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lettera XII  a Urbano V

Immagine di papa Urbano V

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LIBRO DECIMO PRIMO

LETTERA XII

AD URBANO V PAPA

 

Multa iam nunc

 

Gli raccomanda la causa del Padre Tommaso da Frignano Generale de' frati minori.

[Padova, 1 gennaio 1363]

 

 

 

Molti sono, Beatissimo Padre, gl'impedimenti che vedo pararsi innanzi al mio proposto: la tua grandezza, la piccolezza mia, la difficoltà della cosa di cui intendo parlarti. Ma il primo di questi ostacoli viene rimosso dalla sperimentata bontà dell'animo tuo: il secondo dalla fedele mia devozione che spero a te conosciuta: il terzo dall'amore che porto al vero, e dall'odio che sento verso tutto ch'è falso. So quanto grande tu sei, ma so pure quanto sei indulgente e benigno, e mi soccorre alla mente quel Pario Gemino, che innanzi a Cesare declamando diceva: «coloro che ardiscono parlare al tuo cospetto ignorano la tua grandezza: ignorano la tua bontà quelli che non ne hanno il coraggio.»

Conosco dall'altra parte la mia piccolezza, ma so d'essere schietto e fedele, per modo che quando mi parve necessario il farlo non solamente a te, ma osai parlare ancora contro di te; e tu fra gli uomini il più benigno non solamente lo tollerasti, ma ti piacesti di darmene lode. E questa è vera grandezza degna dell'uomo: non tanto per potere e per dignità, quanto per umanità e per cortesia soprastare ad ogni altro. Comprendo finalmente la gravità della causa nella quale senza che alcuno mi abbia chiamato, io vengo a fare da testimonio: cosa che negli ordinari giudizi sarebbe capace d'ingerire qualche sospetto; ma vale a scusar questo ardire lo zelo che mi spinge e m'infiamma a sostenere le ragioni del vero.

E perché mal si conviene con troppo lungo discorso distrarre l'animo tuo dalle sue sante occupazioni, entro senz'altro in materia, e vengo a parlare di dolorosa istoria. Il padre Tommaso, lettore insigne in Sacra Scrittura, uomo chiarissimo, e Generale dell'ordine de' frati minori, verso il quale per molte ragioni, ma specialmente per ossequio al suo fondatore io nutro tanto affetto quanto se fossi un dell'ordine anch'io, trovasi addotto in gravissimo pericolo dello stato, e dell'onor suo, per trama ordita da non so quali ma per fermo non da buoni: perocché come i malvagi non possono portare amore ai buoni, così non possono questi odiarli. Ahi! fatto indegno, e vergognoso che solamente udito spiace e addolora, come da lungi scagliata ti ferisce una saetta.

E chi potrebbe soffrir di vedere il turpe spettacolo, che pur narrato ti mette orrore, d'uomini illustri e preclari esposti al morso dell'invidia e ai colpi della calunnia, e negata ogni riverenza alla virtù, e scatenato a danno della gloria l'odio e il livore? Turpe, io diceva, ed indegno uno spettacolo così fatto: non nuovo, è vero, né inusitato, ma pur mirabile, perché parrebbe che sotto gli occhi tuoi tanto non dovesse osare l'invidia. Del resto, so bene che antica è tal peste. Taccio i remoti esempi di Socrate, di Taramene, di Anassagora, di Cicerone, di Seneca, di Rutilio, di Metello, ai quali sola la virtù fu cagione d'esilio e di morte. Ma parlando de' tempi a noi più vicini, quanto non ebbero a soffrire per la fede di Cristo Atanasio ed Ambrogio, de' quali il primo inseguito dagli eretici fu costretto ad errare per mezzo mondo, ed a patire tormenti che mettono ribrezzo nell'animo di chiunque ne legga la lamentevole istoria: e l'altro dentro le mura della sua stessa città dagli Ariani e dall'imperatrice Giustina, che contro lui si valse della pienezza della sua autorità, sofferse crudelissimi trattamenti?

