salì alla presente grandezza. Ma sovviene altre da porre a riscontro con quelle antiche. Era Genova piccola terra, ed oggi è città nobilissima. Quando già fioriva la romana repubblica, non era ancora fondata la patria mia, che ora, come si scorge dal nome suo, è tanto fiorente. E che dirò della tua Bologna, che fin dai tempi del soprannominato Imperatore trovo detta felicissima, e che veramente, se dir si può di cosa terrena, felicissima io vidi negli anni della prima mia giovinezza, ma poi secondo il volgere degli umani eventi coll'andar del tempo meno lieta, indi misera, ed in quest'ultimi anni sventuratissima, tua mercé non ha guari alla primiera sua prosperità fu ricondotta? E queste ed altre nello stesso tratto di paese non molto antiche città mentre ferveva la seconda guerra punica furono dai Romani o fondate o ingrandite, e vennero a stato più grande che prima non avessero, poi decadute e quasi distrutte risorsero maggiori di se medesime.

Di esse pietosamente fa menzione il santo Padre Ambrogio in una lettera a Faustino specialmente rammentando Bologna, Modena, Reggio, Piacenza ed altre città semidirute, le quali oggi se non al tutto tranquille, fiorenti si ammirano per nobiltà e per decoro. E buon per esse che in questo riuscisse fallace l'augurio di quel sapientissimo e santissimo Padre, il quale per sempre le disse prostrate e distrutte. In una parola che tutto questo tratto d'Italia, il quale dalle nevose Alpi si distende al verde Appannino, assai più ricco e popoloso sia al presente che non fossero in antico le altre parti, abbastanza si fa manifesto a chi ne consideri la diversità de' costumi, e la varietà dello Stato. Del resto pensino a lor talento, ché nulla è del pensare più libero. A molte cose può colla forza esser l'uomo costretto: a creder non mai. Credano dunque, se così loro aggrada, esser l'Italia paese da nulla, sebbene più volte il mondo intero la provasse capace di far qualche cosa. Confesseranno almeno che in questa nullità si contengono cose di sommo pregio: e poco monta che vile sia lo scrigno, se in esso si chiudano grandi tesori. Spacciatomi di tutte queste calunnie a te ritorno, o Beatissimo Padre.

Tu dunque in mezzo alle procelle e al furiare di contrari venti saviamente adoperando le vele della pietà, il timone della ragione e i remi della industria, la santa e venerabile nostra madre Chiesa nella sua sede hai riportata. Or bene è agevole a comprendersi che un padre di famiglia dopo lunga assenza tornando alla casa sua, che lasciò deserta di ogni custodia, molti disordini trovi a cui gli convenga porre riparo. A questo or dunque ti adopera, qui tutte impiega le forze del sacro ingegno: riunisci gli sparsi elementi: solleva chi cadde: riforma ciò che fu guasto: rassoda quel che vacilla: riedifica quello che fu distrutto. Se cadde la casa, l'uomo accorto non l'abbandona, ma la rifabbrica e la restaura. Or se questo per le case de' privati si avvera, perché non dovrà avverarsi in tutte, e se il bisogno lo chieda, anche nell'intera città?

Poiché Roma fu incendiata, come sopra io diceva, i Tribuni della plebe erano di parere che si dovesse lasciare in abbandono; ma Furio Camillo a tutti fermamente si oppose, ed ottenne che si ricostruisse: e ci fu conservata l'orazione di lui, degna al tutto di un buon cittadino. Or se tanto avvenne in quei primi e ancora non dirozzati tempi di Roma, che dovrebbe essere dopo tanto incremento delle umane cose e delle divine? Lacera, è vero, e devastata è Roma tua: ma è città sacra, per gloria di celesti e di terrene imprese famosissima, madre delle città, capo del mondo, rôcca della fede, ove venerando ai fedeli e tremendo tu sei agl'infedeli, e degna per la miseria in cui cadde non già che tu l'abbandoni, ma che a restaurarla ti adoperi con uno zelo rispondente al suo merito. Fondata da Romolo, liberata da Bruto, rinnovata da Camillo riconosce da questi la gloria della sua terrena grandezza.