Ed Agostino? Non fu egli forse debitore della vita ad un fortunato errore per cui, sbagliando strada, scampò alle insidie che gli avevano tese gli eretici? Le opere di Girolamo e di Giovanni Crisostomo ci serbarono memoria delle persecuzioni da loro sofferte. E di quel santo e dottissimo che fu Boezio Severino non è chi ignori come l'innocenza e le virtù che gli dischiusero il cielo, in terra non altro gli fruttassero che l'infamia, la proscrizione, l'esilio, la morte.

E sarebbe veramente un non finirla mai chi tutti rammentar li volesse: perocché infinito n'è il numero, anzi non fu giammai che alcun si mettesse nel retto sentiero della virtù e della fede, e fatto non fosse segno e bersaglio delle persecuzioni. Non dice forse l'Apostolo scrivendo a Timoteo, che coloro i quali vogliono piamente vivere in Cristo saranno tutti perseguitati, mentre i seduttori e i malvagi progrediranno di male in peggio? E progrediscano pure in peggio, e giungano, se così vogliono, ai confini estremi del pessimo, ma sia per danno d'essi medesimi e non de' buoni: anzi vadano con i loro errori alla malora, come dice l'Apostolo stesso, ma non siano, come quegli prosegue, cagion d'errore anche ad altri, siccome pur troppo vediamo che, iniquamente adoperando ogni arte di nequizia, essi si studiano di fare.

Che se colle infami loro mene riescano pure ad ingannare qualcuno, te non ingannino, e invulnerabile ai loro attacchi resta tu solo invitto atleta e difensore della giustizia. Altro non si chiede da me, e da tutti coloro che amano il vero, e sorgono a difesa dell'oltraggiato onore di un uomo sì fatto. Chè non io solo, meschino ed ultimo fra tutti gli uomini, a te per questo mi volsi scrivendo; ma so che molti ti scrissero, e molti, spero, ti scriveranno, né sarà chi di buon animo a quello che io scrivo non acconsenta, tranne i malvagi a cui l'invidia e il livore infiamma il petto per la rovina de' buoni. Vedi a' tuoi piedi prostrata supplichevole tutta l'Italia, odi la voce della Chiesa universa, ascolta le preci dell'ordine venerabile avvalorate da quelle del santo padre Francesco, che scalzo e povero dal cielo ti si mostra, e ti chiede che in tua giustizia ti piaccia soccorrere al suo ministro, e non permetta che un uomo a Cristo e a sé tanto caro sia lacerato dai denti di fiere belve, o schiacciato sotto il peso di una prepotente invidia.

Emmi peraltro cagione di meraviglia e di dolore il sapere, se pur non mentisce la fama, che un grande e potente signore, cui l'altezza del grado tener dovrebbe lontano da queste sozze discordie, non solamente francheggi di sua protezione gli accusatori, ma mentre forse non avrebbero essi soli osato tanto, ei li abbia spinti e consigliati a muovere questa guerra. Or come non dolersi, come non stupire che tale impura nebbia di livore e d'invidia siasi potuta sollevare tant'alto, ed offuscare la serenità di una mente locata in grado così sublime? Sebbene a scemare la meraviglia mi soccorre l'esempio di M. Catone censore, uomo sapientissimo, nella cui vita sol questo fatto è biasimevole; che a danno del gloriosissimo Africano eccitò egli stesso perfidi accusatori; ma il Senato ed il popolo nei comizi degnamente li rimeritarono dichiarando ch'essi cercavano di farsi un nome calunniando quell'uomo gloriosissimo.

E spero che il medesimo per sentenza tua, o giustissimo giudice e scrutatore de' cuori, verrà definito di costoro, ai quali in pena del fatto loro insegnerai non col diffamare altrui, ma coll'esercizio della propria virtù doversi cercare la nominanza e la gloria. Offusca, è vero, talvolta anche le anime grandi la caligine delle umane passioni, ma poco dura al soffio purissimo della ragione che la disperde. Bene dunque, e secondo che all'alta dignità del suo grado si addice, farebbe quel grande, il cui nome mai senza lode non vorrei proferire, se quell'autorità onde si valse ad eccitarli, ora tutta spiegasse a ritrarli indietro, e a farli desistere dalla mal'opra. Che se, come dicono, a lui di tanto sdegno fu cagione il vedere conferito a costui il generale governo dell'Ordine, al quale o non voleva ch'ei fosse eletto, o bramava che eletto venisse un altro, accagionare ei ne deve gli elettori non esso, che scevro d'ogni ambizione, e ignaro al tutto di quanto da quelli si operava, assunto si vide per fatto loro a quel laborioso ministero. Del resto faccia pur egli a senno suo, e moderi o sciolga il freno all'ira. Tu però non vorrai permettere che al cospetto di Cristo, e mentre in nome di Cristo tu reggi la Chiesa possa chicchessia impunemente denigrare la fama e lacerare l'onore degli uomini illustri. Pieno di questa fiducia non voglio su tal materia più trattenerti, e quello per cui mi mossi a scriverti senz'andar per le lunghe con fide, sincere e reverenti parole mi faccio ad esporre. So bene che come nel giudicar di me stesso, così, anzi più facilmente ingannare io mi posso nel giudicare di un altro: tanto sono profonde ed inaccessibili le latebre dell'animo umano. Ma se a formare un retto giudizio possono giovare e la pubblica fama, e le opinioni di persone degne di fede, e più di tutto il consorzio, e la vicendevole familiare conversazione, apertamente io dirò quel che sento di lui. Sogliono i superbi prestar poca fede a testimonio di umile condizione: ma tu, amico dell'umiltà, e vicario della verità vivente sprezzar non puoi l'umile ma sincera, breve ma integerrima testimonianza ch'io faccio al vero. A te d'innanzi m'invitano a prestarla, non autorità di giudice terreno, ma Cristo e la mia coscienza.

Per l'uno dunque e sull'altra, e pel santo tuo capo, capo venerando ai monarchi, affinché non si dica che il testimonio non fu giurato solennemente, io giuro che in quanto sono per dire nulla v'ha di falso, tutto è verissimo. Intimamente, o Padre Santo, io conosco il maestro Tommaso di cui si tratta, e lo conosco per uomo eccellente, integerrimo: chiaro per dottrina, più chiaro per virtù, e quel che più monta per religiosa pietà, per purezza di cattolica fede quanto la luce del sole chiarissimo, tale insomma a parer mio che a dir tutto in una parola vorrei che l'anima mia fosse pari alla sua.

Ben altro potrei dire di lui, e mai non troverebbe fine il discorso, se a parlare imprendessi del grave contegno, delle soavi maniere, del candor de' costumi, del tenore della vita austera, sobria, astinente, della fervida devozione, dell'umiltà, del disprezzo verso se stesso e verso il mondo, della misericordia, della carità non infinta, e di mille e mille altre doti onde egli adorna ha la mente ed il cuore: ma ad uomo quale tu sei basta il poco ch'io dissi, e basterebbe ancor meno. Onde muovano le accuse tu già lo sai. Cagione di dolore e di paure, non già per lui, che securo in sua coscienza non teme di nulla, ma sì per me e per altri molti è l'odio di quelli che lo accusarono: ma di speranza e di conforto è cagione la bontà e la sapienza di chi deve giudicarlo.

Esser non può che innanzi al tuo tribunale la virtù e la gloria perseguitate e depresse dal livore, dalla invidia, non risorgano coll'aiuto del tuo braccio più lucide e più belle, e come oro purissimo, non acquistino dall'attrito novello splendore. A Dio ed a te tutta si affida la speranza di un innocente. Te Cristo intanto salvo ed incolume serbi alla Chiesa, e dopo lunghissimi anni di vita gloriosamente impiegata in sante fatiche, con placido e facile transito alla gloria ti adduca degli eterni riposi.

Di Padova, il 1 di gennaio.