Ma l'impero spirituale in essa fu costituito da Pietro, accresciuto da Silvestro, nobilitato da Gregorio, e vedo a te porgersi spontaneamente l'occasione di far tutta tua la gloria loro. Non all'uno od all'altro, ma a tutti insieme tu puoi meritare che il memore ed incorrotto giudizio dei posteri ti adegui, poiché cadute le fondamenta, e gl'incrementi e il decoro onde quelli l'avevano donata, sei tu destinato a rinnovarli. Perché grandemente io meraviglio dei sospetti di alcuni che stimano te poter non curare siffatta gloria, e di costà partirti un'altra volta, per riportare la Chiesa o a quell'ergastolo d'onde l'hai tratta o in non so quale altro luogo. Imperocché pari a cotesto per santità o per gloria altro luogo non ha la terra, ove meglio tu possa piacere a Dio e giovare agli uomini, che sono i due supremi fini della tua vita, o a meglio dire che sono l'unico fine a te commesso sotto doppio mandato, a cui mirano, in cui si fermano, da cui dipendono la legge insieme e i profeti. Perché né alla fama che vorrebbe farmi credere il contrario, né alle timide congetture, né ai confusi rumori io so prestar fede, e non saprò mai tener per possibile che a tal principio tu voglia far seguitare una fine siffatta; poiché sarebbe stato meno male il non cominciare. Nulla può darsi di peggio che una fine vergognosa dopo onorato cominciamento. È il mostro d'Orazio corpo di vaga donna Turpemente finito in atro pesce: brutta cosa in pittura, più brutta nel discorso, bruttissima nelle operazioni dell'uomo. Sono molti, per non dir tutti, che nulla cominciano di glorioso e di grande: né per questo sono infami, poiché nemmeno son conosciuti. Ma chi per illustri principii si rese famoso; se spontaneamente desista dall'opera, non può fuggire l'infamia. Tu non solamente hai cominciato, ma in gran parte eseguisti. Bada di non rovesciare l'opera delle tue mani, perocché te ne verrebbe vergogna non solamente più che se mai non l'avessi intrapresa, ma più ancora che se cominciatala, l'avessi poi lasciata a mezzo. Imperocché a mezzo cammino sopravviene talvolta una stanchezza cui sono scusa gli ostacoli che l'attraversano; ma giunto alla mèta, tornare indietro è cosa piena di obbrobrio e di vitupero. Fa' dunque di non torcere dalla via per la quale ti sei messo, che mena diritto alla salute: fa' di non fermarti giammai: ché breve è il tempo, lunga ]a 675 strada, e la speranza della mercede ti farà lieve a sopportar la fatica.

E guardati dal rivolgerti indietro: perocché sai che chiunque pose mano all'aratro, e guardi dietro di sé, non può entrare nel regno di Dio. Anche nelle storie de' gentili leggiamo che Orfeo voltosi indietro perdé la sua Euridice, cui tratta aveva dall'inferno, e nelle nostre che a Lot uscente da Sodoma per salvare la vita fu dato comando di non volgersi indietro: ma fatta di quello dimentica, o non curandolo la moglie di lui si guardò dietro le spalle, e fu tramutata in statua di sale: esempio ai posteri che di quel sale si valgano a correggere il gusto insipido di tornare colla mente o cogli occhi alle cose, da cui lodevolmente si distaccarono. Per le quali ragioni, quantunque il volgo e la fama secondo loro costume il vero ed il falso mescano insieme, nessuno potrà giammai rimuovermi da quello che io tengo per fermo. Se alcun mi dica che di costì tu riparti, io gli risponderò ch'ei mente per la gola: e se lo vedessi cogli occhi miei, stenterei a prestare lor fede. Grande è la speranza che io posi in te, nelle opere tue, nel tuo cuore magnanimo, nella santità, nella fede, nella costanza, nell'ingegno tuo. Io son d'avviso che a blandire le menti inferme tu voglia nutrirle ad arte di una fallace speranza, perché tra la noia di un'onorata dimora e la fiducia di un vergognoso ritorno passino intanto i giorni; e siccome suole, cresciuto col tempo il loro desiderio, coll'andare del tempo si estingua e svanisca. Prosiegui, o Padre beatissimo, siccome fai, ed usa di ogni tuo potere, che è potere immenso, qual si conviene a chi sulla terra è vicario dell'Onnipotente. Fa che comincino costoro a fabbricare nel luogo del loro Titolo, poiché tanto alacri si dimostrarono a fabbricare in terra straniera.

Mai non saranno state impiegate più degnamente le travi, la calce, la pietra: orribili saranno le cure, le fatiche, le spese adoperate nel proprio suolo. Quanto poi conveniente, quanto acconcio, quant'onorevole ad essi tornasse l'affannarsi e lo spendere perché la piccola e brutta Avignone crescesse a superbo splendore, e ambisse a divenire capo del mondo, del quale appena è che meriti di esser ultima coda, e ciò mentre cadeva in rovina quella Roma cui Virgilio chiamava formosissima delle cose, e della quale Orazio diceva non aver visto il sole alcun che di più grande, in me non sta il definirlo, e lasciar ne voglio il giudizio ad essi medesimi, che prostrata vedendo la metropoli del mondo, e rovinosi i tetti, cadenti le mura delle case degli Apostoli e dei Santi ad essi stessi date in custodia, in Avignone eressero sontuosi aurati palazzi sotto gli occhi, né so ben dire se con l'approvazione e la lode, di chi quei santi luoghi governa con supremo dominio.

a tu, provvidentissimo Padre, che una volta comincino. Un piacere caccia l'altro: la cosa andrà poscia con i piedi suoi. Scorderanno a poco a poco le vecchie case, né più sentiranno desiderio del loto di Avignone. Gli animi da lungo errore depravati non possono rinsavire ad un tratto: il tempo li fece cadere infermi, il tempo li guarirà; ma non esso solo. Finirà di vincerli la tua presenza, la tua voce, la tua autorità. Verranno intanto scorrendo i giorni, le menti a più sani consigli, gli occhi si assuefaranno a migliori spettacoli: e quando avranno cominciato a gustare che cosa è Roma, o piuttosto che cosa sia la fede, il dovere, la civiltà, io ti sto pagatore che se alcuno li volesse costringere a ritornare là d'onde furono così dolenti di dipartirsi, crederebbero d'esser mandati all'esilio o alla morte. Ma nuova ragione ecco si accampa a contraddire il fatto della Santità tua, e l'umiltà della mia sentenza. Sono alcuni, e m'è avviso udirli infine di qua, che dicono insalubre esser l'aere di Roma. E ad essi già in parte io credo di aver risposto: imperocché non avvi città per quanto angusta la si supponga, non avvi casipola d'aere sì puro, che le macerie e le rovine non le corrompano.

Anche l'aria più salutare e più benefica, se ne venga impedita la libera circolazione, diventa pestifera. E questa è la cagione che Roma, e la salubrità del suo clima hanno messo in dubbia e mala voce. Arroge lo spopolamento, lo squallore delle mura, la scarsità degli abitanti, di cui non altra fu cagione, siccome io diceva, che la lunga assenza de' Romani Pontefici suoi sovrani, né altro tanto può giovare a correggerla quanto la loro presenza. Vecchio è il proverbio rammentato pur da Aristotele «l'occhio del padrone ingrassa il cavallo.» La tua città deserta da' suoi pastori sarà confortata e rinvigorita dall'occhio della tua pietà, della tua provvidenza. Tu, come Cristo Gesù comanda ed insegna, la vedrai caduta, e guardandola la correggerai: che se non venga lasciata in abbandono, d'esser corretta e curata ella è capace. Non voler tu dunque ritrarti da una breve fatica, che deve fruttarti eterno premio. Renditi a lei, o per dir meglio, a lei ti conserva. Con te suo capo sane a lei torneranno le membra, ritornerà il vigore, se non quale fu un giorno, grande pur sempre e poderoso. Restituirglielo intero altri non può da quello in fuori che solo opera portenti. Rendile il concorso delle genti, che non può venirle meno se tu vi poni stanza, e se fai sperare di non la rimuover più mai. Basta sol questo perché tu veda sorgere nuovi edifizi e ritornare l'aere salubre. Che se v'abbia chi dica esservi questo di sua natura corrotto, valga a smentirlo quella meravigliosa quantità di cittadini, della quale ti dissi nell'altra mia lettera, cui non avrebbe potuto fingendo immaginare l'ingegno di alcuno scrittore, e quella forza degli animi, quella robustezza delle persone che né nascere né conservare si sarebbe potuta, se l'aere che spiravano fosse stato meno che perfetto. Valga la testimonianza di tutti gli antichi scrittori, e specialmente di quelli che non furono Romani, e stimar non si possono indettati da patrio affetto: valga infine sopra tutte l'autorità di quel purissimo fonte di eloquenza, e principe della storia, il quale ci lasciò scritto: Non senza perché gli Dei e gli uomini scelsero questo luogo per la fondazione di Roma tra colline saluberrime, e presso un fiume atto ad importare dai luoghi mediterranei le biade, ed a ricevere tutto quello che ne viene per mare vicino abbastanza per servire alla comodità, ma insieme lontano abbastanza per non esporre ai pericoli di armate nemiche: centro dell'Italia, nato fatto ad incremento della città, siccome provasi dalla grandezza a cui in tanto breve tempo ella sorse.

E poco appresso: Qui, dice, è il Campidoglio ove trovato un giorno un capo umano, rispose l'oracolo che ivi sarebbe il capo dell'impero. E lascio il resto. Ma come lasciar potrei, non dico Virgilio che l'inclita città dei sette colli chiama felice per progenie d'eroi, e di lei canta che L'impero adegua al mondo e l'alme al cielo, ma sì Girolamo a te più familiare, il quale scrivendo contro Gioviniano, e cadutogli su Roma il discorso la città, dice, potente, la città signora del mondo, la città lodata per bocca dell'Apostolo: e prosieguo: il nome di Roma secondo i greci vale fortezza, e sublimità secondo gli ebrei? Non è dunque da fare le meraviglie se anche un fierissimo nemico non arrossì di dire di lei che gli sembrava una città di re, o secondo altri, meglio un tempio che una città, e il suo Senato un concilio di re. Soventi volte la forza del vero costringe a confessarlo anche chi non vorrebbe. Ben peraltro è da stupire che questa stessa città per cotal modo venerata ed anteposta a tutte le altre dagli amici non meno che dai nemici, solo dai Cardinali che sono suoi figli riscuota abominio e disprezzo. Ma tu vero padre, esortali a deporre questa idea, a formarsene un'altra, ad amare la sposa tua, ch'è madre loro, ad ornarla della presenza loro e delle loro opere, traendone sicuro compenso di merito e di gloria, né mentre questa è nuda e famelica si piacciano a nutrire e vestire una straniera, ed a profondere in vantaggio di questa ciò che da loro è dovuto alla madre vera che vive nel bisogno, e nella indigenza; conciossiaché turpe sarebbe ad essi il farlo, e abominevole agli occhi di Cristo, il quale col sangue suo dette la vita alla Chiesa: né solamente di celesti ed eterne ricchezze, ma dotata ancora la volle di beni temporali, i quali solo ad ossequio ed onore di lei debbono impiegarsi sotto pena di delitto e di sacrilegio. Fa' dunque d'esser tu vigilante, ché deve, come dice Omero, vegliare il padrone mentre russano i servi. Non si conviene passar dormendo la notte chi regge i destini de' popoli. Sorga il padrone, insegna Aristotele, prima dei servi, e vada a letto più tardi di loro: né dì né notte trascuri il dover suo. Il levarsi innanzi giorno giova ad un tratto all'economia, alla filosofia ed alla salute. Quanto a quest'ultima non a te solo ma al mondo tutto è preziosa la tua: l'economia che tu reggi non è domestica, ma è governo dell'intera repubblica che chiede ben maggiore vigilanza di quella: la tua filosofia non è studio di falsa e vana scienza, ma dell'unica che è vera sapienza di Dio? tutte dunque su te si riuniscono le cagioni per cui l'uomo si conviene sorgere di notte, e star continuo vigilante ed insonne. Veglia, esplora, guarda dall'alto intorno intorno: ché questo è l'officio proprio del Vescovo.

A consumare una grande impresa si vuole un ingegno sottile, operoso, che senza intermissione e senza mai divagarsi, costantemente intenda tutte le forze al suo proposto. Né dell'ottimo tuo volere, o della tua fermezza io mi lascio avere il menomo dubbio: solo mi danno cagione a temere due personaggi che a quello fanno contrasto. Deh! tu li piega, o vigorosamente li vinci, sì che non s'abbia a stampare una macchia di vergogna sulla fronte della Chiesa, né sia soggetto alla derisione dell'età nostra e della futura un nuovo abbandono della santa sede di Pietro, vivente ancora te che gloriosamente ad essa avevi fatto ritorno. E per qual causa, Dio buono? Per la mancanza di un vino di cui l'uomo sobrio non ha punto bisogno, e se siavi chi non ne possa far senza, agevolmente se lo procaccia navigato e migliore. Né il luogo ove tal vino si raccoglie è quello stesso a cui li spinge tanto desio di ritorno: solo d'alquanto lo avevano più vicino, ma non ne sono or già lungi le mille miglia. Faticheranno un po' più i marinai, ai quali mai non è troppa quella fatica cui tutta dedicarono la vita. Ma dimmi in fede tua: qual fu giammai uomo ebrioso tanto, che per amore del vino volesse tra le vigne fissare il suo domicilio? Fatta per coltivarsi, non per abitarsi è la vigna: in essa nascono e si raccolgono le uve: si pigiano nello strettoio, si ripongono i vini nel tinaio: si bevono poi nelle sale. Solo quest'ultimo fanno i padroni: gli altri offici son tutti de' contadini. La vigna tua e la loro è tanto larga quanto si spande la vera religione, non di vino inaffiata ma del sangue dei martiri, e dalla quale unico preziosissimo frutto si raccoglie la salute delle anime fedeli.

Ma siano pur dove vuolsi la vigna e i campi, certo è che la reggia e la rocca principale della Chiesa non altrove è che in Roma: e se pur v'ha taluno che faccia le viste d'ignorarlo, egli s'infinge. Tutti lo sanno: nessuno, io credo, ardirebbe negarlo, nemmeno fra gl'Indiani. Rientrino in se medesimi, e si guardino dal ricalcitrare contro gli sproni onde Cristo li punge: ché malagevole è il resistere ad essi. Né si provino a scuoterne il giogo, ch'egli è soave e più leggero a portarsi che non qualunque libertà. Proprio dell'umana debolezza è l'errore: l'ostinazione è tutta cosa de' demoni. Abbastanza, e troppo si errò finora: troppo fu perduto di tempo. Cessino una volta gli errori: si sforzino a rimetter sull'ultimo il tempo perduto. Chiudano le orecchie dell'anima alle suggestioni degli angeli infernali, che con nascosti dardi feriscono, con invisibili fiamme ardono i cuori, empiendo, come dice Agostino, di spavento e di paure le menti. Ascoltino i precetti del Signore, aprano gli occhi alla luce, e vedranno Cristo che loro addita il retto sentiero. In Lui riguardino, e seguano Lui.

Depongano la pertinace ostinatezza, né si vergognino di darsi vinti: che non è un altro da cui son vinti: e il vincere se medesimo è la più bella delle vittorie. Oh! sì: lo spero: così faranno: cominceranno a darti fede, e penseranno alla fine che l'ultima ora del viver loro non è per avventura lontana di molto. Un così lungo discorso, ottimo e santissimo Padre, io già ti tenni altra volta, ed ora ti ho ripetuto, non, come disse Cicerone, perché tu d'ascoltarlo avessi bisogno, ma perché veramente io non poteva tacermi. Imperocché so bene affermarsi tutto giorno da loro per mille modi il contrario di quello che io dissi, e non che temeraria, stimarsi ogni opposizione che loro si faccia irragionevole ed insensata.

Personaggi d'alto stato essi sono, ma più di loro sta in alto la verità: e se usando quasi di loro diritto fanno il viso dell'arme ad un meschino privato, che ardisce umilmente volgere ad essi la parola e riprenderli, ricordino che son uomini anch'essi, non abbiano a schifo la voce della ragione, non si facciano contro quella forti dell'autorità del loro grado, e si avvedranno di non aver che rispondere. Né merita pure d'essere rammentata l'empia speranza, per la quale si dice desiderarsi da taluno di loro che a te o alla Chiesa incolga qualche sinistro, onde in te nasca la volontà di partir nuovamente dalla tua Roma; e che per questo lieti si dimostrassero del piccolo tumulto avvenuto a Viterbo. Sperda il funesto augurio Cristo Signore, di cui si tratta principalmente la causa.

Mai non sarà ch'io creda venuto in mente, non dico ad eminentissimi personaggi, ma nemmeno ai servi loro, se non ai più vili, un così fatto scellerato ed infame desiderio, che solo in cuore di alcun ribaldo fra questi ultimi poté trovare ricetto. Se così è, Dio lo converta e gli perdoni; o se persista, gli sia d'eterno supplizio lo spettacolo dell'altrui felicità.

Costanza nei prosperi eventi, pace alla Chiesa, a te fortezza e salute io benché indegno peccatore auguro, e imploro, supplicando Colui il quale a tanto glorioso principio ti assunse, che ti regga fino al termine desiderato, e ti conceda la perseveranza perfezionatrice delle opere buone.

 

 

 

NOTA

Per buona ventura di chi legge non fa bisogno di lunghe dichiarazioni a questa lunghissima lettera. L'occasione ed il tempo in cui fu scritta sono manifesti. Sappiamo dalle storie come Urbano V condottosi sulla fine di aprile del 1367 a Marsiglia, ivi s'imbarcasse al 19 di maggio sopra una galera veneziana, e accompagnato onorevolmente da altre ventidue navi a bella posta inviate dalla repubblica di S. Marco, dalla regina di Napoli, da Genova e da Pisa, colla maggior parte dei suoi Cardinali approdasse a Genova, e di colà arrivasse a' 9 di giugno a Viterbo, ove ricevette l'omaggio di tutti i principi d'Italia, e della città di Roma, di cui gli ambasciatori vennero a recargli le chiavi. In Viterbo egli si trattenne oltre a tre mesi, ed ebbe il dispiacere di vedervi nascere un tumulto nel popolo, che irritato dalla insolenza di alcuni servitori de' Cardinali prese le armi e si adunò sulla piazza, mandando grida sediziose contro la Chiesa. Ma questo tafferuglio fu ben presto represso, e severamente puniti i popolani che n'erano stati promotori.

Finalmente in ottobre il Papa fece il suo ingresso in Roma, e vi fu ricevuto con entusiasmo dal clero e dal popolo. E fu allora che il Petrarca, il quale non dissimulava la credenza di aver contribuito con la lettera 1ª del libro VII Senili a questa determinazione del Papa, gli scrisse da Venezia la presente per confortarlo a star saldo nel suo proposto, e a resistere alle mene ed agl'intrighi di chi voleva indurlo a ritornare in Avignone. Presto peraltro dovette persuadersi il buon Petrarca che se le sue parole avevano avuto qualche efficacia a ricondurre il Pontefice a Roma, non erano da tanto che potessero torgli dal capo l'idea di ripartirne. Non ancora passati tre anni, si conobbe con certezza che Urbano cedeva al desiderio di rivedere la Francia, ed il poeta fece l'ultimo sforzo per trattenerlo dirigendogli una lettera con maggior calore di linguaggio esortandolo a non abbandonare l'Italia. Ma, come ognun sa, fu indarno: perocché il Papa si mosse alla volta di Francia al 24 di settembre del 1370 e giuntovi appena, cessò di vivere al 19 di dicembre. Vuolsi pur dire chi fosse l'oratore dal Re di Francia mandato al Papa per dissuaderlo dal ritornare la santa Sede a Roma, del quale il Petrarca con sì acerbo stile confuta in questa lettera le calunnie e gli errori. Ei fu Niccola Oresme, o Orême, nativo di Caen, dottore in teologia, gran maestro del Collegio di Navarra, precettore del Re quand'era Delfino, e più tardi arcivescovo di Bayeux, decano del capitolo di Rohan, e tesoriere della Santa Cappella di Parigi. Tutti questi titoli, ai quali si aggiunse poi anche quello di vescovo di Lisieux, e di consigliere regio, bastano a farci persuasi dell'alta considerazione ch'egli godeva, siccome molte opere di lui pubblicale poi colle stampe (tra le quali la traduzione del trattato De remediis utriusque fortunae del nostro Petrarca) ci fanno certi esser egli stato uno degli uomini più dotti dell'età sua. Lui dunque mandò Carlo V Re di Francia a dissuadere il Papa dal tornare in Italia: ed egli tenne alla presenza del Pontefice in pieno concistoro un'arringa, nella quale come argomenti acconci a stabilire che Urbano non si doveva partire dalla Francia addusse esser questa la patria sua, essere Avignone nel centro dell'Europa, l'Italia meno tranquilla, e meno ben governata: più santa Avignone che Roma perché nelle Gallie v'erano i Druidi prima che a Roma i sacerdoti del Cristo, perché Cesare dice de' Galli ch'erano molto attaccati ai riti religiosi, e perché fra loro si conservano in venerazione le più preziose reliquie, ciò sono la croce, la corona di spine, il ferro della lancia, i chiodi, i flagelli, ecc. (Du Boulai, tomo IV, fol. 399). A questi argomenti poi aggiunse tutti quei vitupèri dell'Italia, che mosser la bile al nostro Petrarca, e gli dettarono la risposta che fece al Papa in questa lettera. Solo il Villaret nella Storia di Francia (tomo X, fol. 144) trova la lettera del nostro scrittore meno robusta dell'arringa dell'Orême. Il De Sade ingenuamente confessa che questa sta molto al di sotto di quella, e cita l'autorità dello storico della chiesa gallicana il quale (tomo XIV, fol. 116) così si esprime; Autant la lettre de l'auteur ultramontain est fine et délicate, autant la harangue du docteur de Paris est fade et mal conçue. Accennerò da ultimo che il vicus straminum nominato dal Petrarca tra i vanti di Parigi è quello stesso che Dante (Parad, X, 137) chiamò vico degli strami, alle quali parole il postillatore cassinense nota: locus Parisiis ubi sunt scholae philosophantium. Chiamavasi quella strada rue de Fouarre vicino alla piazza Maubert, e corrisponde a via della Paglia, «denominazione presa dalla consumazione che ne faceano i discepoli della Università posta una volta in quella contrada, i quali vi sedevano sopra nelle loro scuole, non usandosi in quei tempi sedie o banchi nemmen nelle chiese, che s'ingiuncavano al bell'uopo di paglie e di erbe odorose, etc.» Saint-Foix, Essais historiques sur Paris. Così l'annotatore al passo citato della Divina Commedia, edizione di Padova, 1822. Ed io aggiungerò di aver letto in un articolo del signor Amedeo Berger nel Journal des Débats, 25 maggio 1858, che in quella strada appunto abitò Dante Alighieri quando nel 1308 dimorò in Parigi.